I giorni di Cyberabad (Urania Jumbo)
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I giorni di Cyberabad (Urania Jumbo)

  1. 416 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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I giorni di Cyberabad (Urania Jumbo)

Informazioni su questo libro

I GIORNI DI CYBERABAD Cyberabad è l'India del 2047, una nuova superpotenza abitata da un miliardo e mezzo di persone nell'era delle IA, della siccità causata dai cambiamenti climatici, delle guerre per l'acqua, dei nuovi generi e dei bambini geneticamente migliorati, con una popolazione prevalentemente maschile: una donna ogni quattro uomini. Cyberabad Days è una raccolta di sette storie, in un'India fratturata in una dozzina di Stati in cui nascono dei-bambine, si celebrano matrimoni tra uomini e IA e sorgono nuove nazioni. Il racconto The Djinn's Wife, ha vinto il premio Hugo nel 2007 e il BSFA nello stesso anno, mentre The Little Goddess è stato finalista allo Hugo nel 2005 e Vishnu at the Cat Circus nel 2010.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
eBook ISBN
9788835715290
Argomento
Letteratura
Categoria
Fantascienza

VISHNU E IL CIRCO DEI GATTI

Salvati da una scrivania

Vieni, Matsya, vieni Kurma. Venite, Narasimba e Varaha. Nella luce fumosa dei rifiuti di polietilene che bruciano e sotto l’occhio folle di una luna che giace ubriaca sulla schiena, venite a correre nel cerchio; rosso e nero e soriano e grigio, bianco e arlecchino e tartarugato e il Manx senza coda dalle zampe di lepre. Correte, Varana, Pashrama, correte Rama e Krishna.
Prego di non recare offesa con il mio circo dei gatti che portano il nome di avatar divini. Sì, sono luridi gatti di strada, rubati da discariche, alti muri e balconi, ma i gatti sono per loro natura creature blasfeme. Ogni leccata e capriola, ogni stiracchiamento e affondo di artiglio sono un affronto calcolato alla dignità divina. Ma non porto io stesso il nome di un dio? E allora perché non darlo anche alle mie saette, ai miei saltatori, alle mie stelle? Io sono Vishnu, il Protettore.
Guardate! Le lampade di rifiuti sono accese, il cerchio di corde è stato sistemato e i posti a sedere sono pronti, se tali si possono definire i cuscini e i materassi logori recuperati dalla barca e disposti per proteggere il vostro posteriore dalla sabbia umida. E i gatti corrono, una catena indistinta di rosso e di grigio, di nero e di bianco e di multicolore: il meraviglioso, il magico, il magnifico Circo Celeste dei Gatti di Vishnu! Ne sarete stupiti, anzi, stupefatti! Allora, perché non siete qui?
Corrono in tondo, naso contro coda. Vi meravigliereste di fronte alla fluida e perfetta sincronizzazione dei miei gatti. Vai, Buddha, Vai Kalki! Sì, ci vuole un dio per addestrare un circo dei gatti.
Per tutta la sera ho percosso il tamburo e suonato il campanello della mia bicicletta attraverso l’entroterra di Chunar, devastato dalla calura. «Il meraviglioso, il magico, il magnifico Circo Celeste dei Gatti di Vishnu! Radunatevi, radunatevi! Ci sono ben poche gioie nella vostra vita: meraviglia e materiale da conversazioni per una settimana in cambio di una manciata di rupie!» C’è sabbia sulle strade, sabbia ammucchiata contro le pareti fatiscenti delle case abbandonate e addossata ai cerchioni nudi delle ruote di macchine e minibus abbandonati, sabbia accumulata contro le barriere spinose che dividevano in sterili campi i banchi di sabbia sulla riva del fiume. La lunga siccità e le guerre lampo hanno svuotato la città, come tante altre vicine allo Jyotirlinga. Sono salito fino al vecchio forte, che offre una vista che si espande per venti chilometri su e giù lungo il fiume. Dal belvedere su cui il vecchio ambasciatore britannico aveva costruito la sua residenza di governatore, vedevo lo Jyotirlinga levarsi come una lancia nel cielo al di sopra di Varanasi, più in alto di dove il mio sguardo potesse arrivare, più in alto del cielo, poiché si estendeva a un altro universo. Le pareti della vecchia casa erano coperte di graffiti. Ho suonato il campanello e picchiato sul tamburo ma non c’era speranza di trovare qualcuno, o anche solo un fantasma. Sebbene sia disconnesso dalla deva-net, potevo quasi fiutare i deva che vorticavano sulle correnti d’aria irregolari. Tornando in città, ho avvertito un odore di legna che bruciava, un perdurante aroma di cucina, e così mi sono girato, tormentato dalla sensazione di vedere occhi, volti, mani sugli usci che svanivano nell’ombra non appena li guardavo. «Il meraviglioso, il magico, il magnifico Circo Celeste dei Gatti di Vishnu!» ho gridato, suonando furiosamente il campanello della bicicletta per strombazzare la mia povertà e innuocuità, oltre all’intrattenimento che offrivo. Nell’Era di Kali i miti e gli impotenti vengono trattati come prede, senza misericordia, e c’è sempre un surplus di AK-47.
