Alle dieci di un mattino sferzato dalla pioggia nel West End di Londra, una giovane donna con una giacca a vento sformata e una sciarpa di lana sulla testa camminava a passo deciso sotto il temporale che imperversava in South Audley Street. Si chiamava Lily, ed era in uno stato di tensione emotiva che a tratti si mutava in indignazione. Con una mano guantata si riparava gli occhi dalla pioggia mentre guardava torva i numeri civici, e con l’altra mano spingeva un passeggino con la copertura di plastica che conteneva Sam, il suo bambino di due anni. Alcune case erano talmente maestose che non avevano neppure il numero. Altre avevano il numero ma appartenevano alla via sbagliata.
Arrivata davanti a un portone pretenzioso con il numero dipinto in modo insolitamente chiaro su uno dei pilastri, Lily salì i gradini all’indietro trascinando il passeggino, osservò accigliata l’elenco di nomi accanto ai campanelli dei proprietari e piantò il dito sull’ultimo in basso.
«Spinga, cara, la porta è aperta» le suggerì dal citofono una benevola voce femminile.
«Devo vedere Proctor. Lei ha detto Proctor e nessun altro» ribatté Lily.
«Stewart sta arrivando, cara» annunciò la stessa voce rassicurante, e pochi istanti dopo la porta si aprì a rivelare un uomo esile e occhialuto sui cinquantacinque anni, con il corpo inclinato a sinistra e una lunga testa simile a un becco, piegata da un lato con aria indagatrice e un po’ divertita. Accanto a lui c’era una matrona dai capelli bianchi con indosso un cardigan.
«Sono Proctor. Le serve una mano con quello?» disse l’uomo, sbirciando nel passeggino.
«Come faccio a sapere che è proprio lei?» domandò a sua volta Lily.
«Perché la sua riverita madre mi ha telefonato ieri sera al mio numero privato per sollecitarmi a venire qui.»
«Aveva detto da solo» obiettò Lily, guardando in cagnesco la matrona.
«Marie si occupa della casa. Ed è sempre pronta a dare una mano in caso di necessità» disse Proctor.
La matrona si fece avanti, ma Lily la ignorò, e Proctor chiuse il portone alle sue spalle. Nel silenzio dell’atrio, Lily tirò indietro la copertura di plastica fino a scoprire la testa del bambino addormentato. Aveva i capelli neri e ricciuti, l’espressione invidiabilmente soddisfatta.
«È stato sveglio tutta la notte» spiegò Lily, posandogli una mano sulla fronte.
«Com’è bello» disse la donna di nome Marie.
Spostandosi sotto la scala, dove era più buio, Lily rovistò nella parte inferiore del passeggino, estrasse una grande busta bianca senza alcuna scritta e si piazzò davanti a Proctor. Il suo mezzo sorriso le ricordava l’anziano prete a cui doveva confessare i propri peccati in collegio. Non le erano mai piaciuti né la scuola né il prete, e non intendeva farsi piacere Proctor adesso.
«Devo aspettare qui finché non l’ha letta» lo informò.
«Ma certo» concordò amabilmente Proctor, scrutandola un po’ di sbieco da dietro le lenti degli occhiali. «E posso anche dire che sono molto, molto dispiaciuto?»
«Se ha una risposta per lei, devo trasmetterla a voce» disse Lily. «Non vuole telefonate, messaggi o mail. Né dal Servizio né da nessun altro. Compreso lei.»
«Anche questo è molto triste» commentò Proctor dopo un momento di cupa riflessione e, come accorgendosi solo allora della busta che teneva in mano, la tastò incuriosito con le dita ossute: «Un’opera notevole, devo dire. Quante pagine, secondo lei?».
«Non lo so.»
«Carta intestata?» chiese ancora Proctor, sempre tastando. «Non può essere. Nessuno ha una carta intestata di queste dimensioni. Normale carta per stampanti, immagino.»
«Non ho visto cosa c’è dentro. Gliel’ho detto.»
