2023
Silenzio.
Nessuna delle due si muove.
Anna guarda Cecilia, che non ricambia lo sguardo: tiene gli occhi in alto, alla volta di mattoni.
Anna al tavolo, con le mani aperte sul piano di legno e il busto leggermente proteso in avanti. Cecilia sul lato opposto della stanza, una spalla appoggiata allo stipite della porta e la mano destra stretta intorno al calice vuoto.
Un cane abbaia lontano. Passa anche una moto. La pioggia sottile di fine ottobre non è che fruscio sugli alberi e sulla strada sterrata appena fuori il cancello. Tutto arriva ovattato.
Cecilia rompe l’immobilità del quadro, scuote appena il capo, traversa la cantina a lunghi passi e poggia il calice sul tavolo.
«Sei prevenuta» dice Anna staccando lo sguardo dal suo volto. «È dall’inizio che non fai che remare contro.»
Cecilia tira dalla botte ancora un dito di vino, annusa, agita con cautela per ossigenare, beve.
«Non va» dice. «Lo sai anche tu.»
«Cosa non ti convince? Sentiamo.»
«Fa schifo.»
Anna scatta in piedi e raggiunge anche lei la botte. Dice:
«Questa sì che è una critica costruttiva.»
«Cosa devo dirti? Che non sento le bacche rosse e i tannini e che la pietra lavica prevale sul…» cerca una qualche parola che non le viene. «Cosa devo dirti? Che non sa di albe torpide e di tramonti infuocati delle nostre terre? Che non ne condivide abbastanza l’austera pensosità?»
«Ma no, no, certo» dice Anna. «Tu non fai parte della misera massa dei comuni mortali che producono vino, o lo assaggiano e lo recensiscono facendo vendere bottiglie. No, tu sei Cecilia Ala. Tu svetti, non ti mescoli. Il tuo parlare è sì sì, no no.»
«Amo il vino, detesto la retorica» taglia corto Cecilia. «Questa roba non funziona. Mi spiace, ma è così. Ci abbiamo provato e non va.»
«Va bene» dice sconsolata Anna. Torna in ufficio, si siede alla scrivania e muove il mouse sul tappetino di neoprene. Il grande monitor si accende su una mail appena iniziata.
«Vuoi sapere perché non mi piace?» dice Cecilia affacciandosi alla porta e facendola sussultare.
«Sì, voglio saperlo.»
«Non mi piace perché non mi piace.» E in una frazione di secondo è sparita.
«Appunto» mormora Anna con un’alzata di spalle.
Cecilia ricompare sulla soglia.
«Il che non vuol dire che non possiamo venderlo. Troviamo sicuramente qualcuno che se lo beve. A tavola può starci, ma non è il capolavoro che speravamo.»
«Scusa. Sto cercando di scrivere una cosa… un sinonimo di ordine?»
Cecilia si avvicina alla scrivania e si china su di lei.
«È il capolavoro che speravamo?»
Un silenzio.
«Dillo e io ammetto di essermi sbagliata. E mi fermo.»
Anna stacca le mani dalla tastiera. «Tu non sei capace di fermarti. Mai.»
«È un capolavoro?»
Un sospiro di resa. «No. Un capolavoro no.»
Cecilia sorride appena. «Si può bere, ma niente di più. Mica servono troppe parole.»
«Eppure ogni tanto una parola, così, giusto per comunicare, potresti pure usarla.»
«Su ciò che si può bere, si deve tacere» sentenzia lei ridacchiando, quindi più seria: «Non dico che dobbiamo buttarlo. Lo mandiamo in giro così e l’anno prossimo lo miglioriamo».
«Non dire cose a cui non credi tu per prima.»
«Nel frattempo lavoriamo a un capolavoro.»
«Riunione con il distributore alle undici. Non un minuto più tardi.»
Cecilia guarda l’ora. «Ma sì. Ho tempo.»
«Per fare che?»
È passata nel suo ufficio, luminoso e disadorno, ha letto distrattamente le mail della mattina, quindi ha indossato il giaccone troppo grande e la lunga sciarpa rossa di lana cotta ed è uscita nella rigida mattina del Roero. Si è guardata intorno sotto il cielo grigio immobile: la collina con i filari ordinati e scheletriti da una parte, la sterrata che corre tra gli ippocastani fino alla provinciale dall’altra. Ha varcato il cancello della tenuta e ha inspirato profondo.
Certe volte le sembra che – dopo tutto quello che è accaduto, tutto quello che ha visto – non vi sia nel creato nulla che abbia senso se non camminare.
E Cecilia cammina. Cammina nell’erba stinta del tardo autunno, nella fanghiglia creata dalla brina che va lentamente sciogliendosi sulla terra battuta e ghiaiosa.
«Non voglio farla arrabbiare» dice. «Ma se facciamo il vino e non qualcos’altro è perché abbiamo deciso fin dall’inizio di prendere una via difficile piuttosto che una facile. E allora devi essere implacabile. È inutile dire che va tutto bene se non va tutto bene. Ma mi ascolti?» Fa schioccare la lingua sul palato, compie un mezzo giro su sé stessa, cammina per una ventina di metri a passo di gambero, torna a girarsi. «Mi sa che stamattina non mi ascolti affatto.»