Al mio ritorno i gatti erano furiosi e miagolavano in coro, accaldati nelle gabbie nonostante l’ombra offerta dal telone. Li ho lasciati andare a caccia alla luce delle prime stelle mentre montavo il cerchio e disponevo i sedili, le lampade, il cartello e la ciotola delle offerte senza sapere se si sarebbe presentata anche solo una singola persona. Le prede scarseggiavano. La piccola selvaggina scarseggia nell’Era di Kali.
Mio bello, bianco Kalki, che fluisci oltre gli sbarramenti come un’increspatura nella corrente, è scritto che combatterai contro Kali e la sconfiggerai, ma questo mi sembra un compito troppo grande per un semplice gatto. No, me ne farò carico io stesso, perché se quello è il tuo nome, tuttavia è anche il mio. Non sono forse Vishnu dalle dieci incarnazioni? Non siete tutti parte di me, voi gatti? Ho un appuntamento sulla riva di questo fiume, a valle, ai piedi della torre di luce che si innalza per trafiggere il cielo, a est.
Ora vieni a sederti su questo materasso – ho spazzato via la sabbia – e lascia che le lampade tengano lontano gli insetti. Mettiti comodo. Ti offrirei una tazza di chai, ma l’acqua mi serve per i gatti. Stanotte vedrai non soltanto il migliore circo di gatti di tutta l’India, ma probabilmente l’unico di tutta l’India. Cosa dici? Che tutto quello che fanno è correre in cerchio? Fratello, con i gatti è già un grande risultato, però hai ragione, correre in cerchio naso contro coda è praticamente tutto ciò che offre il mio Circo dei Gatti. Ma ho altri modi per giustificare la manciata di rupie che chiedo. Siediti, siediti e ti racconterò una storia, la mia storia. Io sono Vishnu, progettato per essere un dio.
Eravamo in tre, ed eravamo dei. Shiv e Vish e Sarasvati. Io non sono il primogenito, quello è mio fratello Shiv, con cui ho appuntamento ai piedi dello Jyotirlinga di Varanasi. Shiv, la persona di successo, l’uomo d’affari, il portento globale, il nome famoso e l’involontario precursore di questa Era di Kali. Non riesco a immaginare cosa sia diventato. Io non ero il primogenito, ma ero il più nobile per nascita e questo è il nocciolo del problema.
Credo che il conflitto fosse radicato in ogni componente del DNA dei miei genitori. I darwiniani classici disprezzano l’idea che i valori intellettuali possano plasmare l’evoluzione, ma io sono la prova vivente che i valori della classe media possano essere scritti nei geni. E allora, perché non la guerra?
Sarebbe difficile immaginare un cyber-guerriero più improbabile di mio padre. Scoordinato, goffo, corpulento – no, non facciamo giri di parole, era decisamente grasso, ed era stato l’appagato e a suo modo celebrato designer della DreamFlower. Ricordi la DreamFlower? Sumo di Strada, RaMaYaNa, Bollywood-SingStar. Giochi che hanno venduto milioni di copie. Forse non ricordi. Scopro sempre più spesso che è passato più tempo di quanto non creda. Vale per tutto. Ciò che conta è che lui aveva denaro, una carriera, successo, tutta la fama concessa dalla sua attività di nicchia e una vita che scorreva fluida come una Lexus, quando la guerra lo ha colto di sorpresa. Ci ha colti tutti di sorpresa. Un giorno eravamo la Grande Storia di Successo Asiatico – la Tigre Indiana (io la definisco la legge del Rimbalzo aforistico, con la Tigre dell’Economia e del Successo che ha viaggiato tutt’intorno al globo prima di tornare da noi) – e, al contrario dei cinesi, avevamo il cricket inglese e la democrazia. Il giorno successivo stavamo bombardando gli uni i centri commerciali degli altri e occupando stazioni televisive. Stato contro Stato, regione contro regione, famiglia contro famiglia. Questo è il solo modo in cui riesco a comprendere la Guerra dello scisma, e cioè che l’India era come una di quelle grandi e rumorose famiglie turbolente presso cui la venerabile nonna viene per un soggiorno di sei mesi e nell’arco di due giorni i figli sono già saltati alla gola del padre, la madre a quella della figlia, le sorelle litigano, i fratelli lottano, cugini, zii e zie prendono tutti posizione a favore dell’uno o dell’altro e la famiglia va in pezzi come un diamante per via delle faglie e le imperfezioni che facevano proprio la sua bellezza. Quando ero giovane – chiedo scusa, quando ero piccolo, perché non ero così giovane – ho visto a Delhi un tagliatore di diamanti inserire la gemma nella morsa imbottita e sollevare scalpello e martello, un attrezzo dall’aria troppo massiccia e brutale per un oggetto tanto piccolo e lucente. Ho stretto i denti e trattenuto il respiro, mentre quello calava il grosso martello imbottito e la gemma si divideva in tre parti, tutte più lucenti e radiose della loro fonte.
