L'acciaio sopravvive
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L'acciaio sopravvive

  1. 480 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

LA GUERRA CONTRO IL POPOLO DELLE SQUAME è finita, ma gli uomini non hanno bisogno di mostri per dilaniarsi tra loro.

L'aristocratico Ringil Eskiath, giovane eroe del- la resistenza, vive in esilio volontario, disprezzato per la sua omosessualità. Egar Rovina del Drago, capo dei barbari delle steppe, non trova pace tra gli agi del Sud ma neppure nella semplice vita guerresca della sua vecchia patria. Archeth Indamaninarmal, ultima erede degli alieni Kiriath e della loro tecnologia prodigiosa, cerca di far progredire l'Impero dei mortali e affoga il proprio senso di abbandono nelle droghe. Tre solitudini, tre eroismi rinnegati e incompresi, tre vite spezzate che si sono conosciute durante il conflitto, legandosi in un'amicizia che adesso dovrà affrontare una nuova sconvolgente minaccia.

Al pari dei suoi bestseller cyberpunk, con questa sinistra e superba trilogia fantasy Richard K. Morgan ha realizzato un capolavoro che ha fatto scuola e ha spinto il grimdark verso nuovi scioccanti confini, contaminandolo col noir e la fantascienza, fondendo Le Guin, Moorcock e Murakami. Un viaggio spettrale attraverso un mondo fastoso e feroce, nel quale resiste tuttavia la tensione verso qualcosa a cui aggrapparsi nella tempesta che tutto travolge.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804745242
eBook ISBN
9788835715481

1

Se un uomo che sapete sano di mente vi dicesse che sua madre, morta di recente, ha appena cercato di arrampicarsi dalla finestra della sua camera da letto e di mangiarselo, avete solo due opzioni. Potete sentirgli l’alito, tastargli il polso e controllare le pupille per vedere se abbia ingerito qualche stronzata, oppure potete credergli. Ringil aveva già seguito la prima linea di condotta con Bashka, il maestro, ma invano, così mise giù la sua pinta con un sospiro artificioso e andò a prendere il suo spadone.
«Oh, non di nuovo» fu udito borbottare mentre si faceva largo per entrare nella sala comune.
Quasi un metro e mezzo di acciaio Kiriath temprato, lo spadone di Ringil stava appeso sul camino, in un fodero lavorato con una lega di metallo che gli adulti umani non avrebbero saputo definire, ma che qualsiasi bambino Kiriath dai cinque anni in su sarebbe stato in grado di riconoscere. La stessa spada aveva un nome in Kiriath, come ogni altra arma di loro fabbricazione, ma si trattava di un termine elaborato che perdeva molto nella traduzione. Benvenuta nella Dimora dei Corvi e altri Divoratori di Carogne al Seguito dei Guerrieri era il modo migliore in cui Archeth era riuscita a renderlo, così Ringil aveva deciso di chiamarla l’Amica dei Corvi e basta. Non che il nome gli piacesse particolarmente, ma aveva il suono che ci si aspetta quando si parla di una spada famosa, e il proprietario della locanda in cui alloggiava, un tipo attento ai quattrini e col fiuto per la possibilità di cavarne altri, aveva ribattezzato l’osteria allo stesso modo, apponendo un sigillo eterno sulla faccenda. Un artista locale aveva buttato giù un ritratto passibile di Ringil che brandiva l’Amica dei Corvi a Gola della Forca, e questo adesso era appeso fuori affinché tutti i passanti potessero vederlo. In cambio, Ringil godeva di vitto e alloggio e dell’opportunità di rifilare i racconti delle sue imprese ai visitatori nella sala comune per qualsiasi offerta gli finisse nel cappello.
