1250, fine novembre
«Lancialo» disse l’imperatore.
Lui portò avanti il braccio. L’uccello stava immobile, in attesa, gli artigli ben saldi sul guanto di cuoio. Ne avvertiva la tensione.
Gli tolse il cappuccio e gli occhi rotondi, di un giallo chiaro a denotare la sua giovane età , guizzarono subito su di lui. Curiosi e rapaci. Con gesto lento sganciò la catenella che lo assicurava al suo polso. Lo vide spalancare le ali, impaziente. Già pregustando l’eccitazione del volo e della caccia.
«Adesso vai» bisbigliò, perché solo l’uccello potesse udirlo.
Un movimento imperioso del braccio e il falcone si lanciò in volo, tagliando in due il cielo. Poi sembrò fermarsi, le piume delle ali immobili a disegnare il grigio di una nube. Avvistò subito la preda e diede inizio alla danza elegante della caccia.
Il piccolo uccello si accorse del rapace e il suo volo tranquillo ebbe un sussulto, poi si fece frenetico. Il falcone gli arrivò accanto senza affrettarsi, potente e letale. Volò per qualche istante sopra di lui, come una madre amorosa. Ali di velluto lente e morbide contro ali che sbattevano convulse. Uno già vittorioso, l’altro già sconfitto.
Era astuto. Dominava la sua preda costringendola ad abbassarsi. Giocosamente crudele. Poi un guizzo di rapina, e ne afferrò la punta dell’ala col rostro. L’uccello cominciò a dibattersi, a stridere, a gemere. Atterrito, impotente.
Piombarono giù nella boscaglia come scaraventati dal pugno di un dio.
Loro spronarono i cavalli per raggiungerli.
«Hai fatto un buon lavoro con quel falco» disse l’imperatore.
Aveva deciso per una pausa della caccia, e adesso stavano sotto la piccola tenda che i servi avevano montato in una radura. L’umidità impregnava i mantelli e il freddo mordeva le ossa, così avevano acceso un fuoco dentro un braciere. Nella tenda arrivavano le voci degli uomini del seguito, parole, esclamazioni, qualche risata. Matthias si trovava con loro quando l’imperatore lo aveva mandato a chiamare.
Federico era quello di sempre, eppure gli pareva diverso. Cercò di capire perché. Il suo corpo era asciutto e muscoloso come quello di un giovane. Il volto era privo di rughe, come quello di un giovane. Quasi non riusciva a distinguere i pochi fili bianchi tra i lunghi capelli di un biondo ancora ardente. La voce era forte e imperiosa. Forte anche quando parlava in tono sommesso.
Poi capì che erano gli occhi. Apparivano infossati, lividi. Il celeste delle iridi era privo di quell’intensità che sembrava trafiggere. Come se una estenuata indolenza avesse preso il posto della ferocia. Perché l’imperatore aveva la stessa natura dei rapaci che amava. Aveva vissuto, regnato, combattuto le sue guerre, amato le sue donne, studiato i mille codici della sua biblioteca con quella implacabile determinazione che gli faceva raggiungere ogni traguardo prima di chiunque altro. E che riusciva a trasformare in vittorie anche le sconfitte. O almeno così raccontava Pier de la Vigna, che lo conosceva bene, quando al castello era ancora accolto come amico.
«Vi ringrazio, maestà » disse.
Stava in piedi davanti a lui, e l’emozione gli rese rauca la voce. La paura di dire le parole sbagliate, di non saper rispondere alle sue domande, di deluderlo.
«Vi ringrazio di avermi affidato il falcone» aggiunse, perché la prima frase non gli era sembrata sufficiente.
«Hai avuto problemi con l’addestramento?»
Quella era una domanda facile.
«L’ho addestrato ogni giorno. All’inizio non mostrava ardimento. L’ho nutrito con polmone di lepre, gli ho bagnato il becco con vino corposo… come ho sentito da voi, maestà . E così ha preso coraggio. Anzi, è diventato ribelle.»
