Il gelo comanda
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Il gelo comanda

  1. 564 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

IL MONDO SONNECCHIA IMMERSO negli sporchi compromessi e nella violenza di sempre. Eppure c'è qualcosa che non va.

Ringil Eskiath porta avanti la sua guerra privata contro i mercanti di schiavi, e dentro di lui cova una voragine che potrebbe farlo sprofondare ma che alimenta anche nuovi, spaventosi poteri. Archeth, l'ultima Kiriath, lotta per far evolvere l'Impero, ma si trova ad affrontare le sue più segrete speranze, e i suoi terrori, proprio là dove i due sentimenti si confondono. Egar Rovina del Drago, irrequieto e deluso, intercetta il filo che sembra condurre alla scoperta di un pericolo agghiacciante. Perché un antico male solo addormentato si sta risvegliando, con tutto il suo carico di bellezza e orrore.

In questo secondo capitolo della sua fosca trilogia, Richard K. Morgan alza ulteriormente il tiro dell'audace traiettoria, facendo affondare i suoi eroi nella nebbia del dubbio e nella lotta contro i loro sogni spezzati. Una palude di disperazione da guadare stringendosi al petto i pochi amori che non cedono, e per i quali c'è il rischio di spingersi dove loro stessi, forse, non ci riconoscerebbero più.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804745259
eBook ISBN
9788835715498

1

Quando giunsero ai margini della foresta oltre Hinerion, Gerin vide l’aria arroventata tremolare nella distesa arida davanti a loro e capì di essere arrivato al momento della verità.
Vivere o morire, quella era la loro ultima occasione.
«Finiremo arrostiti laggiù» disse quella sera agli altri, seduti e incatenati mentre aspettavano di mangiare. «Avete sentito ciò che hanno detto le guardie. Ci vogliono almeno altre sei settimane per arrivare a Yhelteth, dritti a sud, e a ogni passo farà sempre più caldo. Credete che questi figli di puttana ci daranno più acqua o cibo di adesso?»
«Certo che sì, idiota.» Tigeth, massiccio e con il tipico pallore da cittadino, e a quanto pare troppo schifosamente pigro per volere la libertà a qualsiasi costo, sbuffò, inspirò e si soffiò il naso con le dita. Gli stava venendo il raffreddore, proprio come a metà carovana degli schiavi. Spazzò il moccio per terra e guardò in cagnesco Gerin. «Non lo capisci? Quando arriveremo a Yhelteth devono venderci. Come farebbero se schiattiamo o arriviamo ridotti pelle e ossa? Forse sei troppo giovane o stupido per capirlo, avanzo di palude, ma questi sono affari. Da morti non valiamo un cazzo.»
Avanzo di palude.
In alcuni quartieri di Trelayne era un insulto sufficiente a scatenare una sfida immediata e un duello all’alba nei campi di Colle Brillin. Altrove avrebbe provocato soltanto una coltellata e un tuffo nel fiume. Come accadeva per ogni altra cosa in città, le premesse erano valide per tutti, ma erano il patrimonio e il ceto a definire i dettagli. A monte o a valle del fiume, nelle Radure o nei ghetti attorno alla foce, c’era una verità diffusa: nessuno a Trelayne tollerava con leggerezza l’insinuazione di avere nelle vene il sangue degli abitanti delle paludi.
Gerin era cresciuto lì e non avrebbe vissuto in città nemmeno se l’avessero pagato. Sorvolò sull’epiteto, come aveva visto fare alla sua gente da nemmeno ricordava più quanto.
Ma la posta in gioco è troppo alta, adesso.
«Mai visto i pescherecci arrivare in porto, Tigeth?» chiese pacato. «Pensi che ogni pesce nella rete finisca sui banchi del mercato?»
Gli anelli di una catena sferragliarono violenti alle spalle di Gerin, poi si udì una voce tesa e arrabbiata nell’oscurità incombente.
«Di che cosa vai cianciando? Pesce?»
Era un altro tizio di città, Gerin non ne ricordava il nome, ma era più magro e segnato dal lavoro rispetto a Tigeth. Nella settimana di marcia a malapena aveva pronunciato una parola; nelle pause per riposarsi, passava il grosso del tempo a fissare il vuoto, la mascella serrata che masticava, quasi tra i denti avesse gli ultimi rimasugli d’una presa di tabacco.