Tutto questo aveva osservato ironicamente Ringil in una lettera ad Archeth, e in aggiunta chiudono un occhio su certe pratiche a letto che senza dubbio avrebbero causato al Tuo Affezionatissimo una morte lenta per impalamento a Trelayne o a Yhelteth. Sembra che la reputazione di eroe ad Acqua della Forca comprenda una qualche dispensa speciale, non alla portata del cittadino medio in periodi moralistici come questi. Inoltre, supponeva, non si va a caccia di froci quando la preda in questione ha fama di ridurre spadaccini provetti in carne per cani per un semplice guanto di sfida. In fin dei conti, aveva scribacchiato Ringil, la fama ha una sua utilità.
Era stata una bella idea quella di piazzare la spada sul camino: una trovata del proprietario, che adesso cercava di convincere il suo celebre ospite a insegnare come si duella nel cortile dietro la stalla. Incrociate le spade con l’eroe di Gola della Forca al costo di tre Imperiali per mezz’ora. Ringil non sapeva se fosse già così disperatamente a corto di denaro. Aveva visto come l’insegnamento aveva ridotto Bashka.
A ogni modo, estrasse l’Amica dei Corvi dal fodero con un singolo rintocco stridulo, se la buttò casualmente sulle spalle e uscì in strada, ignorando gli sguardi degli spettatori cui un’ora prima aveva elargito i suoi racconti epici. Immaginava che lo avrebbero seguito per almeno una parte del tragitto verso la casa del maestro. Se i suoi sospetti su quanto stava accadendo erano fondati non gli sarebbe successo niente di male, ma probabilmente loro se la sarebbero data a gambe al primo segnale di guai. In realtà non li si poteva biasimare; erano contadini e mercanti, e non avevano alcun legame con lui. Un terzo di costoro non li aveva neppure mai visti prima. Come recitava la prefazione al trattato di scherma che l’Accademia Militare di Trelayne aveva cortesemente declinato di pubblicare: Se non conoscete per nome quelli che sono alle vostre spalle, non meravigliatevi se costoro non vi seguiranno in battaglia. D’altro canto, non sorprendetevi neppure se lo faranno, giacché ci sono innumerevoli altri fattori da prendere in considerazione. Il comando è un bene scivoloso, difficile da forgiare e da comprendere. Era la verità pura e semplice, appresa nelle sanguinose prime linee di alcune delle battaglie più stronze che le Città Libere avessero visto a memoria d’uomo. Comunque fosse, il Tenente di Trelayne incaricato di valutare il trattato gli aveva educatamente risposto: Un po’ troppo vago perché l’Accademia possa considerarlo materiale utile per l’addestramento. È questa ambiguità, così come tutto il resto, che ci spinge a declinare la vostra proposta. Ringil aveva fissato quell’ultima frase sulla pergamena e sospettato che si trattasse di uno spirito affine.
In strada faceva freddo. Dalla cinta in su, lui indossava solo un farsetto di pelle con ampie mezze maniche di tela, e un precoce gelo fuori stagione calava lungo la dorsale del paese dagli altipiani Majak. Le cime delle montagne sotto cui stava rannicchiata la città erano già coronate di neve, e si pensava che sarebbe stato impossibile attraversare Gola della Forca prima della Vigilia di Padrow. Si era ricominciato a vociferare di un inverno Aldrain. Da settimane ormai circolavano storie su interi greggi nei pascoli sulle alture divorati dai lupi e altri predatori decisamente meno naturali, e su incontri e avvistamenti agghiaccianti nei valichi di montagna. Non tutte potevano essere derubricate a chiacchiere fantasiose. E Ringil sospettava che questa si sarebbe rivelata la causa del problema di quella sera. L’abitazione di Bashka, il maestro, stava in fondo a una delle traverse della cittadina e affacciava sul cimitero. Essendo questi la persona di gran lunga più istruita – eccezion fatta per l’eroe locale – nella minuscola cittadina di Acqua della Forca, a Bashka era stato automaticamente attribuito il ruolo di officiante del tempio, e insieme all’abitazione aveva ricevuto in eredità i paramenti sacerdotali. Ma quando faceva freddo, i cimiteri costituivano un’ottima fonte di approvvigionamento di carne per i divoratori di carogne.
