La mattina di domenica primo marzo il sindaco Claudio Cancelli ebbe la conferma di quanto in fondo già sapeva e che l’analisi del tampone aveva definitivamente sancito: era positivo. Si premurò di avvertire la madre perché non lo sapesse da altri e fosse rassicurata dalle sue parole. Quindi si rivolse ai suoi amministrati con una pubblica lettera rilanciata dai social.
La situazione dei casi a Nembro vede sempre qualche nuovo positivo, ma per ora non c’è una crescita esponenziale dei numeri, per fortuna. Ringrazio l’Agenzia di Tutela della Salute di Bergamo che ha immediatamente disposto sul territorio tutte le attività di tutela e prevenzione. Ats è in contatto con la mia giunta per definire le iniziative di prevenzione più opportune. Non siamo stati mai lasciati soli. Purtroppo devo informarvi che oggi mi è stata comunicata la mia positività al virus. Quindi anche io rientrerò nei numeri statistici ufficiali. Sto bene, ho avuto due giorni con qualche linea di febbre che da ieri non c’è più e sono in isolamento da giovedì mattina con i primi sintomi. È giusto che lo sappiate da me piuttosto che dagli organi di stampa. Sono sereno e sono attivo nel seguire le attività del Comune, anche se ovviamente nella mia camera di isolamento. Tutta la giunta, i consiglieri e i dipendenti comunali sono costantemente impegnati. Siamo una squadra forte, coesa e determinata. Quindi il vostro sindaco è qui e vuole guardare al nostro futuro di comunità con speranza. Il periodo è difficile, ma dobbiamo avere tutti fiducia nella nostra capacità di ripresa. Buona giornata.
Faticai a credere che Claudio fosse genuino nel giudizio sull’efficacia dell’Ats. Il suo ruolo istituzionale gli imponeva una postura rasserenante nei confronti dei paesani spaventati e la sua indole calma e riflessiva assecondava la necessità, quando magari avrebbe voluto urlare il suo disappunto perché nulla stava davvero funzionando e più il virus si diffondeva più metteva a nudo l’impreparazione totale ad affrontarlo, il dilettantismo, la superficialità. Elementi a cui faceva da contraltare l’abnegazione dei singoli, infermieri, barellieri, medici, che stavano cercando di arginare con il tappo della dedizione assoluta la diga che stava crollando. I media nazionali cercavano il sindaco infetto perché faceva audience e lui a ogni collegamento si incazzava, quando lo sentivo si sfogava: «Ma ti rendi conto, Gigi? Mi chiedono come sto, vogliono che racconti della mia salute quando qui il problema è completamente diverso. Che c’entro io? Gli chiedo di parlare piuttosto della situazione generale, cosa assai più utile, ma pare che non interessi a nessuno». Comprendevo l’esigenza di personalizzazione dei miei colleghi e nello stesso tempo non potevo dare torto al sindaco, convinto che fosse indispensabile lanciare un allarme più robusto a livello nazionale. Il paradosso, a inizio marzo, era che Nembro stava in ogni risvolto di cronaca senza mai assurgere a caso. Nembro era niente al cospetto dell’Italia intera, concentrata nel tentativo di comprendere cosa le sarebbe toccato e cosa avrebbe deciso il governo, se saremmo diventati la nuova Cina, se l’epidemia era ancora in una fase in cui si poteva bloccare, e se e quanto era letale, tra le baruffe di scienziati che litigavano a favore di telecamera.
Eppure Nembro aveva il sindaco infetto. Don Matteo, tornato dall’Alto Adige, aveva trovato tutti gli altri sacerdoti ammalati. Così come tutti, ma proprio tutti, i medici condotti erano stati messi in quarantena. La domenica non era domenica, non ne aveva nessuna parvenza, era un giorno uguale agli altri da trascorrere tappati in casa, con il cielo grigio e la pioggia battente che aggravava l’umore di chi sentiva precario il futuro. Vietati i sacramenti, vietati gli assembramenti, neanche il calcio in televisione, dato che il campionato era sospeso, mentre le martellanti edizioni dei notiziari monotematici si susseguivano l’una uguale all’altra, a ripetere con ossessione all’infinito quanto era già di pubblico dominio.
Mi risolsi al giro telefonico quotidiano di controllo parenti. Lina anzitutto. Stava bene, non aveva del resto mai mancato un giorno di lavoro e si era ripresa stando in piedi a smaltire i pazienti che si accalcavano nell’ambulatorio.
«Pronto mamma, come stai?»
