Spegnete telefonini e tablet. Allontanatevi dalla TV. Fate sparire tutto quello che è stampato su carta. Qualcosa come cinquemila anni fa facevano già fatica a immaginare di poter lasciare dei segni sulle pareti di una grotta. Magari lo facevano per passare il tempo, ma il primo impulso a trasmettere idee e conoscenza è già una rivoluzione. Pensate a un bimbo che inizia a scarabocchiare qualcosa cercando di dare il suo senso a quel tratto e di comunicare quello che la sua giovane mente vuole proiettare a chi gli sta intorno. Rivoluzionario.
Cinquemila anni fa gli esseri umani si spostavano da un luogo all’altro cercando cibo e conforto. A volte si potevano trovare impantanati per giorni in metri di neve. Bloccati con tutto ciò che avevano. Difficile riuscire a viaggiare nel tempo e immaginarsi in tali condizioni. Le prime tracce di ingegno «sciatorio», inteso come capacità di spostarsi sulla neve, provengono dal centro dell’Asia. Oggi ci sventolano le bandiere di Kazakistan, Mongolia, Russia e Cina. Si divertivano poco a quei tempi. E si spostavano sempre. Le testimonianze più antiche parlano di pezzi di legno o corteccia legati sotto i piedi per non affondare. E non scivolare.
Nel tempo il coraggio, la fame e chissà cos’altro hanno portato viaggiatori e animali sempre più lontano, anche oltre lo stretto di Bering, verso il Nord America.
Con l’evoluzione dell’uomo e la sua acquisita capacità di allevare e mettere da parte le risorse alimentari sono nati i primi villaggi. Gli attrezzi da neve sono progrediti quando gli antenati hanno apprezzato il fatto che scivolando potevano fare più strada con meno fatica. Anche lo scivolare è rivoluzionario. Mettete per la prima volta sugli sci un adulto grande e grosso e guardate il terrore nei suoi occhi. C’è chi lo supera in un minuto, chi ancora non ci riesce.
Chissà in quanti territori diversi ci sono stati tentativi simili. Le tracce non sono molte e i graffiti sulle rocce sono i primi segni di bipedi con assi ricurve ai piedi. Erano cacciatori. I primi biathleti. Lo sci alpino, così lo chiamiamo oggi, è il primo sci nordico. Le tracce più solide portano tutte verso la Lapponia e la Scandinavia. Sempre pastori e cacciatori erano. Poco divertimento. Magari i giovanissimi ci provavano a sfidarsi lungo una collina, ma non abbiamo prove concrete.
I norvegesi sono i più frizzanti tra i nostri antenati discesisti. Grandi viaggiatori e formidabili navigatori, nell’800 dopo Cristo erano già in Islanda. Quella che ci arriva da lì è forse la prima traccia dello sci da discesa fatto per estro, divertimento e prova di abilità . Il racconto è in uno degli Eddur (odi) scritti per raccontare le gesta di Harald III Sigurdsson, noto anche come Harald Hardråde. Doveva essere una gran bella testa calda… Lui sciava per divertirsi e per dimostrare la sua forza e destrezza. Probabilmente più in gioventù, visto che nel 1066 tentò di invadere l’Inghilterra, ma fu respinto con perdite (compresa la sua vita) dopo una sonora sconfitta allo Stamford Bridge. Sulle terre dove qualche annetto dopo troverà casa il Chelsea FC.
Ma torniamo allo sci.
Gli sci
È curioso pensare che ancora oggi molti degli sci di fascia alta abbiano un cuore in legno. Dall’albero intagliato agli strati di legni diversi per ottenere caratteristiche differenti il salto non è stato banale. Il primo grande problema è stato quello del collante utilizzato per far stare insieme le varie fibre. Quegli sci spesso duravano poco, se sollecitati al massimo, e tendevano a «sfogliarsi».
La rivoluzione tecnologica che ha portato al boom delle materie plastiche è stata un punto di svolta, ma non l’unico. Lo studio di resine artificiali che permettessero di far appiccicare materiali diversi ha permesso enormi salti di qualità .
