Furono accolti da un compitissimo cameriere in livrea, che li accompagnò attraverso una sala semivuota fino a una porta chiusa. La aprì, restò sulla soglia e li fece entrare.
Massimo apprezzò la musica in sottofondo, le luci basse e i colori caldi dell’ambiente. Nella saletta c’erano due tavoli, uno lunghissimo per almeno una dozzina di persone e l’altro per due. La scelta fu obbligata, e il cameriere stappò una bottiglia di vino rosso che attendeva su una mensola di fianco.
Pancaldi prese il menu, e sorrise:
«Un po’ pretenzioso, forse, come molte cose in questa città . Alla mia gente piace mostrarsi migliore di quello che è, devo ammetterlo. Le consiglio roast beef e purè, professore. Davvero ottimi. Il vino lo gradisce?»
L’altro si strinse nelle spalle:
«Pancaldi, sa quanto me che non sono qui per mangiare. La ringrazio per l’invito ma va bene qualsiasi cosa, purché finalmente ci parliamo con un po’ di chiarezza.»
Il vicepresidente diede indicazioni al cameriere, poi sembrò trovare pace sulla sedia. Di lì a poco furono serviti.
«Sono d’accordo, professore. Ma mi dica, mi dica: da chi ha saputo come stava suo genero nella scorsa primavera? Forse da Alba?»
Massimo non rispose, si limitò a fissarlo.
«Capisco, e apprezzo la sua discrezione. È evidente, si tratta di una donna dotata di un grande spirito di osservazione. Anche se, allora, si tornava raramente a casa, le volte che il dottor Petrini ci riusciva, non doveva essere facile mascherare il suo stato d’animo. Quello che però mi incuriosisce veramente è come sia venuto a galla questo argomento. In fondo ha ben poco a che fare con tutto quello che è successo.»
Massimo si irrigidì:
«Mettiamo in chiaro una cosa, Pancaldi: vorrei essere io a fare le domande, e lei dovrà solo rispondere. Prendiamola come una piccola deformazione professionale. E diciamo che c’è una cosa che, più di tutte, mi interessa, ed è comprendere le circostanze precise in cui è accaduto l’incidente che ha portato alla morte di mia figlia. E di suo marito.»
L’ometto sussultò, forse non si aspettava un’uscita di tal fatta:
«Non capisco, professore. È stato un incidente, lo dice lei stesso, no? Quali dovrebbero essere le circostanze per cui...»
Massimo alzò la mano, per tacitarlo:
«Abbiamo detto che le domande le faccio io, Pancaldi. Altrimenti la ringrazio, me ne vado e cercherò altrove. In quel caso, però, non posso certo promettere discrezione e riservatezza, le pare?»
Ancora una volta Pancaldi trasalì; si arrese e restò in attesa.
«Dunque» disse il professore, «continui quello che mi stava dicendo in macchina. Che cosa è successo, nel maggio scorso?»
L’altro si ricompose come se fosse pronto a raccogliere le idee e cominciò a parlare:
«La cosa in sé è piuttosto banale, professore. E comincia tre anni fa. La nostra azienda, come appare evidente dall’esterno, è molto florida. È cresciuta stabilmente nelle mani del fondatore, il nonno di suo genero, poi di suo padre. Tutti hanno portato avanti il core business, che è la trasformazione dei prodotti agroalimentari del territorio. Ognuno ha aggiunto qualcosa, allargando i settori d’interesse. Semplicemente, suo genero voleva fare lo stesso: seguire la via dei suoi predecessori, secondo la stessa curva di crescita. Magari facendo anche meglio. Solo che le circostanze erano cambiate.»
«Che vuol dire, esattamente?»
Pancaldi tagliuzzava la carne nel suo piatto in pezzi sempre più piccoli, ma non aveva ancora portato nulla alla bocca.
«Voglio dire che una cosa è impiantare uno stabilimento a qualche chilometro di distanza, una cosa è acquisire un paio di cooperative nella regione confinante, una cosa è migliorare la logistica per essere più veloci nelle forniture rispetto alla concorrenza, una cosa è riuscire a penetrare nel mercato nordamericano, come hanno fatto le due generazioni precedenti; un’altra è provare a fare quello che ha voluto suo genero.»