«Ma certo. Be’,» disse Proctor, con un comico sorrisetto che per un istante la disarmò «al lavoro, dunque. A quanto pare mi aspetta una lunga lettura. Mi perdona se mi ritiro?»
In un salotto spoglio che si apriva direttamente in fondo all’atrio, Lily e Marie si sedettero l’una di fronte all’altra su due bitorzolute poltrone scozzesi con i braccioli di legno. In mezzo a loro, sopra un tavolino di vetro graffiato, c’era un vassoio di latta con un thermos di caffè e biscotti al cioccolato. Lily aveva rifiutato entrambe le cose.
«Allora, come sta?» chiese Marie.
«Abbastanza bene, date le circostanze, grazie. Per una che sta morendo.»
«Sì, è terribile, certo. Lo è sempre. Ma come sta di spirito?»
«Ha tutte le rotelle a posto, se è questo che intende. Non vuole la morfina, non la tollera. Scende per cena quando ce la fa.»
«E mangia ancora volentieri, spero?»
Incapace di sopportare oltre, Lily uscì a passo deciso dalla stanza e si occupò di Sam finché non apparve Proctor. La sua stanza era più piccola della prima e più scura, con tende di voile spesse e sudicie. Preoccupato di mantenere una rispettosa distanza fra loro, si sistemò accanto al termosifone sulla parete opposta. A Lily non piaceva la sua espressione. Sei l’oncologo dell’Ipswich Hospital, e quello che stai per dire è riservato ai parenti stretti. Mi dirai che sta morendo, ma questo lo so, e allora cosa resta?
«Do per scontato che lei sappia cosa dice la lettera di sua madre» cominciò Proctor in un tono piatto, non più quello del prete a cui Lily non voleva confessarsi, ma quello di una persona molto più reale. E vedendo che lei si preparava a negare, aggiunse: «Il senso generale, almeno, se non il contenuto vero e proprio».
«Gliel’ho già detto» ribatté aspramente Lily. «Né il senso generale né altro. La mamma non me l’ha detto e io non gliel’ho chiesto.»
Era il gioco che facevamo nel dormitorio del collegio: per quanto tempo riesci a guardare negli occhi l’altra ragazza senza battere le palpebre o sorridere?
«Va bene, Lily, mettiamola diversamente» suggerì Proctor con pazienza esasperante. «Lei non sa cosa c’è nella lettera. Non sa di cosa parla. Ma ha detto a questo o quell’amico che faceva un salto a Londra per consegnarla. Allora, a chi l’ha detto? Perché dobbiamo assolutamente saperlo.»
«Non ho detto un cazzo di niente a nessuno» disse Lily, fissando la faccia inespressiva di fronte a lei. «La mamma mi ha detto di non dirlo, e io non l’ho detto.»
«Lily.»
«Cosa?»
«Io so molto poco della sua situazione personale. Ma il poco che so mi fa pensare che debba avere un partner di qualche genere. Cosa gli ha detto? O se è una lei, cosa le ha detto? Non può allontanarsi dalla sua famiglia affranta per un giorno intero senza addurre qualche scusa. Cosa c’è di più umano che dire, così, di sfuggita, al proprio ragazzo, alla propria ragazza, a un amico, persino a un semplice conoscente: “Indovina un po’? Faccio un salto a Londra per recapitare una lettera supersegreta di mia madre”?»
«Mi sta dicendo che è umano? Per noi? Parlare così fra noi? Con un semplice conoscente? La cosa umana è che la mamma mi ha ordinato di non dirlo ad anima viva, e io le ho obbedito. In più sono indottrinata. Da voialtri. Sono arruolata. Tre anni fa mi hanno puntato una pistola alla tempia e mi hanno detto che ero abbastanza grande per tenere un segreto. In più non ho un partner, e non ho un branco di amichette a cui spiffero tutto.»
Di nuovo il gioco degli sguardi.
«E non l’ho detto neanche a mio padre, se è questo che vuole sapere» aggiunse Lily, in un tono che assomigliava a una confessione.