Tu sarai un grande eroe, aveva predetto un indovino di Yhelteth leggendo la saliva di Ringil. Affronterai molte battaglie e avrai la meglio su molti nemici.
Neanche una parola sul diventare uno sterminatore municipale in una cittadina di confine non molto più grande dei bassifondi sull’estuario di Trelayne.
C’erano torce disposte su sostegni lungo le stradine principali e la zona prospiciente la riva del fiume di Acqua della Forca, ma il resto della città doveva accontentarsi dell’Arcoluce che, in una notte così nuvolosa, non era gran che. Come Ringil aveva previsto, la folla si diradò appena sbucarono su una strada non illuminata. Quando fu chiaro dove fosse diretto esattamente, la sua scorta si ridusse di oltre la metà. Raggiunse l’angolo della via di Bashka seguito ancora da un gruppo poco compatto di sei o otto persone, ma quando fu all’altezza della casa del maestro – la porta ancora spalancata, come l’aveva lasciata il proprietario quando era fuggito in camicia da notte – era solo. Rivolse la testa inclinata laddove i ficcanaso indugiavano indecisi in fondo alla strada. Un sorriso asciutto gli contrasse le labbra.
«Adesso vedete di restare alla larga» vociò.
Dalle tombe, qualcosa emise un urlo cupo e monotono. A Ringil venne la pelle d’oca. Tolse l’Amica dei Corvi dalle spalle e, impugnandola guardingo davanti a sé, svoltò l’angolo della casa.
Le file di tombe correvano allineate su per la collina, dove la cittadina scompariva lasciando affiorare i massi di granito. La maggior parte delle lapidi erano semplici lastre cavate dalla pietra della montagna stessa, il che rifletteva l’atteggiamento flemmatico della gente locale nei confronti della morte. Qua e là si poteva incappare in una tomba Yhelteth un po’ più decorata o nei tipici tumuli di pietra sotto cui i nordici seppellivano i morti, con appesi dei talismani sciamanici in ferro dipinti con i colori del clan degli antenati. Di solito Ringil evitava di recarsi troppo spesso lassù; ricordava molti dei nomi incisi sulle lapidi, poteva dare un volto a troppi di quei cadaveri forestieri. Il gruppo che, sotto il suo comando, era morto a Gola della Forca in quel torrido pomeriggio estivo di nove anni prima era un’accozzaglia di popoli, e pochi degli stranieri avevano famiglie che potevano permettersi il lusso di riportare a casa i figli per seppellirli. I cimiteri che ricoprivano quel tratto delle montagne erano disseminati delle loro testimonianze solitarie.
Ringil avanzò nel cimitero con le ginocchia piegate, un passo alla volta. Le nuvole si aprirono in cielo e la lama Kiriath luccicò improvvisamente alla striscia dell’Arcoluce. Non aveva più sentito quell’urlo, ma adesso riusciva a distinguere rumori più lievi e furtivi. “Sembra qualcuno che stia scavando” pensò senza entusiasmo.
Tu sarai un grande eroe.
Sì, certo.
Trovò la madre di Bashka intenta a rovistare vicino a una lapide disposta di recente. Il sudario della sua sepoltura era lacero e sporco, mostrando una carne putrefatta che lui poteva fiutare persino a una decina di passi e controvento. Le unghie, che le erano cresciute dopo la morte, producevano un raspio fastidioso, mentre erano alle prese con la bara parzialmente dissotterrata.
Ringil fece una smorfia.