«Cosa vuoi, è domenica e i tuoi fratelli non vengono come facevano di solito.»
«E tu sei triste?»
«Ma no. È giusto così, mi devono tutelare. Ho letto i giornali, ho fatto le parole crociate. Ora mangio, ho il frigorifero pieno.»
«E a Nembro come va?»
«C’è un po’ di agitazione per sta roba qua. E mi dispiace perché siamo molto chiacchierati.»
(Come per papà, “chiacchierati” è per lei un disonore.)
«In che senso chiacchierati, mamma?»
«Si parla di noi e non va bene.»
Tocca a Carla.
«Lo sai cosa mi è successo ieri, zio?»
«No che non lo so.»
«Sono andata in un negozio del centro di Bergamo per comperare una crema.»
«Hai fatto bene.»
«Aspetta. Mi hanno domandato se volevo la tessera fedeltà, ho risposto di sì e mi hanno chiesto i miei dati. Quando ho detto “residente a Nembro” gli altri clienti hanno fatto un passo indietro, il negozio si è svuotato.»
«Ma dai!»
«Ti giuro. E non è tutto. Un mio amico è andato in Piemonte a fare un giro e lo hanno fermato i carabinieri. Lui gli ha dato la carta d’identità e il carabiniere ha cambiato tono. Gli ha detto: alzi il finestrino e non scenda dall’auto fino a quando non avremo finito i controlli. È pazzesco, ci trattano come appestati. Circola sui social una foto di Marte con la scritta: “C’era vita su Marte prima che arrivasse un turista di Nembro...”.»
Flavio, che di professione installa e ripara impianti di birra alla spina nei locali.
«Ieri mattina sono andato nella Bassa Bergamasca dai miei clienti. Entro in un bar dove mi conoscono da vent’anni, sono da sempre il loro tecnico, e il titolare mi fa: “Ascolta Flavio, se non ricordo male sei di Nembro tu, giusto?”. Gli ho risposto di sì. E lui: “Fammi un favore, è meglio se non vieni più in questo periodo”. Mi sono guardato intorno, ho visto gli altri avventori, quelli con cui solitamente si scherzava e si facevano battute: erano muti. Un silenzio! Come per invitarmi ad andarmene...»
«Flavio, va così. I cinesi siamo noi adesso. È il nostro turno.»
Siamo untori. E per reazione rivendichiamo la nostra origine come non ci era mai passato per la mente prima. La controffensiva portò dei ragazzi a disegnare una t-shirt con la scritta: “Sono orgogliosamente di Nembro”. Altri presero in prestito un inconfondibile quadro del pittore-musicista Gianni Bergamelli sovrastato dalle parole “Nember united”. Io stesso, che continuavo a circolare su e giù per la Penisola, sentivo il desiderio, anche quando non richiesto, di dichiarare che ero di Nembro. Mi resi conto, in quella fase, che non esisteva un’Italia e nemmeno due, ma ce n’erano tante e sfaccettate a seconda dell’incidenza del virus. Più ci si allontanava dall’epicentro-Lombardia e meno ne era avvertita la pericolosità. E alla latitudine di Roma non c’era praticamente nulla che evocasse l’emergenza. Mi sentivo scisso. Ero contemporaneamente intriso, per osmosi telefonica, delle ansie della Valle Seriana e della noncuranza del resto del Paese. Mi chiesi come potessi rendermi utile per colmare quel gap percettivo. Non avevo altro strumento se non il mio lavoro. La sera di domenica primo marzo chiamai Alessandro Gilioli, vicedirettore dell’“Espresso”, il settimanale su cui scrivo da vent’anni, per proporgli un pezzo.
«Alessandro, per il prossimo numero vorrei scrivere di Nembro. C’è qualcosa che non quadra. Dal 24 febbraio ci sono già stati dieci morti. I conti, anche degli infetti, non collimano con quelli divulgati. Su sta succedendo un disastro, Alessandro. Che dici?»
«Non lo so, Gigi. Abbiamo già il giornale strapieno di inchieste, commenti, interviste sul coronavirus. Ne parlo domani in riunione e ti faccio sapere.»