All’inizio degli anni Trenta, in Francia, si è provato a sviluppare uno sci in monoblocco di alluminio, ma era troppo rigido.
Ancora una volta sono stati gli eventi bellici a spingere la creatività e a regalare assist a chi preferiva la pace… Per le ali degli aerei da caccia della Seconda guerra mondiale venivano utilizzati fogli di alluminio e di compensato incollati uno all’altro. Un appassionato di sci avrebbe immediatamente intuito l’utilità della soluzione, e così fece Howard Head, un ingegnere aeronautico statunitense, deluso dagli sci di legno che stava imparando a utilizzare. Head si spinse oltre e realizzò, nel 1947, un prototipo in alluminio e carta plastificata a nido d’ape all’interno. Sci leggero e troppo fragile, però. Due anni dopo, nel 1949, ecco un nuovo modello: due strati di alluminio incollati a caldo con il Bostik a un cuore di compensato e sui fianchi dello sci della plastica stampata a proteggere il legno. Le lamine erano in acciaio, senza alcuna interruzione dalla punta alla coda. Uno sci flessibile, robusto e veloce. Gli Head modello Standard sono diventati così il primo enorme successo commerciale nel mondo dello sci. A metà degli anni Cinquanta erano i più venduti in Nord America e in Europa.
In poco tempo lo sviluppo delle materie plastiche avrebbe portato alla realizzazione di solette in polietilene estremamente scorrevoli, a partire dal 1954, e poi di sci in fibra di vetro nel 1959.
La nuova rivoluzione è partita negli anni Novanta quando la slovena Elan ha lanciato un modello con geometrie estreme, l’SCX. Uno sci corto, con la spatola larga, il centro stretto, e una coda abbondante. Ecco il carving. Il raggio di curva diventa corto, cortissimo, ed è sempre più facile iniziare a sciare. Una nuova rivoluzione.
La conoscenza iniziava a diffondersi tramite la stampa. Tra un argomento sacro e l’altro c’erano le gesta dei grandi, le riflessioni di pensatori e ogni tanto qualche racconto che fotografava momenti di vita. Nel 1555 l’arcivescovo di Uppsala Olaus Magnus diede alle stampe la Historia de gentibus septentrionalibus raccontando flora, fauna, storia, usi, costumi e miti dei popoli del Nord. Ovviamente si parlava anche degli spostamenti su tavole di legno, dell’abilità dei velocissimi lapponi e del coraggio dei norvegesi. Il territorio della Svezia era più piatto. Terra di fondisti… a parte casi isolati che vedremo tra qualche annetto. Anche Olaus Magnus raccontava di cacciatori, pastori, eserciti. Niente gare di sci.
A metà del Settecento un danese, padre Knud Leem, mise per iscritto le gesta dei ragazzini norvegesi, che in discesa giocavano a fare la staffetta lasciando un cappellino sulla neve. Sfidandosi in velocità . Eccoci! Finalmente!
Pezzi di legno di circa due metri e dieci, scarponcini di cuoio legati con qualche tipo di corda alle tavole. Qualcuno aveva uno sci più corto e largo dell’altro per spingersi meglio. Un bel bastone che veniva usato per cambiare direzione e per offrire un qualche tipo di freno. Sembravano più streghe che liberisti, ma è un ottimo inizio per la nostra storia. Tra i più brillanti sciatori c’erano i giovani della contea di Telemark.
Telemark è duecento chilometri a ovest di Oslo, nome moderno per la città di Christiania. Lì c’è il mare per i vichinghi marinai e ci sono le montagne per i vichinghi sciatori. E legno per fare barche e sci. La città di Skien (pronuncia sc’een) è una delle più importanti. Il centro del nostro mondo.
A Telemark gli assi dello sci svilupparono una nuova tecnica. Invece di far perno sul bastone, giravano gli sci provando a farli scivolare sulle code in modo controllato. Ti inclini, giri e lasci delle belle tracce alle tue spalle. Prima sla e poi låm. Abbiamo anche lo slalom.