In vita, lui non era mai piaciuto alla donna. Dato che il figlio era sacerdote e officiante del tempio, ci si aspettava che questi disprezzasse Ringil, considerandolo un immondo degenerato e corruttore di giovani. Invece Bashka, maestro e uomo d’una qualche cultura, aveva dimostrato di essere una persona troppo illuminata per trarne vantaggio. Il suo atteggiamento indulgente con Ringil e le discussioni filosofiche in cui talvolta si impelagavano nella taverna e che si protraevano fino a tarda notte avevano attirato le critiche corrosive dei sacerdoti più anziani in visita. Peggio ancora, la sua mancanza di zelo censorio gli aveva guadagnato una cattiva reputazione tra le gerarchie ecclesiastiche che gli avrebbe assicurato di restare sempre e solo un umile maestro in una cittadina sperduta. Piuttosto naturalmente, per il fatto che suo figlio non avesse avuto una brillante carriera la madre incolpava quel degenerato di Ringil e la sua malefica influenza, e lui non era stato il benvenuto a casa del maestro finché la donna aveva avuto fiato in corpo. Quest’ultima attività aveva conosciuto una brusca interruzione il mese precedente in seguito a una febbre improvvisa e fulminante, probabilmente mandata da un dio che, preso da altri problemi, si era lasciato sfuggire la grande rettitudine della donna nelle questioni religiose.
Cercando di non respirare col naso, Ringil batté con il piatto della spada su una tomba per attirare l’attenzione della donna. In un primo momento sembrò che lei non avesse sentito il rumore, ma poi lui vide che il corpo sussultava e si torceva e si trovò a fissare un volto dove gli occhi erano stati divorati tempo fa da qualunque minuscola creatura fosse preposta allo scopo. La mascella cadeva penzoloni, mancava gran parte del naso e la carne delle guance era macchiata e forata. Notevole che Bashka l’avesse persino riconosciuta.
«Vieni fuori di lì» ordinò Ringil, preparando la spada.
La cosa uscì.
Sbucò dalla gabbia toracica della donna, con un risucchio crepitante: un coprofito lungo almeno un metro, senza contare le articolate appendici che usava per pilotare gli arti. Era grigiastro, non molto diverso da certe specie di vermi dalla pelle viscida, cui per molti aspetti il corpo somigliava. Il muso informe della cosa finiva con delle fauci dai bordi callosi che masticavano rumorosamente e sapevano sbriciolare le ossa; Ringil sapeva che l’estremità della coda era identica. I coprofiti non secernevano rifiuti, ma li essudavano dai pori sul corpo, simile a quello d’una grossa lumaca, in una sostanza che, al pari della saliva, era corrosiva e letale.
Nessuno sapeva dire da dove sbucassero fuori. Secondo le leggende i coprofiti originariamente erano grumi di muco delle streghe, scatarrati e animati dalle loro malefiche proprietarie per ragioni che, nella maggior parte dei racconti, restavano piuttosto vaghe. La religione ufficiale sosteneva invece a voci alterne che fossero normali lumache o vermi posseduti dalle anime dei morti maligni, o visitazioni demoniache che risalissero da qualche cimitero infernale laddove le anime indegne si decomponevano, pienamente coscienti, nelle loro tombe. Archeth aveva una sua teoria lievemente più sensata, per la quale i coprofiti erano il risultato di una mutazione prodotta dagli esperimenti Kiriath compiuti secoli orsono su forme di vita inferiore, una creatura progettata per sbarazzarsi dei morti in modo più efficace di quanto facessero i comuni divoratori di carogne.
Qualunque fosse la verità, nessuno sapeva quale livello di intelligenza possedessero davvero i coprofiti. Tuttavia in un dato momento della loro evoluzione, naturale o no, questi avevano imparato a usare le carcasse di cui si nutrivano per un gran numero di altri scopi. Un corpo poteva servire per nascondersi o come letto per l’incubazione delle loro uova; qualora non fosse ancora in avanzata decomposizione poteva anche diventare un mezzo per muoversi rapidamente o camuffarsi e, se si trattava di umani o lupi, uno strumento per scavare. Era stato proprio l’impiego dei corpi umani a scatenare gli avvistamenti di non-morti in tutto il Nordovest quando gli inverni erano particolarmente rigidi.