Come buona parte dei suoi simili, sembrava non comprendere l’enormità di quello che gli era successo.
«Sta parlando a vanvera» lo schernì Tigeth. «Non sa fare di meglio. Voglio dire, guardalo: è un furfantello rachitico delle paludi, come tanti altri che si vedono al mercato di Strov, intenti a predire il futuro o a scorrazzare tra la folla. Non sa leggere né scrivere, ed è probabile che non sappia contare oltre il cinque. Non ha idea di come girino gli affari.»
Gerin sorrise cupo.
«Be’, visto che tu e tutti gli altri in questa carovana siete stati venduti per debiti, non siamo poi così diversi, mi pare.»
Tigeth imprecò e si lanciò verso di lui. Ci fu un breve e impotente tintinnio di catene, e un coro di proteste si sollevò quando quel movimento fece spostare gli altri da dove erano seduti. Lo smilzo ricacciò indietro Tigeth e bloccò la mano tremante del grassone a pochi centimetri dal volto di Gerin, finché Tigeth rinunciò e si mise nuovamente a sedere.
«Stai tranquillo, idiota del cazzo» sibilò lo smilzo. «Vuoi che arrivi una delle guardie? Vuoi fare la fine di Barat?»
Lo sguardo di Gerin si spostò involontariamente verso i ceppi vuoti e spezzati che si trascinavano ancora dietro. Il grande e possente Barat, che di mestiere faceva il pappone al porto, era diventato merce alle aste passando per la stessa trafila di Gerin, cioè attraverso le corti di giustizia. Nello specifico, il pappone ci era andato giù pesante col nobile sbagliato che, esplorando i bassifondi, aveva esagerato con una delle sue ragazze. Era venuto fuori che quel nobile aveva agganci nelle Radure, e per una volta le Guardie avevano alzato i loro culi pigri e ubriachi, facendo qualche domanda in giro e rompendo una manciata di teste poco collaborative. Qualcuno aveva parlato, Barat era finito in galera abbastanza a lungo da riuscire a sputare in faccia al suo accusatore dei quartieri alti, piuttosto che pentirsi, e come risultato eccolo adesso nella carovana di schiavi.
Barat il pappone si portava dietro un odio arrogante nei confronti degli schiavi per debiti assieme ai quali era stato incatenato, e aveva passato i primi tre giorni di marcia a provocarli con esplosioni di violenza sconsiderata, che poi reprimeva abilmente ostentando una calma da duro e un ghigno beffardo. Per qualche ragione, aveva lasciato in pace Gerin, ma le catene della carovana erano abbastanza lunghe da consentirgli di mettere le mani su almeno quattro o cinque uomini, prima che le guardie si stancassero di quella sceneggiata e iniziassero a infastidirsi per la confusione che causava.
Il terzo giorno, alla quinta o sesta rissa, due o tre Sorveglianti a cavallo e padroni avevano percorso tutta la carovana per vedere a che cosa fosse dovuto quel casino. Tra loro c’era una donna che, quando le guardie, a forza di calci e insulti, ebbero rimesso in riga la colonna, aveva fatto cenno al loro capo di avvicinarsi, si era sporta dalla sella per parlargli e lo aveva rimandato dai colleghi con il volto incupito dal disappunto. Gerin non aveva udito ciò che si erano detti, ma sapeva quello che sarebbe successo proprio come avrebbe percepito un cambiamento di vento nelle paludi.
Aveva deciso di non condividere quella certezza con Barat, visto che, a quanto pareva, il pappone era troppo stupido e testone per capire da solo come stavano le cose. Più tardi quel pomeriggio, era scoppiata l’ennesima zuffa.
Le guardie lo avevano acchiappato il giorno dopo a mezzogiorno, durante la pausa per la latrina di metà giornata, al fiume dinanzi a Parashal. Quattro uomini dai volti cupi e coriacei, con occhi che brillavano come mica e lunghi manganelli di legno stretti nelle mani, lo avevano immobilizzato e avevano aperto i ceppi con le tronchesi che portavano alla cintura come un’arma. Un atto la cui irrevocabilità aveva fatto sbuffare e scalciare il pappone come un cavallo terrorizzato.
Ma ormai era troppo tardi.