«Non mi è sembrato ribelle.»
«Perché adesso, dopo l’addestramento, si fida di me.»
«Molto bene, Matthias.»
Ricordava il suo nome? Il cuore cominciò a picchiare forte. L’imperatore ricordava il suo nome.
«C’è stato un tempo, molti anni fa, che i falconi mi ubbidivano perché avevano paura di me» disse Federico. «Ero io, con queste mie mani, a cucire le loro palpebre. Fino a quando, a Gerusalemme, ho visto che i saraceni mettevano un cappuccio di cuoio ai falconi. Era così semplice. Così incruento. A volte la soluzione più ovvia ci sfugge, pur essendo lì, davanti ai nostri occhi. Siamo più ciechi di un falcone cieco.»
Lui sospettò che l’imperatore non stesse parlando solo di caccia. Che stesse parlando della vita.
Stava per chiederglielo, quando lo vide rabbrividire.
«Il sudore si è gelato, sotto gli abiti» disse.
Matthias si avvicinò al braciere e cercò di alimentare il fuoco, aggiungendo rami secchi da un mucchietto lì vicino. Poi versò in un boccale del vino addolcito con miele, estrasse dal fodero il coltello da caccia, arroventò la lama e la immerse nel vino. Arroventò e immerse più volte, infine lo porse a Federico.
«Bevete, maestà . È caldo, vi farà bene.»
Lui afferrò il boccale con entrambe le mani e bevve lunghi sorsi.
«Maledetto freddo» imprecò poi. «Mi è sempre piaciuto andare a caccia nel rigore dell’inverno, con il gelo che fa lacrimare gli occhi e il vento che ti sferza il viso. Il fuoco della caccia ha sempre reso piacevoli gli inverni, ma sembra che oggi io non riesca a resistere neppure alla mite inclemenza autunnale.» Si strinse nella pesante pelliccia, alzandosela intorno al viso. «Mandi il falcone a caccia di anatre?»
Adesso lo stava osservando come se fosse ansioso della risposta. Ma anche quella era una domanda facile.
«No, signore. Se voglio che vada a caccia di grandi uccelli non posso fargli gustare le anatre. Il loro sangue è così dolce che poi rifiuterebbe i grandi uccelli.»
L’imperatore sorrise. «Vedo che ricordi tutto quello che ti ho detto. Eri piccolo quando ti ho parlato delle anatre.»
«Maestà , io ricordo ogni singola parola che mi avete rivolto.»
Era invece bizzarro che Federico, in mezzo ai mille eventi della sua vita e alle innumerevoli curiosità a cui trovare risposta, conservasse un angolo della sua memoria per un bambino che amava i falconi.
Matthias aveva avuto tre volte il privilegio di parlargli.
La prima volta quando la sua esuberanza di fanciullo lo aveva reso audace e così aveva osato rivolgergli domande su quei rapaci misteriosi che lo affascinavano. L’imperatore era solo, sul camminamento delle mura. Capitava raramente che non fosse accompagnato, e gli era sembrata un’occasione irripetibile. Lo aveva raggiunto e si era fermato a osservare la sua espressione intensa. Guardava lontano, forse più lontano dell’orizzonte, aveva pensato. E d’altra parte l’orizzonte per Federico esisteva solo perché fosse superato. Il suo sguardo si spingeva sempre oltre. Oltre le montagne, oltre la nebbia che rendeva ogni confine labile e inconsistente, addirittura oltre il mistero del cielo. Non esistevano limiti nella sua vita, così come non esistevano nella sua mente, ma questo lui lo aveva capito col tempo. Quella volta aveva solo delle domande da porgli, su quei rapaci dai piccoli occhi minacciosi e dal rostro temibile che però ubbidivano docili ai suoi ordini.