Massimo non muoveva un muscolo:
«Sia più chiaro, Pancaldi. Abbia la pazienza che bisogna avere con un profano.»
L’ometto si strinse nelle spalle, e all’improvviso sembrò più vecchio: senza il cappotto in cui cercava riparo dal freddo era una figurina minuta, quattro ossa malvestite.
«La generazione di suo genero, professore, non si è mai voluta rassegnare a muoversi in un solco già tracciato. I padri e i nonni erano contadini, dotati di una visione industriale, ma non dimenticavano di essere contadini. Non facevano passi più lunghi delle gambe, mai. Questi, invece, hanno studiato, conoscono l’inglese e le teorie di Keynes. Pensano: se mio nonno, che era pressoché analfabeta, ha fatto della sua azienda una intrapresa nazionale, e mio padre, che era sì e no diplomato, l’ha fatta crescere del trecento per cento, io, che conosco il mondo e ho gli strumenti, devo per forza fare meglio. E invece hanno fatto la fine di Icaro. Tutto qui.»
Il professore disse, piano:
«Ma se mi ha detto lei stesso che l’azienda è florida, e la posizione nel mercato...»
Fu Pancaldi a interromperlo, stavolta:
«Quella sì, professore. Quella sì. Ma suo genero e i suoi giovani soci volevano fare qualcosa che li rendesse memorabili. Volevano lasciare il segno. E hanno comprato una grossa azienda concorrente, che impediva l’ingresso nel mercato orientale. Una società molto nota, con sede principale nell’Europa dell’Est. Un’acquisizione che doveva essere silenziosa e graduale, per non sollevare l’attenzione di altri competitor. Un’operazione essenzialmente finanziaria, che avrebbe avuto risvolti industriali e che sembrava uno step di crescita importantissimo. Erano tutti entusiasti. Parevano bambini in un parco giochi. Avrebbe dovuto vederli.»
Massimo piegò la testa di lato, come volesse osservare l’interlocutore da una prospettiva diversa:
«Lei era contrario, vero, Pancaldi? A lei l’operazione non piaceva.»
Pancaldi sorrise, triste, senza alzare lo sguardo dal piatto.
«No, professore. Non mi piaceva. Io ho lavorato a lungo col padre di suo genero, il consuocero che non ha mai conosciuto. Era un uomo rude, diretto, fiero delle sue origini contadine. Diceva, in dialetto, che a pisciare fuori dal proprio podere si correva il rischio di essere presi a pallettoni. E aveva ragione.»
Tacque, per alcuni secondi, scuotendo piano la testa.
Massimo chiese:
«Che è successo, a maggio?»
Pancaldi alzò gli occhi:
«Una scatola vuota, professore. Quell’azienda era una vecchia, gloriosa scatola vuota, con un gran nome ma vuota. Una quantità enorme di debiti insabbiati venne fuori tutta insieme. Nessuna garanzia governativa, l’obbligo di non licenziare migliaia di dipendenti. Una carcassa in decomposizione. Un bagno di sangue, che ha ingoiato quello che di buono la nostra società aveva costruito in cent’anni.»
Massimo non spiccicò parola, la notizia era troppo esplosiva.
«Ma si poteva uscirne, no?» azzardò infine. «Si rivendeva, si metteva la perdita a bilancio e si ricominciava a produrre. Si assorbiva, ci saranno state riserve, capitali pregressi. Com’è possibile...»
Pancaldi tradì l’insorgere di un antico sentimento di rabbia:
«Facile, a guardare da fuori. Ma i soldi che erano stati usati, caro professore, non erano nostri. Erano delle banche, e dei creditori: la società aveva emesso obbligazioni, aveva sottoscritto un debito. Un enorme debito. Tutta la città , imprenditori ma anche commercianti, pensionati, casalinghe. Tutti, facendosi forti del nome dei Petrini, avevano comprato le obbligazioni per sostenere l’affare. Sembrò giusto, sembrò opportuno e sembrò conveniente, perché i tassi erano fuori mercato. All’improvviso, così come per cent’anni la famiglia aveva arricchito tutto il territorio, in pochi mesi l’aveva rovinato. Lo capisce, sì? Se ne rende conto?»
