Forse ci siamo persi qualcosa
Forse ci siamo persi qualcosa. Da cent’anni a questa parte. Qualcosa di importante. Che ci servirebbe oggi. Soprattutto oggi.
Intanto, come al solito, ci siamo persi delle storie, e delle catene di significato. Le storie dei grandi esploratori, per esempio. Quando io ero un bambino, i grandi esploratori erano miti. C’erano le raccolte di figurine che li celebravano: ci fantasticavi sopra per settimane. E per i loro contemporanei (diciamo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento) gli esploratori erano delle vere star globali.
Intendiamoci, ci sarebbe una lunga genealogia anche più lontana: Marco Polo, Cristoforo Colombo, Ferdinando Magellano, Amerigo Vespucci, James Cook.
E chiariamo subito un’altra cosa: gli esploratori possono essere personaggi controversi e ambigui. Basti come esempio che, tra loro, ci finisce ogni tanto persino Hernán Cortés Monroy Pizarro Altamirano, passato alla storia semplicemente come Cortés, cioè colui che in pratica mette le premesse per lo sterminio degli aztechi, e comunque tutto si può dire di lui meno che fosse un santo.
Poi ci fu l’esplorazione dell’Africa: le mitiche sorgenti del Nilo, Livingstone, Stanley e – in sostanza, se è consentito qui generalizzare – zaffate ricorrenti e rivoltanti di colonialismo razzista che finiscono per cancellare ogni altro anche rispettabile profumo di buone intenzioni e di lodevoli entusiasmi.
Ma agli inizi del Novecento il vero, grande mito fu quello delle esplorazioni polari, che è come dire il tentativo di praticare le zone più inospitali, letali, impossibili della Terra. Cioè, posti dove non c’è assolutamente niente di tutto ciò che serve per sopravvivere. E quando dico niente, intendo proprio niente. O almeno così sembrerebbe. A ben vedere, al contrario, c’è tutto quel che serve per morire.
E in questo caso è probabile che ci vengano subito in mente i nomi di Robert Falcon Scott (che non a caso in Antartide ci muore con tutti i suoi compagni di spedizione), Roald Amundsen (che il Polo Sud lo «conquista» ma poi ci lascia la vita pure lui in un’altra occasione) e – magari – del nostro Umberto Nobile con la sua Tenda Rossa (che va a un pelo dal non riuscire a tornare più indietro). Quelli più preparati in argomento rammentano Robert Edwin Peary, che mette piede per primo al Polo Nord.
Pochissimi si ricordano invece di Sir Ernest Henry Shackleton. Credo per un motivo piuttosto semplice: perché non conquista un bel niente e sostanzialmente, quando tenta l’impresa della vita, fallisce.
Giusto: perché mai dovremmo ricordare la storia di un fallimento?
Eh già… perché?
Forse ci siamo persi qualcosa. Tra cui la risposta a questa domanda. Perché.
L’uomo dai molti percorsi, o Musa, tu cantami, colui che molto vagò … e molto patì nel suo cuore per guadagnare a sé la vita, il ritorno ai compagni. Ma neppure così li salvò, per quanto lottasse…
Questo è l’incipit dell’Odissea: un’altra cosa che di solito ci dimentichiamo. Abbiamo tutti bene in mente l’inizio dell’Iliade («Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta»), ma quello dell’Odissea no. Ci sarà un motivo.
L’Odissea. Una delle storie eroiche per antonomasia della nostra civiltà. Il cui protagonista, Ulisse, sta a buon diritto nell’empireo degli eroi. Uno dei massimi, tra gli eroi. Secondo alcuni, il più eroe di tutti.
E cosa fa per essere ricordato per millenni come eroe? Stringi stringi, fa un viaggio di ritorno.
Tutto qui?
Sì e no. Perché quel viaggio di ritorno è talmente travagliato, faticoso e pieno di avversità e ostacoli da superare che più di una volta Ulisse sembra senza via di scampo. Non a caso, appunto, nel nostro lessico quotidiano si usa dire «un’Odissea» per definire una disavventura ai limiti dell’incredibile anche nella banalità della vita normale. Basta una coda di ore in autostrada o una irritante sequela di interminabili pratiche burocratiche per dire di aver vissuto «un’Odissea».
Ma nei primi versi del poema, Omero ci avverte subito: quella di Ulisse è la storia di un fallimento. Voleva riportare a casa tutti i suoi compagni, e non ci riesce, proprio per niente. Anzi, unico fra tutti, si salva solo lui. Che nell’etica contemporanea non è neanche gran cosa di cui vantarsi: semmai il capitano dovrebbe essere l’ultimo a mettersi in salvo, pronto ad affondare insieme alla nave.