«Colpisci male» mi ha detto, «e otterrai solo polvere scintillante.»
Polvere scintillante. Credo che da allora questo sia l’emblema della nostra storia.
Il colpo è arrivato – successo, ricchezza, popolazione in subbuglio – e ci siamo ridotti in polvere, solo che Delhi non lo sapeva. I lealisti difendevano risolutamente il sogno dell’India. Così mio padre è stato assegnato in veste di Servizio di Assistenza a una Squadra di Mecha da Ricognizione. A te potrà sembrare qualcosa di incredibilmente fico e affascinante, ma parliamo di un altro secolo e un’altra era, e i robot erano ben lontani dall’essere le luccicanti creature rakshasa che conosciamo oggigiorno, che mutano forma e funzione continuamente in accordo con le aspettative umane. Quella era una squadra di bot da ricognizione, corridori e saltatori a due gambe, goffi e inaffidabili quanto polli di metallo, e Dadaji forniva il servizio di assistenza. Ciò significava che doveva ripararli, liberarli da virus e bug, tirarli fuori quando si incantavano a correre in cerchio o allontanarli da un muro invalicabile oltre il quale tentavano di saltare, stando sempre in guardia dalle loro gatling gemelle caricate con freccette d’acciaio e dalle loro lame a nanofilo per la difesa a distanza ravvicinata.
«Sono un codificatore di giochi» si lagnava. «Coreografo passi di danza e scontri automobilistici per Bollywood. Curo il design delle star che impersonano vampiri.» Delhi però ha ignorato le sue proteste. La città stava già perdendo terreno quando le ambizioni all’autodeterminazione nazionale si fecero largo anche nel Rashtrapati Bhavan. Tuttavia, ha scelto di ignorare anche loro.
Dadaji era un cyber-guerriero, Mamaji un soccorritore militare, e nel suo caso l’incarico era leggermente più vicino alla realtà di quanto non fosse per Dadaji. Lei era un medico qualificato e aveva lavorato sul campo per le ONG in India e nel Pakistan dopo il terremoto, oltre che con Medici senza frontiere nel Sudan. Non era un soldato, questo mai, ma Madre India aveva bisogno di medici in prima linea e così si è ritrovata al Centro avanzato di trattamento sul campo numero 32, a est di Ahmedabad, nello stesso periodo in cui anche l’unità di mio padre era di stanza lì. Mia madre ha esaminato il sergente tecnico Tushar Nariman per verificare se aveva piattole o emorroidi. Gli altri della sua unità si sono rifiutati di permettere a una donna di ispezionare il loro pube, mentre lui ha stabilito un contatto visivo per un fragile secondo coraggioso.
Forse, se il ministero della Difesa fosse stato meno sconclusionato nel reclutamento di cyber-guerrieri e avesse assegnato un analista della sicurezza addestrato all’Ottava squadra mecha da ricognizione di Ahmedabad e non un progettatore di videogame, si avrebbero avuti più superstiti quando la Forza d’assalto Tigre del Bharat attaccò. Un nuovo nome veniva sussurrato nei vecchi Uttar Pradesh orientale e Bihar: Bharat, l’antico sacro nome dell’India. La sua bandiera con la ruota che girava era piantata a Varanasi, la più antica e pura delle città. Come per ogni movimento di liberazione nazionale, c’erano dozzine di eserciti di guerriglieri autodichiaratisi tali, ciascuno con un nome che incuteva ancor più paura di quelli che lo avevano preceduto e con i quali intratteneva un’incerta alleanza. La Forza d’assalto Tigre bharatiana era l’embrione dell’élite delle forze cibernetiche di guerra bharatiane. E al contrario di Tushar, i suoi membri erano professionisti. Alle 21.23 riuscirono a penetrare il firewall dell’Ottava Ahmedabad e a piazzare alcuni trojan nei mecha di ricognizione: mentre mio padre si tirava su i pantaloni dopo aver sperimentato le dita leggere e la torcia d’ispezione della mia futura madre sul proprio sfintere, la Forza d’assalto Tigre prese il controllo dei robot e li scatenò contro l’ospedale da campo.