Avevano trascinato Barat, tra urla e proteste, in un boschetto nei paraggi e là, con tutta calma, lo avevano pestato a morte. Era abbastanza vicino perché il suono dei colpi, possenti e pesanti come quelli di un macellaio che divide i tagli, giungesse fino a Gerin; strilla acute e orribili che ben presto si erano ridotte a gemiti gorgoglianti di implorazione, e infine un silenzio peggiore dei colpi e delle urla stesse, mentre i rumori del pestaggio continuavano. Gerin aveva già sperimentato la propria razione di brutalità nelle paludi e nelle strade di Trelayne, ma pure a lui quel massacro era sembrato infinito.
Altri uomini nella carovana di schiavi, meno temprati – tra cui le vittime della passata prepotenza di Barat –, avevano piegato la testa e fissato la terra su cui sedevano. Uno o due si erano portati le mani alla bocca, come donnicciole che ricacciano indietro il vomito. Gerin era riuscito per un po’ a ostentare uno sdegno sprezzante, prima di rendersi conto che anche lui stava tremando.
O forse, si era detto con un piccolo capogiro, mi sta soltanto venendo un raffreddore del cazzo come a Tigeth, che Hoiran sia maledetto.
Poco dopo i rumori erano cessati e le guardie erano emerse dagli alberi, ridendo sguaiate e sogghignando come lupi soddisfatti. Portavano i manganelli sulle spalle, con aria disinvolta. Uno di loro faceva dondolare con indolenza le tenaglie nell’altra mano, falciando l’erba alta fino al ginocchio. L’attrezzo oscillava sporco di sangue, brillando all’estremità colpita dal sole di mezzogiorno.
Più tardi, la muta certezza si era posata sui prigionieri silenziosi, col sorriso beffardo di un nuovo compagno di sventura, dal volto di teschio: la consapevolezza che al posto di Barat avrebbe potuto benissimo esserci uno di loro.
«Già, e a questo proposito» Gerin disse loro con espressione torva, dopo che Tigeth si era tranquillizzato in seguito all’ammonimento dello smilzo, «pensate che sarà l’unico paio di ceppi vuoti che vedrete attaccato alla catena? Un giorno in più per raggiungere il mercato di Yhelteth sono soldi in meno per quegli stronzi. Pensate che si fermeranno o rallenteranno per tutti quelli che non sopportano il calore, appena inizieremo ad attraversare le terre aride?»
«Devono venderci» insistette Tigeth petulante. «Non è nel loro interesse che…»
«Devono vendere alcuni di noi, Messere Conosco gli Affari. Abbastanza da guadagnarci qualcosa. Come ho detto, pensate che al capitano di un peschereccio importi se scaricando rovescia sulla banchina qualche lurido pesce?»
«Quanti anni hai, figliolo?» chiese qualcuno con curiosità.
Nell’oscurità Gerin sfoderò un ghigno da monello. «Quindici. E a differenza di quello che Messere Conosco gli Affari dice, so contare oltre il cinque. Conto trentacinque colonne in questa carovana, e trentadue teste per ognuna. Fa millecentoventi, meno Barat, e avete visto cosa gli è successo. Pensate che chiunque di noi valga l’acqua o l’attesa in più mentre ci fanno arrostire sotto il sole? Gente, qua si marcia o si muore, e Hoiran protegga chi rimane indietro. Non siete più cittadini, siete schiavi. Se là fuori crollerete, forse vi daranno un paio di calci per vedere se riuscite a rialzarvi. Ma se non ce la fate…» Allargò le mani chiuse nei ceppi, stringendosi nelle spalle. «Vi libereranno e vi lasceranno morire dove siete caduti.»
«Magari è vero» disse lo smilzo lentamente. «Ma forse preferiamo credere che capiterà a qualcun altro. All’inferno, forse sarà davvero così. Finora ce l’abbiamo fatta tutti.»
Ci fu un mormorio di approvazione tra le figure rannicchiate e legate alla catena. Tuttavia, mentre la sua eco si smorzava, lo smilzo guardò con occhi inespressivi verso sud, poco convinto del suo stesso ragionamento.
«Non sono mai stato nel deserto» disse a nessuno in particolare. «Non l’ho mai visto prima.»
Qualcuno starnutì con violenza.