«Sua madre le ha imposto di non dirglielo?» domandò Proctor, alquanto più bruscamente di prima.
«Non mi ha detto di dirglielo, perciò non gliel’ho detto. Noi siamo così. La nostra famiglia è così. Fra noi ci comportiamo con discrezione. Forse lo fa anche la sua famiglia.»
«Allora mi dica, se non le dispiace» continuò Proctor, lasciando da parte quello che la sua famiglia faceva o non faceva. «Per un mio interesse personale. Quale pretesto ha addotto per la sua visita a Londra?»
«Vuol dire qual è la mia storia di copertura?»
Il volto scarno di fronte a lei si illuminò.
«Immagino di sì» ammise Proctor, come se il concetto di storia di copertura gli giungesse nuovo, e lo trovasse persino divertente.
«Andiamo a visitare una scuola materna nella nostra zona. Vicino al mio appartamento a Bloomsbury. Vogliamo mettere in lista Sam per quando compirà tre anni.»
«Ammirevole. E lo farà davvero? Visiterà una vera scuola? Con Sam? Incontrerà il personale e così via? Lo metterà in lista?» Ora Proctor era lo zio interessato, e anche piuttosto convincente.
«Dipende da come starà Sam quando potrò portarlo fuori di qui.»
«Se è possibile lo faccia, per favore» la esortò Proctor. «Le renderà tutto molto più facile quando tornerà a casa.»
«Più facile? Cosa sarà più facile?» chiese Lily, adombrandosi nuovamente. «Più facile mentire, intende?»
«Intendo più facile non mentire» la corresse Proctor, sollecito. «Se dice che visiterà una scuola con Sam e poi la visita davvero, e dopo torna a casa e dice di averla visitata, dove sta la bugia? Lei è già abbastanza sotto pressione. Non riesco a immaginare come possa sopportare tutto questo.»
Per un momento sconcertante, Lily capì che parlava sul serio.
«Allora rimane la questione» continuò Proctor, tornando al dunque «di quale risposta dovrei chiederle di portare alla sua coraggiosissima mamma. Perché le spetta una risposta. E deve averla.»
Si interruppe, come se si aspettasse un piccolo aiuto da lei. Vedendo che non arrivava, proseguì.
«E, come lei ha detto, potrà essere trasmessa solo a voce. E dovrà farlo lei, da sola. Lily, mi dispiace tanto. Posso cominciare?» Cominciò comunque. «La nostra risposta è un sì immediato a ogni richiesta. Quindi tre sì in tutto. Il suo messaggio è stato preso sul serio. Le sue preoccupazioni non rimarranno inascoltate. Tutte le sue condizioni verranno soddisfatte. Riuscirà a ricordare tutto?»
«Almeno le parole brevi.»
«E naturalmente un enorme ringraziamento per il suo coraggio e la sua lealtà. E grazie anche a lei, Lily. Di nuovo. Mi dispiace tanto.»
«E mio papà? Cosa dovrei dirgli?» domandò Lily, senza lasciarsi rabbonire.
Quel sorriso comico, ancora una volta, come un segnale di avvertimento.
«Sì, uhm. Può dirgli della scuola materna che andrà a visitare, no? Dopotutto, è per questo che oggi è venuta a Londra.»
Camminando fra le gocce di pioggia che schizzavano su dal marciapiede, Lily raggiunse Mount Street, dove chiamò un taxi e ordinò all’autista di portarla alla stazione di Liverpool Street. Forse aveva davvero pensato di visitare la scuola. Non lo sapeva più. Forse lo aveva annunciato la sera prima, anche se ne dubitava, perché a quel punto aveva ormai deciso che non si sarebbe mai più giustificata con nessuno. O forse l’idea non le era venuta finché Proctor non gliel’aveva tirata fuori. L’unica cosa che sapeva era che non intendeva visitare nessuna maledetta scuola per fare un piacere a Proctor. Che andassero tutti al diavolo, lui e le madri morenti e i loro segreti.