Massimo annuì, in silenzio. Pancaldi distese i lineamenti e riprese, di nuovo pacato:
«E il bubbone esplose a maggio, questo era il motivo del nervosismo del dottore. Ci sono state sere che... Insomma, lo tenevo d’occhio. Temevo che facesse qualcosa di folle. A volte io... Non sono bravo a dare conforto, sa. Io sono un contabile. Però un paio di volte mi sono permesso di ricordare a suo genero che aveva un figlio e una moglie. E che come eravamo entrati in quella situazione, ne saremmo usciti. Che almeno si poteva provare.»
Restarono un po’ così, mentre Billie Holiday cantava sommessa dell’uomo che amava. Quello che Pancaldi non aveva detto, ma che Massimo aveva ugualmente capito, era il rimpianto per ciò che poi era comunque accaduto. I’d rather be lonely than happy with somebody else...
«E poi, cos’è successo?»
Pancaldi sorrise:
«È successo che suo genero ha tirato fuori il coniglio dal cilindro. Dopo giorni di terrore cupo, in cui pensavamo che avremmo dovuto chiudere, il dottore ha fatto quello che nel poker si chiama all in. Ha convocato le banche e i principali investitori e ha costituito a garanzia l’intero patrimonio. Tutto. Immobili, terreni, partecipazioni in aziende, depositi bancari, perfino i gioielli di famiglia, la villa dove abitava, il palazzo della madre. Tutto.»
Massimo era impressionato:
«Ed era sufficiente? Voglio dire, se l’operazione metteva a rischio addirittura la solidità di un’industria...»
L’ometto non aveva dubbi:
«Tre generazioni di arricchimento costante, professore. Cento anni di accumulo. Era sufficiente, sì. Le perizie sono state più generose del mercato, probabilmente: avesse dovuto vendere, non sarebbe stata realizzata una somma sufficiente. Ma gli investitori sanno che non conviene mai ammazzare la vacca perché per un giorno non ha dato latte. Volenti o nolenti, hanno dovuto puntare sulla crescita.»
«E quindi? Che è successo?»
Pancaldi si piegò in avanti, con una luce penetrante nei suoi occhietti:
«Ce la stavamo facendo, professore. Ci stavamo riprendendo. Ne saremmo usciti, perché la società è forte, molto forte. Ci stavamo progressivamente liberando di quella palla al piede, dismettendola un po’ alla volta a pezzi. Il piano sarebbe dovuto durare cinque anni, alla fine dei quali avremmo ricominciato a crescere.»
Massimo corrugò la fronte:
«Perché parla al passato, Pancaldi? Se il piano di rientro sta avendo successo, perché...»
All’improvviso spalancò gli occhi, comprendendo.
«Tutto» fece Pancaldi, «tutto era basato sulla garanzia di suo genero, professore. Tutto era fondato su quella decisione segreta. Siamo aggrappati a Francesco, al fatto che sia sopravvissuto, e alla possibilità che le fideiussioni siano confermate dall’unico erede. Cioè, naturalmente, dal suo tutore.»
Massimo era rimasto a bocca aperta, e non diceva niente. Quindi Pancaldi continuò:
«Esattamente, professore. Da lei. È questo il motivo per cui, e mi scusi se glielo dico, tutto l’ospedale è stato allertato per tenere in vita il bambino. Noi dipendiamo tutti dal fatto che lei accetti la tutela, e confermi le garanzie che ha dato suo genero. Se sarà così, io le assicuro che entro poco più di quattro anni il patrimonio sarà integro, migliaia di lavoratori non perderanno il posto e questa città resterà prospera. Altrimenti sarà la rovina.»
Massimo accelerò il ritmo dei pensieri, ma nessuno di quei pensieri riguardava il patrimonio:
«Mi dica, Pancaldi, come stava mio genero adesso? Era stressato, addolorato, instabile?»
Pancaldi lo fissò, come se non stesse capendo:
«No, direi proprio di no. Anzi, essere riuscito a venir fuori brillantemente dalla situazione lo aveva reso euforico, felice. Mi diceva...