Occasionalmente, Ringil si era chiesto se i coprofiti non controllassero le carcasse per gioco. Era solo una sua idea macabra, partorita quando aveva letto per la prima volta di queste creature nei resoconti di alcuni viaggiatori nelle Desolazioni Kiriath. Dopotutto, aveva ragionato col bibliotecario di suo padre, le secrezioni dello stesso coprofito avrebbero corroso una bara di legno quasi nel tempo impiegato dalle mani di un morto in decomposizione per aprirla, dunque per quale motivo affaticarsi tanto? L’opinione del bibliotecario, e in seguito di suo padre, era che Ringil avesse una mente malata e che avrebbe dovuto interessarsi, come già i suoi fratelli maggiori, di altri passatempi più convenzionali, come andare a cavallo e a caccia, o portarsi a letto le ragazze. Sua madre, che senza dubbio già nutriva dei sospetti, non aveva detto niente.
Dai due o tre incontri che aveva già avuto con le creature, Ringil sapeva anche che potevano essere molto…
Il coprofito fletté il corpo fuori della gabbia toracica e balzò dritto su di lui.
veloci.
Ringil mulinò un colpo di traverso, assai poco elegante, e riuscì a centrare la cosa buttandola a sinistra. La creatura si schiantò contro una lapide e finì a terra contraendosi, troncato quasi a metà dalla sciabolata. Ringil calò la spada e completò l’opera, le labbra arricciate per il disgusto. Le due parti della creatura si attorcigliarono, tremarono e infine rimasero immobili. A quanto pare neppure i demoni e le anime degli empi potevano sanare quel genere di danno.
Ringil sapeva anche che i coprofiti si spostavano in gruppi. E quando la sottile filigrana d’un viscido cordone ombelicale gli sfiorò la guancia lui stava già girandosi di scatto per affrontarne un altro. Le gocce di secrezione bruciavano, non c’era tempo per asciugarle. Scorse la creatura attorcigliata su una tomba Yhelteth e la infilzò di riflesso. I filamenti si ritrassero e la cosa emise dei cinguettii rabbiosi mentre moriva. Come in risposta, dall’altro lato della tomba Ringil sentì un tonfo e notò un movimento. Girò intorno alla lastra di pietra lavorata tenendosi a debita distanza e scorse due coprofiti più piccoli che si trascinavano fuori dai resti d’una bara marcescente e dal suo contenuto parimenti scaduto da un pezzo. Con un singolo fendente dall’alto li tagliò irrimediabilmente in due, fluidi organici che schizzavano a fiotti dalle ferite come olio biancastro. Assestò un altro colpo, tanto per stare sul sicuro.
Il quinto coprofito gli atterrò sulla schiena.
Non pensò affatto. A posteriori immaginò di essere scattato per puro e semplice disgusto. Lasciò cadere la spada con un urlo, si piegò per slacciare le fibbie del farsetto e le strappò con entrambe le mani. Con lo stesso movimento, scuotendo le spalle, si liberò dell’indumento, mentre il coprofito ancora non aveva capito che la pelle della giubba non era quella del corpo. Il farsetto cadde e si afflosciò sotto il peso della creatura, e ciò aiutò Ringil a liberarsi. I tentacoli intorno alla vita e sulle spalle continuavano ancora a strisciare l’uno verso l’altro, ma non ebbero il tempo di avvinghiarlo prima che potesse divincolarsi. Riuscì a liberare la sinistra e, roteando come un discobolo, sfilò anche la destra, scagliando il farsetto tra le tombe. Sentì che sbatteva contro qualcosa di solido.
I tentacoli lo avevano toccato su petto e spalle: più tardi vi avrebbe trovato le piaghe. Afferrò l’Amica dei Corvi e andò a caccia del farsetto, tenendo occhi e orecchie ben aperti per assicurarsi che non ci fossero altri sopravvissuti. Lo scovò, parzialmente dissolto, alla base di un’antica lastra ricoperta di muschio, vicino al retro del cimitero. Non male come lancio, senza rincorsa. Il coprofito provava ancora a liberarsi dal cuoio e si dibatteva confusamente. A fauci scoperte, sibilava come una spada appena immersa in una tinozza per il raffreddamento....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’acciaio sopravvive
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. Epilogo
  38. Ringraziamenti
  39. Copyright