L’indomani, il primo lunedì di marzo, arrivò a Nembro la dottoressa Clara Bettini in sostituzione del quarantenato Massimo Pandini. Non una neolaureata ma quasi, con i suoi ventotto anni. All’Ats avevano una lunga lista di medici, ma ebbero una infinita sequela di rifiuti finché arrivò il suo turno. Si trattava di dire un sì o un no. Clara consultò la mamma, gli amici, si confrontò con lo stesso Pandini e capì che non l’avrebbe lasciata sola, benché costretto tra le mura domestiche. Si risolse per il sì, voleva onorare il giuramento di Ippocrate, anche se fare il medico di base non era fra i suoi sogni. La notte precedente la trascorse al Papa Giovanni, dove era di turno per una sostituzione. Poi passò da casa, a Bergamo Alta, giusto il tempo per cambiarsi d’abito. Accese il cellulare e si mise in macchina con un tempo da tregenda, tra vento e pioggia, verso la Valle Seriana. Non ricorda quante volte dovette fermarsi sul ciglio della strada per rispondere al telefono. Erano assistiti che denunciavano sintomi influenzali e chiedevano un certificato di malattia da presentare al lavoro. «Non riuscivo ad arrivare a destinazione, non facevo in tempo a riattaccare che il cellulare squillava di nuovo. Finalmente raggiunsi l’ambulatorio dove firmai almeno cento certificati e rincasai la sera stremata verso le 23.30. E per fortuna conoscevo il programma informatico per la gestione dei pazienti, altrimenti sarebbe stato ancora più complicato.» Si sfogò con Pandini: «Massimo, io impazzisco così, la situazione non è gestibile». E lui, per calmarla, con il notorio spirito dissacrante: «Clara, se non è gestibile chiameremo i militari».
Don Matteo, fresco di vacanza, annusò al rientro, fin da quando scese dalla macchina, che l’aria era cambiata, che il corpo di Nembro, se un paese può avere un corpo, inspirava ed espirava ansia. Le sirene delle ambulanze erano la colonna sonora ripetuta come un ritornello. Si informò sugli altri religiosi. Don Gianluca in ospedale, don Antonio a letto con la febbre, don Sergio aveva contratto il virus, don Andrea molto probabilmente pure, don Robertino della frazione Lonno in quarantena come don Arturo della frazione di Gavarno.
Don Gianluca Rota, alla sua rispettabile età di ottantasette anni, era appena tornato dall’Ecuador dove viveva stabilmente sei mesi all’anno. In tempo per prendersi la malattia. In piedi, a condurre da pastore di anime il gregge che stava per essere decimato, non restava che lui. Gli comunicarono che doveva occuparsi da subito di due funerali. Non si celebravano le messe ma i funerali sì, solo con i parenti stretti, formula piuttosto lasca: chi sono i parenti stretti? Convocò una riunione della redazione di “Nembro giovani” per obbligare i suoi ragazzi a mettere in moto alcune attività e perché non restassero sdraiati sul divano. Spuntò l’idea della messa online per la domenica, la parola della parrocchia, di un volto conosciuto, affinché i fedeli non si adagiassero su quelle trasmesse dalla televisione. Non gli pesava la responsabilità di reggere da solo il rapporto con il sacro dell’intera comunità, né era preoccupato per se stesso. Se la sua era una vocazione, il dovere lo chiamava al senso più alto di quella parola.
Come se non bastasse il quadro già fosco, quel giorno suonarono a morto le campane per Giulio Bonomi. Aveva novantadue anni e se n’era andato nella sua stanza del ricovero. Negli anni più fervidi della passione politica, Giulio era stato l’esempio di cosa significhi l’impegno. Io lo avevo soprannominato “Suslov” per la stretta somiglianza con Michail Andreevič Suslov, il severo depositario dell’ortodossia sovietica. Gli occhiali minuscoli, il corpo segaligno, il ciuffo di capelli che gli scendeva ribelle sulla fronte, l’impermeabile scuro con le mani in tasca erano il suo profilo perenne. Era un falegname autodidatta, mai sazio di conoscenza, e la sua parabola politica era emblematica di un’inquietudine esistenziale, alla ricerca del partito perfetto che lo potesse rappresentare. Era stato democristiano da giovane. Con Lucio Magri, il notaio Carlo Leidi e Giuseppe Chiarante, aveva traslocato negli anni Cinquanta nel Pci e quindi nel 1969 aderito alla scissione del “manifesto”. Democrazia proletaria e