La seconda volta che gli aveva parlato era stato qualche mese prima. Federico lo aveva fatto chiamare per affidargli quell’astore giovanissimo e indocile.
«Ami ancora i falconi?» gli aveva chiesto.
Matthias aveva annuito senza trovare la voce per rispondergli.
«Mi hanno detto che non sei mai stanco di stare dietro al mio falconiere per imparare. Ti affido questo astore. È un uccello difficile, bizzoso, ma sono sicuro che farai di lui un buon compagno di caccia.»
Lui era rimasto ottusamente zitto, non riusciva a credere a quello che aveva udito. «Lo farò» aveva detto poi, con il tono di un sacro giuramento.
E quella era la terza volta che gli parlava. Dentro la sua tenda. Durante la sua prima caccia con l’imperatore.
«Muoviamoci, voglio stanare un cinghiale e arrivare al castello per cena» disse Federico uscendo dalla tenda.
Le cene dopo una battuta di caccia erano sempre lunghe e rumorose. Gli uomini annegavano la stanchezza nel vino e si ingozzavano di cibo. Festeggiavano con risate e rutti tonanti la vittoria dell’uomo sui cinghiali selvatici. Poi si addormentavano sul tavolo, o in un angolo della sala o sul gradone dei focolari, sazi, ubriachi e felici.
L’imperatore fu il primo a montare a cavallo.
Tutti si mossero dietro di lui. Il barone Franciscus di Torre Ventosa bevve un sorso dalla borraccia e balzò in sella. Era un fedele amico di Federico e condivideva con lui la passione per la caccia. I bracchieri fischiarono ai cani. I battitori afferrarono raganelle e tamburelli per spaventare la selvaggina. Un cavallo nitrì. I guerrieri saraceni della scorta erano già in sella. Presto furono tutti pronti, solo due servi rimasero indietro per smontare la tenda e raccogliere i resti del cibo.
Per un po’ procedettero al passo. Matthias udiva lo sbattere di un mantello, un guizzo veloce nel sottobosco, il rumore smorzato degli zoccoli che affondavano nel fango e poi ne uscivano con un risucchio viscido. I segugi tiravano mugolando, impazienti di preda.
Poi l’imperatore spronò il cavallo e lui lo imitò, seguendolo da vicino.
Gli uomini della scorta dietro di loro.
Un odore di marcio che prima non aveva avvertito gli riempì le narici. Un sentore di foglie che si disfacevano. Il cielo adesso era plumbeo e una strana luminosità metallica rendeva sinistro il paesaggio. Forse annunciava la neve.
La sua inquietudine si trasmise al falcone che agitò le ali, nonostante avesse il cappuccio.
E fu in quel momento che Federico si piegò sul collo del cavallo ringhiando un’imprecazione.
D’istinto lui spronò per accostarsi, e così riuscì a impedire che l’imperatore scivolasse al suolo.
I saraceni della scorta lo tirarono giù dalla sella e lo fecero sdraiare su una coperta che qualcuno si era affrettato ad allargare sul terreno. Federico si torceva in preda agli spasmi. Imprecava e i suoi gemiti sembravano i ruggiti di una belva ferita.
«Cosa succede, maestà ?»
«Cosa succede?»
L’imperatore si afferrava il ventre e si contorceva.
«Dategli qualcosa che lo riscaldi. Del buon vino.»
«Tenetegli su la testa.»
Lui scalciava e urlava. Non lo avevano mai visto così, sembrava atterrito.
«Mio padre è morto nello stesso modo. Pugnalate di dolore al ventre.»
Gli uomini si guardarono, lo sgomento negli occhi di tutti.
«State tranquillo, è il freddo. Adesso vi portiamo alla reggia.»
Matthias si fece largo per avvicinarsi e guardò l’imperatore. Adesso sì che sembrava un vecchio. Il viso raggrinzito dal dolore, gli occhi stretti, la pelle grigiastra. Ebbe paura. La stessa gelida e infuocata paur...