Cammina ancora, senza un rumore, oltre il ponte sul Tanaro, quindi fino in cima a un poggio, e quando è sicura di avere raggiunto il punto più alto trova un muretto e si siede.
In basso un sudario sospeso di foschia, una garza che sfuma i colori, il grigio e il verde, in mille toni differenti. Appena oltre c’è lo schieramento militare delle vigne, ordinate sulle colline volte a sud; e c’è la distribuzione, aleatoria e umana, dei casali e delle strade e di qualche linea elettrica. Il baluginio di una polla. Un leccio tenace, solitario.
«Sai? Quando ero piccola» dice, «e vedevo cose così, mi facevo delle domande complicatissime. Tipo: il mondo somiglia più a quei cipressi tutti in fila o a quel bosco tutto arruffato? Domanda scema, ok. Lo ammetto. A qualunque cosa assomigli, sa nascondersi fin troppo bene.»
Si rialza. «Dici che è un problema se a me piacciono i vini in purezza? Se mi piace farli soltanto con un vitigno? Se l’idea di mescolare uve diverse non mi ha mai convinto? Sono io che non capisco niente? Dimmelo.»
Sfila il telefono dalla tasca del giaccone, ignora un paio di messaggi, guarda l’ora; la confronta con quella dell’orologio che porta al polso, l’Universal Genève marchiato «ItalStop» che ogni volta la fa sorridere.
«Tocca tornare» dice rincamminandosi sull’erba scivolosa. «Diciamo che non ho capito come sia il mondo, ma un sospetto ce l’ho. E siccome sul vino posso decidere, decido che deve essere ordinato. Lineare. Semplice. Per contrasto, se capisci cosa voglio dire.»
Quando la scorge agli arrivi dell’aeroporto, il volto ingoiato a metà dalle spire dello sciarpone, Jean si apre in un sorriso luminoso. Lei allarga leggermente le braccia come a dire sono qui, aspetta che lui la raggiunga e la sovrasti con il suo metro e novanta abbondante e la stringa forte e la baci. Era tutto ciò che voleva.
Lo porta direttamente alla trattoria del cedro libanese (in realtà si chiama «da Rosa» ma loro da anni la identificano con la grande pianta che ombreggia l’ingresso), e durante il percorso in auto lui continua a ripetere che davvero non se l’aspettava: erano anni che lei non gli faceva una sorpresa di quel genere e adesso non sa se felicitarsi o preoccuparsi. Cecilia dice che in realtà non aveva nessuna voglia di vederlo ma, siccome in tv non c’era niente di interessante, ha deciso di uscire di casa e sfidare il freddo. Ridono, e lei gli dice di accelerare perché ha fame.
Si siedono al loro tavolo, quello accanto alla grande vetrata, ordinano un vino che lei vuole assaggiare da tempo – bisogna sempre studiare il nemico – e due taglieri di formaggi e salumi.
«Fame brutta» dice Jean dopo alcuni minuti di silenzio.
Cecilia annuisce. «Com’è il prosciutto crudo?»
«Buono. Me lo invidi?»
«No. Va benissimo così.» Ci pensa un istante. «Sì. Te lo invidio.»
«Com’è andata?»
«Bene» dice lui. «Sono tutto rotto perché siamo rimasti appostati otto ore, sdraiati su una roccia. Poi però sono arrivati. Non ci speravamo più e sono arrivati.»
«Quanti?»
«Sette. Con due piccoli. Una meraviglia. Nella zona gli danno la caccia perché hanno ammazzato una decina di pecore.»
«Fanno il loro mestiere.»
«Tanto mica li beccano.»
Cecilia fiuta per l’ennesima volta il vino, lo scruta controluce, ne beve un lungo sorso, annuisce. «Mi piacciono quelli che non si fanno beccare.»
«Lo so» dice Jean.
«Le immagini come sono?»
«Una meraviglia. Primi piani dei piccoli, con quei musi…» Imita i lupi, e Cecilia ride.
«Allora che ne dici?» domanda lui indicando la bottiglia.
«Dico che sono bravi. Buono. Bello tosto.»
«Vero.»
«Anche se questa manfrina del biologico non la reggo.» Beve ancora mezzo sorso.
«E il vostro?» domanda Jean come con cautela.
«Il nuovo? Un disastro.»
«Come? Perché?»
Cecilia si stringe nelle spalle. «Ci sono il Cabernet e il Merlot che se ne vanno da una parte, il Barbera completamente per conto suo. Non è che il Barbera lo prendi e gli fai fare quello che vuoi. Anche se è solo un venti per cento, decide lui. Risultato: vino disordinato.»
«Proprio quello che non volevi» dice lui come se recitasse una preghiera.
«Proprio quello che non volevo» conferma lei come fosse un amen.
A casa Jean si butta sotto la doccia perché dice di sapere di lupo e di erbacce, mentre Cecilia si siede esausta sul divano. Accende la tv, cambia una manciata di canali quindi va in camera da letto e si toglie tutti i vestiti. Evita lo specchio perché non sopporta l’ossessione dei progressi giorno dopo giorno; e tuttavia, mentre attraversa la stanza per raggiungere l’armadio, il faretto de...