1
Vera Pavlovna ricevette un’educazione assai normale. Nella sua vita, fino all’incontro con lo studente di medicina Lopuchov, si verificò qualche episodio degno di interesse, ma niente di speciale. Tuttavia, nel suo modo di agire c’era già da allora un che di speciale.
Vera Pavlovna crebbe in una casa a più piani sulla Gorochovaja, tra la Sadovaja e il ponte Semënovskij. Adesso quel palazzo è segnato dal numero che gli compete, ma nel 1852, quando ancora non esistevano questi numeri, vi era affissa un’iscrizione: “Casa del consigliere effettivo di Stato Ivan Zacharovič Storešnikov”. Così diceva l’iscrizione, ma Ivan Zacharyč1 Storešnikov era morto nel 1837 e da allora padrone del palazzo era diventato suo figlio, Michail Ivanovič: così dicevano i documenti. Tuttavia, gli inquilini sapevano che Michail Ivanovič era il figlio della proprietaria e che la proprietaria era Anna Petrovna.
Anche allora la casa era come adesso, grande, con due portoni e quattro entrate lungo la via, con tre cortili all’interno. Nella più sontuosa delle scalinate che davano sulla strada, nel piano nobile, vivevano nel 1852 – e vivono tuttora – proprietaria e figlio. Anna Petrovna è rimasta ancora la signora prestante di un tempo. Michail Ivanovič oggi è un prestante ufficiale e allora era un bello e prestante ufficiale.
Chi abiti adesso nella più sporca delle innumerevoli scale nere del primo cortile, al terzo piano, nell’appartamento a destra, non lo so; ma nel 1852 là ci abitava l’amministratore del palazzo, Pavel Konstantinyč Rozal’skij, un uomo robusto, anche lui prestante, insieme alla moglie Mar’ja Aleksevna, signora alta, magra e forte, alla figlia, ragazza già grande – è lei Vera Pavlovna –, e al figlio di nove anni, Fedja.
Pavel Konstantinyč, oltre ad amministrare il palazzo, era aiuto-capoufficio in non so che dipartimento. Per il suo impiego non riceveva uno stipendio, per il palazzo sì, ma modesto: un altro avrebbe preso assai di più, ma Pavel Konstantinyč, come diceva lui stesso, aveva una coscienza. In compenso, la proprietaria era contentissima di lui, e l’amministratore in quattordici anni di gestione aveva messo insieme quasi diecimila rubli di capitale. Ma solo circa tremila, non di più, venivano dalla tasca della padrona di casa. Il resto non lo aveva guadagnato ai danni della proprietaria, bensì da un altro giro di affari: Pavel Konstantinyč prestava i soldi su pegno.
Anche Mar’ja Aleksevna aveva il suo piccolo capitale: cinquemila rubli, come diceva alle comari, in realtà un po’ di più. La base del capitale era stata posta una quindicina d’anni prima con la vendita di una pelliccia di procione, un vestitaccio e certi mobilacci che Mar’ja Aleksevna aveva ereditato dal fratello impiegato. I centocinquanta rubli che ci aveva realizzato li aveva usati pure lei per prestare su pegno. Rischiava assai di più del marito e talvolta abboccava all’amo: un imbroglione si era fatto dare cinque rubli su pegno di un passaporto, il passaporto era risultato rubato e Mar’ja Aleksevna aveva dovuto rimetterci altri quindici rubli per cavarsi d’impiccio; un altro truffatore aveva impegnato un orologio d’oro per venti rubli, poi era risultato che l’orologio era stato sottratto a un morto ammazzato e Mar’ja Aleksevna aveva dovuto pagare una bella sommetta per cavarsi d’impiccio. Ma se andava incontro a delle perdite che il marito, cauto nell’accettare i pegni, evitava, in cambio i suoi profitti erano più rapidi. Si presentavano anche occasioni particolari per raggranellare soldi. Una volta… all’epoca Vera Pavlovna era ancora piccola: in presenza di una figlia adulta Mar’ja Aleksevna non si sarebbe mai permessa, ma all’epoca che motivo c’era di trattenersi? Un bambino mica capisce! E infatti, Veročka da sola non avrebbe capito, se la cuoca non glielo avesse spiegato per filo e per segno. E anzi, nemmeno la cuoca glielo avrebbe mai spiegato, perché un bimbo non le deve mica sapere queste cose, se non fosse stato che non aveva retto più, dopo l’ennesima strigliata che si era sorbita da Mar’ja Aleksevna per via di una bisboccia con il moroso (del resto, Matrëna aveva sempre un occhio pesto, non per colpa di Mar’ja Aleksevna, ma del moroso… e meglio così, visto che una cuoca con l’occhio pesto costa meno!)