Però Ulisse conquista comunque e mantiene ben salda per millenni la sua posizione nella hit parade degli eroi. Pensiamo come avrebbe sbancato la classifica se fosse anche riuscito nel suo intento di salvare tutti gli altri…
Comunque, come che la si voglia guardare, l’Odissea ci mostra che sì, la storia di un fallimento può essere memorabile.
Si può ben provare, allora, a raccontarla, un’altra storia di fallimento: di un fallimento eroico.
E gli dei dell’Olimpo mi perdonino se mi azzardo a dirlo. È una storia che quanto a eroismo non ha proprio niente da invidiare all’Odissea. Anzi.
Un pugno di mosche
Sir Ernest Henry Shackleton nasce in Irlanda, a Kilkea House, contea del Kildare, il 15 febbraio 1874. Famiglia in perfetto stile irlandese: dieci figli. Lui è il secondogenito, primo maschio, e il padre medico gli pronostica con grande sforzo di fantasia un futuro… da medico.
È che i progetti dei padri per i figli raramente vanno a buon fine.
Ernest, irrequieto e insofferente alla formazione accademica di età vittoriana, a 16 anni si arruola come mozzo sulla nave della marina mercantile britannica Houghton Tower. Altro che medico.
Fa la gavetta per mare: Oceano Pacifico e Indiano. Diventa nostromo e nel 1898 comandante, con la qualifica inglese di Master Mariner, la più alta possibile, che gli consente di comandare qualsiasi nave britannica, di qualunque tonnellaggio, in qualunque parte del globo.
Lavora un po’ in marina mercantile, alla Union-Castle Line, su rotte però troppo regolari e scontate per i suoi gusti, e naturalmente morde il freno. Nel 1900 decide di intraprendere la carriera di esploratore. Si arruola come terzo luogotenente in una spedizione antartica organizzata dalla Royal Geographical Society. La nave si chiama Discovery e alla sua guida c’è quel Sir Robert Falcon Scott che abbiamo già citato e ritroveremo. Arriveranno a 754 miglia dal polo. Il record, per allora.
La sua prima vera spedizione termina così nel 1903. Rientrato in patria, per un breve periodo lavora come giornalista. Diventa segretario della Royal Scottish Geographical Society. Nel 1904 si sposa e nel 1905 nasce Raymond, il suo primo figlio. Seguiranno Cecily e Edward.
Nel 1907, presenta alla Royal Scottish Geographical Society un proprio progetto di conquista del Polo Sud. Ottiene l’approvazione, la spedizione viene realizzata, dura fino al 1909, arriva a 97 miglia dall’obiettivo, ma finisce le provviste: a quel punto Shackleton rinuncia e ingaggia insieme ai suoi una disperata lotta contro la morte per riuscire a tornare indietro. Ce la fa, e viene accolto come un eroe, fatto cavaliere del re e insignito di decorazioni da molti paesi del mondo.
Ma naturalmente non finisce qui perché, mentre era via, altri si sono preparati alla conquista definitiva dei poli.
Roald Amundsen annuncia una spedizione artica, ma l’americano Peary lo batte sul tempo e arriva al Polo Nord per primo.
Amundsen, allora, cambia obiettivo, ma non lo dice a nessuno perché sa che l’inglese Scott sta accingendosi a puntare al Polo Sud e vuole provare ad anticiparlo. Prepara tutto, parte e comunica il vero obiettivo solo quando è già in mare aperto.
Non si può dire che giochi proprio pulito, ma la posta in gioco è alta. Inizia una gara contro il tempo fra le due spedizioni. Scott, inglese, da una parte; Amundsen, norvegese, dall’altra. Una sfida drammatica che resterà nell’immaginario collettivo per sempre e ha il suo epilogo il 14 dicembre 1911, quando il primo essere umano raggiunge il Polo Sud.
È Amundsen che pianta la sua bandiera norvegese e torna indietro. Un mese dopo ci arriva Scott, e… riusciamo a immaginarci cosa deve aver provato?
Il fatto è che Scott e i suoi hanno speso tutto quel che avevano per recuperare il distacco dai norvegesi. E in Antartide non ci si può permettere di spendere tutto in poco tempo. Scott si mette sulla via del ritorno ma non arriverà mai a destinazione. Non sappiamo bene come vadano esattamente le cose perché nessuno sopravvive. Sono stati recuperati i loro diari, ma questo non basta ancora oggi a chiarire del tutto la vicenda.