«Io ho già visto una situazione da “marcia o muori”» intervenne un altro uomo seduto in disparte. Metà del volto presentava cicatrici mostruose, ustioni guarite male, così profonde che quando muoveva la testa anche alla luce calante si notavano i contorni grinzosi dello sfregio. «In guerra, durante la ritirata da Rajal. Il ragazzo ha ragione, funziona così. Hanno lasciato i feriti nel punto in cui cadevano e ci hanno fatto tirare dritto. Si sentivano i loro richiami, le suppliche; ci pregavano di non lasciarli alle Lucertole. E allora non si trattava nemmeno di schiavi, eravamo ancora cittadini, eravamo soldati.»
Tigeth emise un suono esasperato. «Non è la stessa cosa, quella era una guerra. Non è lo stesso che…»
«Cosa c’è che non va, grand’uomo?» Lo smilzo fissò Tigeth con palese disgusto. «Soltanto perché sai leggere e scrivere, pensi che qualche ricca vedova di Yhelteth ti comprerà come scriba e maggiordomo? Pensi di essere troppo furbo per lavorare in miniera o per spostare mattoni finché non crolli a terra?»
«No, cazzo, è soltanto troppo grasso per farlo» scherzò qualcuno.
«È troppo grasso anche per la vedova» disse qualcun altro. «A meno che lo compri come cuscino.»
Risate generali, basse e maligne. Tigeth rizzò il pelo.
«Una volta che arriveremo a Yhelteth, non sarà più grasso» sentenziò a bassa voce il veterano di Rajal. «Marciando come abbiamo fatto noi, si ustionerà e si ricoprirà di vesciche, e crollerà come tutti gli altri. Se sopravvivrà.»
Quelle parole lasciarono una scia di silenzio. I prigionieri si guardarono l’un l’altro mentre ne assorbivano il messaggio. Di sicuro la maggior parte di loro aveva visto violenze di qualche tipo da quando erano stati arrestati e venduti, magari alcuni dei più giovani e carini avevano subito – come Gerin – gli stessi inevitabili stupri nelle celle, come le donne, che marciavano in un convoglio separato. Ma nel complesso quegli uomini dovevano ancora affrontare l’idea che sarebbero potuti morire.
Deboli brividi febbrili corsero lungo la spina dorsale di Gerin quando si rese conto che fino a quel momento neanche lui ci aveva pensato. In tutti i suoi sforzi e piani per fuggire, aveva previsto diversi esiti negativi, ma nessuno di essi contemplava la morte. Aveva preventivato varie brutalità, basandosi su quelle a cui aveva assistito in passato o che aveva ascoltato nelle storie attorno ai falò. Aveva rivissuto i ricordi del suo stupro nelle celle dei debitori, immaginando che avrebbe potuto capitargli di nuovo, chissà quante volte. Per un attimo rifletté anche, non riuscendo a reprimere un brivido, sull’eventualità della castrazione, che a quanto si diceva non era così rara tra gli schiavi sulla piazza di Yhelteth.
Ma non aveva mai immaginato che la sua vita potesse finire; mai davvero creduto che avrebbe potuto essere lui quello abbandonato e lasciato indietro a implorare e farfugliare mentre il convoglio procedeva nella luce accecante del deserto. Non aveva mai pensato che avrebbe potuto essere lui, Gerin Mani di Velluto, quindici anni d’età, la vita appena incominciata, a giacere là, troppo debole per muoversi, troppo debole per qualsiasi cosa eccetto una preghiera sussurrata con voce roca alla Corte Oscura, a Hoiran, Dakovash, Kwelgrish o Horchalat’, Firfirdar o chiunque cazzo fosse in ascolto; suppliche sfuggite come un secchio pieno legato a una corda che scivola tra dita stanche e ricade nel pozzo, senza speranza; implorando di essere portato in salvo, poi anche solo di essere trovato, seppure da altri mercanti di schiavi o banditi; infine semplicemente che la sete e il caldo lo uccidano prima di sentire i primi esitanti e rapidissimi squarci sulla pelle, mentre i divoratori di carogne circondano il suo corpo in preda agli spasmi e gli avvoltoi si lanciano a spirale per strappargli gli occhi…
Rabbrividì – raff...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il gelo comanda
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. Ringraziamenti
  51. Copyright