… Una volta, insomma, venne in visita da Mar’ja Aleksevna una conoscente come non se ne erano mai viste, una signora ben vestita, formosa, bella; venne a trovarla e rimase ospite. Se ne stette in casa loro zitta e quieta per una settimana, salvo che di continuo era visitata da un signore, anche lui bello, che ogni volta regalava le caramelle a Veročka. Le aveva portato anche un mucchio di graziose bamboline, le aveva donato due libriccini, tutti e due illustrati: in uno c’erano belle figure di animali, città; l’altro Mar’ja Aleksevna lo aveva tolto a Veročka non appena l’ospite era andato via, cosicché lei aveva visto le illustrazioni soltanto una volta, in presenza dell’uomo: lui stesso gliele aveva mostrate. Così la conoscente era stata ospite per sette giorni, e in casa tutto tranquillo: Mar’ja Aleksevna per tutta la settimana non si era avvicinata alla credenzina (dove era riposta la caraffa con la vodka), di cui non dava la chiave a nessuno, non aveva picchiato Matrëna, non aveva picchiato Veročka, non aveva imprecato ad alta voce. Poi una notte Veročka venne svegliata dalle grida terribili dell’ospite, da un andirivieni, da un tramenio in tutta la casa. La mattina Mar’ja Aleksevna si accostò alla credenzina e ci rimase accanto più a lungo del solito, dicendo di continuo: «Grazie a Dio, è andata bene, grazie a Dio!». Chiamò alla credenzina persino Matrëna e disse: «Alla salute, Matrënuška,2 ti sei data parecchio da fare pure tu». E alla fine, niente zuffe o imprecazioni, come succedeva in altri tempi dopo la credenzina, ma, dato un bacetto a Veročka, se ne era andata subito a letto. Poi di nuovo una settimana di calma in casa, l’ospite non gridava più, però non usciva dalla sua stanza… Infine, se ne andò. Ma dopo due giorni che era partita, venne non il signore di prima, bensì un altro signore, che condusse con sé la polizia e ne disse di tutti i colori a Mar’ja Aleksevna. La stessa Mar’ja Aleksevna non gli era da meno e non faceva che ripetere: «Io non so un accidente dei vostri affari. Controllate sui registri della casa chi è stato ospite da me!… La mercantessa Savast’janova di Pskov, mia conoscente, punto e basta!». Finalmente, dopo avere altercato a più non posso, il signore se ne andò e non si fece più vedere. Di questo fu testimone Veročka a otto anni, e a nove anni Matrëna le spiegò bene di che si era trattato. Del resto, questo fu l’unico caso del genere; ne capitarono altri di diverso tipo, ma non furono poi così tanti.
A dieci anni, andando con la madre al mercatino delle pulci, alla svolta tra la Gorochovaja e la Sadovaja la bambina si beccò un inaspettato scapaccione, accompagnato dalle parole: «Guardi la chiesa, stupida, e non ti segni la fronte? Ma non lo vedi che tutta la brava gente si segna?».
A dodici anni, Veročka prese a frequentare il collegio e da lei cominciò ad andare un maestro di piano, un tedesco alcolizzato, davvero una brava persona, un ottimo maestro ma, siccome beveva, assai a buon mercato.
A partire dai tredici anni, lei già cuciva i vestiti per tutta la famiglia (del resto, la famiglia non era mica numerosa).
Appena Veročka arrivò ai quindici anni, la madre incominciò a sgridarla così: «Pulisciti il muso che sembri una zingara! Ma tanto è inutile, che razza di spaventapassera, non lo so da chi hai pigliato». Veročka ne aveva sentite d’ogni genere per via del colorito olivastro del viso e si era abituata a considerarsi bruttina. Prima la madre la portava in giro quasi in stracci, ora incominciò ad agghindarla. E Veročka, tutta in ghingheri, ecco che andava con la madre in chiesa e pensava: “Indosso a un’altra queste mise eleganti farebbero figura, ma me, hai voglia a vestirmi bene, sempre zingara sono… uno spaventapasseri, sia con l’abito di calicò sia con quello di seta. Ah, che bello essere bella. Come mi piacerebbe essere bella!”.
Quando Veročka compì sedici anni, smise di studiare con il maestro di piano e nel collegio, e iniziò lei a dare lezioni in quello stesso collegio. Poi la madre le trovò anche altre lezioni.
Sei mesi dopo, la madre smise di chiamare Veročka “zingara” e “spaventapassera”, anzi incominciò ad abbigliarla ancora meglio e Matrëna (questa era già la terza Matrëna a partire dalla prima: quella là aveva sempre l’occhio sinistro pesto, mentre questa aveva lo zigomo sinistro ammaccato, ma non sempre) disse a Veročka che stava per chiederla in moglie il superiore di Pavel Konstantinyč, un funzionario importante e con un’onorificenza al collo. In effetti, gli impiegatucci del dipartimento vociferavano che il capo della sezione in cui lavorava Pavel Konstantinyč aveva iniziato a prenderlo a benvolere, mentre il caposezione tra i suoi pari cominciò a esprimere l’opinione che gli servisse una moglie bella, pur se priva di dote, nonché l’opinione che Pavel Konstantinyč fosse un bravo impiegato.