E Shackleton? Shackleton resta con un pugno di mosche. Di poli, gli piaccia o no, ce ne sono solo due. E se li è già presi qualcun altro.
Cercasi uomini per viaggio pericoloso
Così a Shackleton viene un’idea. Non può essere il primo a conquistare il Polo Sud? Sarà il primo a conquistare l’Antartide intera. Partirà da un estremo, arriverà a toccare il polo e proseguirà fino all’estremo continentale opposto. Attraverserà per primo il continente antartico. A piedi.
Non ci possiamo nascondere che la sua logica – innegabilmente intrepida – appaia per così dire anche non poco «residuale»: nella sua ricostruzione della vicenda la chiamerà «l’ultima grande avventura nella storia delle esplorazioni antartiche». È evidentemente consapevole di non avere molto a disposizione: già bruciati da altri gli obiettivi più ambiti, ripiega su un’alternativa, per quanto temeraria.
Per cercare i finanziamenti necessari, infatti, ammanta la spedizione di nobili finalità scientifiche, soprattutto geologiche, meteorologiche e idrografiche: piuttosto fondate, certo, ma non abbastanza da rendere la cosa semplice. Faticherà moltissimo a trovare i soldi. Contando anche le autorizzazioni del governo e le adesioni delle varie società scientifiche, ci vorranno due anni interi per l’organizzazione. Ma alla fine ce la fa, grazie soprattutto alla generosità (e, diciamolo, alla stravaganza) di mecenati privati che destinano i propri capitali a impieghi che molti potrebbero anche trovare opinabili.
Il progetto è il seguente: con una prima imbarcazione, raggiungere nel dicembre 1914, cioè a quelle latitudini nel pieno dell’estate, il continente antartico (attraversando nell’ultimo tratto di navigazione il Mare di Weddell, per molta parte dell’anno ghiacciato), installarvi un campo base e abitarvi sino al novembre 1915 quando un gruppo guidato da Shackleton stesso dovrebbe partire alla volta del Polo Sud per raggiungerlo indicativamente un mese dopo, nei giorni di Natale. La spedizione avrebbe poi proseguito verso il Mare di Ross, dalla parte opposta del continente, avvalendosi nell’ultimo tratto del percorso di depositi di rifornimento predisposti appositamente nei mesi precedenti dall’equipaggio di una seconda nave, pronta ad accoglierla nel marzo 1916 per riportarla a casa.
Bene. Adesso che ci siamo fatti un’idea di quel che sir Ernst Henry Shackleton aveva in testa, chiediamocelo: a chi verrebbe in mente di andarci?
Immedesimiamoci in quel tempo storico. Siamo nel 1914: l’equipaggiamento tecnico è inevitabilmente piuttosto primitivo. Si tratterà di vestire indumenti di lana, scarponi di pelle o stivali di renna. E poi guanti e passamontagna. L’impermeabilizzazione è effettuata con le coeve tecniche artigianali, ai nostri occhi piuttosto approssimative. Il massimo? Le tele cerate. In ogni caso, niente razioni energetiche, telefonini e GPS; niente radio (le frequenze non raggiungono quelle zone), goretex, occhiali schermati a raggi UVA, contenitori a tenuta stagna, sacchi a pelo termici, tende superleggere ad altissima tenuta: e, soprattutto, niente attrezzature motorizzate (porteranno – novità quasi assoluta – una slitta a motore ma, come vedremo, non servirà a nulla…).
Allora: a chi sarà venuto in mente di fare una cosa di quel genere?
A tantissimi. «Una valanga di richieste» ricorderà lo stesso Shackleton, che avrebbe reclutato il proprio equipaggio pubblicando il 29 dicembre 1913 sui giornali londinesi e in particolare sul « Times» un annuncio al limite dell’incredibile:
Cercasi uomini per viaggio pericoloso. Basso salario, freddo glaciale, lunghi mesi di completa oscurità, pericolo costante, ritorno incolume non garantito, onori e riconoscimenti in caso di successo.
Sir Ernest Shackleton
Pare che si presentino in 5000. E la cosa rende l’idea tanto dei metodi di Shackleton quanto dell’entusiasmo che ammantava allora questo genere di avventure.
5000. Ma ne partiranno solo ventisette.
E Shackleton come li seleziona?
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