Sia benedetto il Signore Shiva per il fatto che mio padre era un ragazzo grasso e codardo. Quando sono cominciati gli spari, un eroe si sarebbe precipitato fuori per vedere cosa stava succedendo e sarebbe morto nel fuoco incrociato o, all’esaurirsi delle munizioni, sotto le lame dei mecha. Al primo sparo, mio padre si è tuffato dritto sotto la scrivania.
«Abbassati!» ha sibilato a mia madre, che si era immobilizzata con un’espressione di sconcerto e meraviglia sul volto, prima che lui la tirasse giù e subito si scusasse per la sconveniente intimità. Lei gli aveva appena tastato i testicoli, eppure lui si è scusato. Sono rimasti inginocchiati nello spazio angusto, fianco a fianco, mentre gli spari, le grida e il terribile rumore artritico delle giunture dei mecha – click click click – vorticavano intorno a loro, per poi trasformarsi a poco a poco in grida e click, seguiti solo dai click e infine dal silenzio. Sono rimasti in ginocchio, fianco a fianco e tremanti di paura, con mia madre accucciata carponi come un cane, fino al punto da tremare dalla tensione, senza però osare muoversi o fare un qualsiasi rumore che potesse attirare nell’ambulatorio le sagome a caccia visibili attraverso la finestra. Le ombre si sono allungate ed è sceso il buio prima che lei si azzardasse a espirare. «Cosa è successo?»
«Hanno hackerato i mecha» ha risposto mio padre, poi ha detto le parole che lo hanno reso per sempre un eroe agli occhi di mia madre. «Vado a dare un’occhiata.» Gattonando – mano e ginocchio, ginocchio e mano –, attento a non fare rumore e a non smuovere il minimo pezzo di vetro rotto o legno scheggiato, è strisciato fuori da sotto la scrivania e sul pavimento cosparso di rottami, fin sotto alla finestra. Poi, un millimetro alla volta, si è sollevato di sbieco, restando mezzo accovacciato. Ha lanciato un’occhiata fuori dalla finestra e nello stesso istante si è lasciato ricadere sul pavimento, per poi tornare indietro strisciando con la stessa attenta cautela.
«Sono là fuori» ha sussurrato a Mamaji. «Tutti quanti. Uccideranno qualsiasi cosa si muova.» Ha pronunciato la frase una parola per volta, in modo che somigliasse ai naturali scricchiolii e spasmi di una baracca mobile allestita su una riva sabbiosa del Ganga.
«Forse esauriranno il carburante» ha replicato mia madre.
«Sono alimentati a batterie solari.» Parlare in quel modo richiedeva molto tempo. «Possono aspettare in eterno.»
Poi si è messo a piovere. Una grossa tempesta con tuoni, una premessa ai monsoni che si stavano ancora snodando attraverso la Baia del Bengala, come un uomo con una bandiera o una tromba che anticipa uno sposo di corsa per far sapere al mondo che sta arrivando un grande uomo. La pioggia percuoteva la tela come mani su un tamburo, sibilava sulla sabbia arida mentre ne era assorbita, rimbalzava sul carapace di plastica dei robot in attesa e in ascolto. Il canto della pioggia inghiottiva ogni rumore, e così mia madre intuì soltanto dal tremolio alla scrivania che mio padre stava ridendo.
«Perché ridi?» ha sibilato, con voce un po’ più bassa della pioggia.
«Perché con questo fracasso non mi sentiranno mai se andrò a prendere il palmare» ha replicato mio padre: una cosa molto coraggiosa per un uomo corpulento. «E allora vedremo chi sarà a hackerare quei robot.»
«Tushar» ha sussurrato mia madre, con voce simile a una voluta di vapore, ma mio padre stava già strisciando fuori da sotto la scrivania, verso il palmare posato sulla sedia da campeggio, vicino alla porta. «È solo un…»
Poi la pioggia è cessata. Di colpo, come quando un mali chiude la pompa per innaffiare il giardino. L’acquazzone era finito. Le gocce cadevan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I GIORNI DI CYBERABAD
  4. Sanjeev e i robotwallah
  5. Kyle incontra il fiume
  6. L’assassino di polvere
  7. Un buon partito
  8. La piccola dea
  9. La moglie dei djinn
  10. Vishnu e il circo dei gatti
  11. 70 ANNI. DI URANIA (1952-2022). LA STORIA DEL. PREMIO URANIA
  12. Copyright