Non si sa come sarebbe andata a finire. Ma il caposezione agiva con prudenza, temporeggiava, e così nel frattempo capitò un’altra occasione.
Il figlio della proprietaria passò dall’amministratore per riferire che la mamma pregava Pavel Konstantinyč di prendere alcuni campioni di carta da parati, perché voleva rinnovare l’appartamento in cui abitava. In precedenza, simili disposizioni venivano comunicate tramite il portiere. Chiaro, avrebbe mangiato la foglia anche gente meno navigata di Mar’ja Aleksevna e del marito. Il figlio della padrona di casa, una volta venuto, rimase più di mezz’ora e si degnò di prendere il tè (ai fiori).3 Mar’ja Aleksevna il giorno dopo regalò alla figlia una collana impegnata e non riscattata e le fece cucire due abiti nuovi, molto belli: solo la stoffa di uno costava quaranta rubli e quella dell’altro cinquantadue, e tra falpalà, nastri e taglio tutte e due i vestiti erano venuti centosettantaquattro rubli; perlomeno così disse Mar’ja Aleksevna al marito, ma Veročka sapeva che c’erano voluti in tutto meno di cento rubli – pure gli acquisti erano stati fatti in sua presenza – e, comunque sia, anche con solo cento rubli si possono realizzare due abiti molto belli. Veročka fu contenta per i vestiti, fu contenta per la collana, ma soprattutto fu contenta perché la madre aveva finalmente acconsentito a comprarle le scarpe da Korolëv:4 le scarpe del mercatino delle pulci sono tutte uno schifo, mentre quelle di Korolëv ti stanno una meraviglia ai piedi.
Gli abiti non andarono sprecati: il figlio della proprietaria prese l’abitudine di venire in visita dall’amministratore e, si capisce, parlava più con la figlia che con l’amministratore e la moglie, i quali dal canto loro, si capisce, lo portavano in palma di mano. Be’, la madre poi dava alla figlia tutte le istruzioni del caso, questo non c’è neanche da dirlo, è una cosa risaputa.
Un giorno, dopo il pranzo, la madre disse: «Veročka, su, vestiti un po’ meglio. Ti ho preparato una surprise: andiamo all’Opera, ho preso il biglietto di seconda fila, dove vanno tutte le generalesse. Tutto per te, scemetta. Non risparmio gli ultimi soldi. Tuo padre, a forza di spendere per te, ormai si è ridotto all’osso. Solo per il collegio quanto abbiamo dovuto sborsare alla Madame, e per quel pianofortista, poi! Ma tu non capisci niente di questo, ingrata, non hai un briciolo d’anima dentro, è chiaro, insensibile come sei!».
Mar’ja Aleksevna non aggiunse altro, non seguitò a sgridare la figlia, e poi che sgridata era? Mar’ja Aleksevna ormai parlava con Veročka solo così: di sgridarla aveva smesso da un pezzo, e picchiarla non l’aveva picchiata nemmeno una volta da quando erano girate quelle voci riguardo al caposezione.
Andarono all’Opera. Dopo il primo atto entrò nel palco il figlio della padrona di casa, accompagnato da due suoi amici: un tizio borghese, allampanato ed elegantissimo, l’altro militare, corpulento e più alla buona. Si accomodarono e a lungo bisbigliarono tra di loro, soprattutto il figlio della proprietaria con il borghese, mentre il militare parlava poco. Mar’ja Aleksevna tendeva l’orecchio, distingueva quasi ogni parola, ma riusciva a capire ben poco, visto che confabulavano tutti e tre in francese. Quattro o cinque parole del loro colloquio lei le conosceva: belle, charmante, amour, bonheur… ma che se ne faceva di quelle parole? Belle, charmante: Mar’ja Aleksevna ormai da un pezzo sentiva dire che la sua zingara era belle e charmante. Amour: Mar’ja Aleksevna lo vedeva da sé che lui era cotto d’amour; e se c’era l’amour, allora, si capisce, c’era anche la bonheur… Ma che ne ricavava da quelle parole? Insomma, la questione era: quand’è che l’avrebbe chiesta in moglie?
«Veročka, sei un’ingrata, una vera ingrata,» sussurrò Mar’ja Aleksevna alla figlia «perché non giri il grugno a guardarli? Ti hanno offeso che sono entrati? Stupida, ti fanno un onore. Matrimonio in francese è mariage, eh, Veročka? E com’è “fidanzato” e “fidanzata”? Com’è “sposarsi” in francese?»
Veročka glielo disse.
«No, queste parole non le ho sentite, mi pare… Vera, ma non è che tu non me le hai dette giuste queste parole? Bada!»
«Ma sì, solo che queste parole da loro non le sentirete. Andiamo, non posso più restare qui.»
«Che? Che hai detto, mascalzona?» Gli occhi di Mar’ja Aleksevna si iniettarono di sangue.
«Andiamo. Dopo fatemi quello che vi pare, ma adesso io non resto. Dopo vi spiegherò perché… Mamma,» pronunciò poi a voce alta «mi è v...