Rifondazione comunista le altre sue declinazioni successive. Aveva nel cuore gli operai, assiduo nell’occupazione delle fabbriche dove si rischiava di perdere il posto di lavoro. Scomodo, ingombrante, retto. Inviso ai moderati e alle destre, però rispettato. Quando entrava nella sede del Pci, lui che era stato uno scissionista, veniva ricevuto con un misto di diffidenza e deferenza. Aveva sempre l’atteggiamento del bastian contrario, un padre severo più che un “compagno” fratello maggiore. Quella sua intransigenza, prima di tutto con se stesso, incuteva timore reverenziale. Penso di non averlo mai visto ridere, come se non si potesse ridere davanti alle ingiustizie del mondo che cercava di riparare. Le sue posizioni erano assolutamente minoritarie nel piccolo borgo della Valle Seriana, dove il dominio scudocrociato lasciava pochi seggi in consiglio comunale per i seguaci di Berlinguer e nulla più. Epperò quella super-minoranza niente affatto silenziosa godeva di una considerazione cavalleresca, della stima verso un avversario leale e preparato. Giulio sarebbe stato in battaglia letteralmente fino all’ultimo respiro. Gli scaffali della sua stanza al ricovero erano pieni di saggi che leggeva con l’avidità di chi sa di non sapere. Si era trascinato nel suo nuovo domicilio un archivio artigianale di ritagli di giornale vecchi di decenni sui temi più disparati, a cui gli studenti attingevano a piene mani per ricerche e tesi universitarie. Il mattino spingeva la carrozzella su cui era costretto verso l’angolo più luminoso del giardino per leggere “il manifesto”. Alla cooperativa che gestisce il quotidiano comunista, l’ultimo rimasto, aveva giurato che avrebbe lasciato i suoi beni. Ha mantenuto la promessa, salvo che una parte l’ha destinata alla casa di riposo, grato per i cinque anni trascorsi là dentro. Con lui se ne andava una parte importante del panorama umano di Nembro. Molti altri l’avrebbero seguito.
Martedì 3. Carla.
«Come va?»
«Ciao, zio. Sto malissimo. Ho tossito tutta la notte senza riuscire a dormire. Mi sono alzata perché in piedi si attenua un po’ e in giro per casa c’era pure papà che tossiva in un modo che mette paura.»
«Hai febbre?»
«Poca.»
«Gusto? Olfatto?»
«No. E anche la saturazione va bene.»
«È coronavirus secondo te?»
«Che altro? Zio...»
«Sì?»
«Moriremo tutti.»
«Dai, non scherzare, ti riprenderai.»
«So che vuoi venire a Nembro, ti scongiuro, non farlo. Senti? È un’ambulanza. Ormai è una sirena continua, giorno e notte. E ogni volta mi chiedo chi stanno andando a prendere.»
«Ma il dottore da cui lavori cosa ti ha detto di fare?»
«È stato carino. Di stare a casa. E poi tachipirina e sciroppo per la tosse. Non ce la faccio più.»
«Dai su, la saturazione va bene, quello è l’indicatore più importante.»
«Ma c’è gente che saturava bene e in poco tempo... Senti? Altra ambulanza.»
«Tu sei stata attenta in ambulatorio?»
«Sì, ma non si è mai attenti a sufficienza. E non ce la raccontano giusta. Non è una banale influenza. Circolano messaggi che se li leggi...»
«Del tipo?»
«Del tipo che gli ospedali sono allo stremo. Hanno fatto le lastre ad alcuni ricoverati e i polmoni sono completamente bianchi. I radiologi non hanno mai visto nulla di simile. Senti? Terza ambulanza.»
«Come come? I polmoni bianchi?»
«Adesso ti giro una foto. È pazzesco. Il virus li distrugge completamente nel giro di poche ore.»
«Chi ti dà le informazioni?»
«Anche se non si esce sappiamo sempre tutto perché la gente non ha niente da fare e posta, posta posta. Ecco, quarta ambulanza.»
«Mettiti dei tappi nelle orecchie, almeno ti eviti questo supplizio.»
«Le sentirei ugualmente, la casa è sullo stradone, passano qui vicino. Solo stamattina ho saputo di tre genitori di mie amiche che sono in fin di vita. Te l’ho detto, moriremo tutti.»
«Smettila. Sono sicuro che il tuo dottore ti seguirà per bene e saprà cosa fare.»
«Ecco, quinta ambulanza.»
«...»
«Non ne usciremo più. Ma cosa abbiamo fatto di male?»
«Non tirare in ballo storie di punizione divina o cose simili.»
«Però non è giusto. Sesta ambulanza...»
«Perché fanno suonare la sirena? Non c’è in giro nessuno, mica hanno bisogno di farsi largo nel traffico. Così aumentano solo il panico.»
«Infatti non ne avrebbero bisogno. Dovrebbero vietare la si...