Dobbiamo dire che questa tecnica premiava i meno attratti dal rischio del salto, che era il modo più divertente di scendere. Ma per noi è un’altra disciplina. Andiamo oltre.
In una fattoria di Morgedal un ragazzotto geniale e coraggioso era formidabile nel salto, ma anche nel curvare. Si chiamava Sondre Auverson e la sua famiglia aveva attraversato la Norvegia per cercare un luogo dove vivere e costruire una fattoria. La fattoria Norheim. Sondre di Norheim era così appassionato che cercava ogni soluzione per migliorare tecnica e attrezzi.
Prima l’attacco. Intrecciando radici e rami di betulla creava corde così robuste ed elastiche che gli scarponi riuscivano a stare ben fissati allo sci. Poi, lavorando il legno, iniziò a scavare di più la parte dello sci sotto i piedi. Intagliandoli con spatola e coda più larghe del centro, lo sci girava più facilmente, era più controllabile e veloce. Genio assoluto. Era il 1850 e già c’erano le gare di salto e stile che Norheim dominava. A Telemark, fanciulli, ragazzi e adulti diventavano sempre più bravi, anche grazie allo sviluppo degli attrezzi che permettevano di sperimentare in modo sempre più efficace.
I ragazzi di Telemark, guidati da Sondre Norheim ormai quarantatreenne, decisero di partecipare a una gara organizzata a Christiania e sfidare tutti. Non sappiamo quante manche fossero previste, ma i telemarkers dominarono grazie a due tipi di curva: una lunga, morbida e controllata (la base del telemark di oggi) e una più breve, brutale e stretta che venne chiamata «christiania», poco più tardi, dai primi maestri dello sci, sulle Alpi.
La giornata di gara entusiasmò tutti. I reporter dell’epoca si scatenarono nel definire la tecnica di Sondre Norheim capace di farlo scendere come una saetta e improvvisamente vederlo immobile sul pendio. La tecnica si diffuse rapidamente. Gli sci con il nuovo profilo diventarono sempre più popolari. In un Paese come la Norvegia, dove sciare era obbligatorio per potersi muovere, lo stile, la velocità , la tecnica divennero parte integrante della cultura. Un vero orgoglio da mostrare e far conoscere.
Sempre più gente sciava, sempre più sci venivano costruiti, sempre più ricerca, sempre più qualità . Nel 1881 appaiono i primi sci laminati che utilizzano diversi tipi di legno per migliorare resistenza e flessibilità . Già l’anno seguente gli sci iniziano a circolare in Svezia, venduti ai primi sciatori curiosi. Le prime tracce di una fabbrica sono del 1886.
I norvegesi, orgogliosi ed esperti dell’argomento, ma anche instancabili viaggiatori, scopritori e sempre in cerca di lavoro e opportunità , portavano i loro attrezzi negli spostamenti. Oltremare. A sud. Ovunque.
Se c’era una collinozza innevata o un montagnone imbiancato facevano faville, e chi li guardava restava entusiasta e magicamente catturato.
In Norvegia le gare erano frequenti. Distanze e salti, principalmente.
Nel 1888 Fridtjof Nansen attraversò la Groenlandia sugli sci di Telemark. Due anni dopo il suo racconto era stampato e già tradotto in danese e inglese. Poco dopo in tedesco. L’impresa sciistica era un fatto di costume.
Norheim era un bravo fattore, ma con lo sci non mangiava e per cercare miglior fortuna per la propria famiglia decise, come tanti altri abitanti della zona, di spingersi oltre Atlantico, nel Nuovo Mondo. Nel 1884, con la moglie e tre figli trovò terra da lavorare nel Wisconsin. Era già anziano. Quando sciava faticava moltissimo in salita, ma vederlo scendere restava un sogno.
I tanti lapponi e scandinavi che si erano trasferiti in Nord America lavoravano soprattutto nei campi o nelle miniere in cerca di metalli preziosi. Qualcuno, visto il clima di quelle parti, continuava a muoversi sugli sci per necessità . C’era chi lavorava per le poste e riusciva a consegnare le missive a distanze inimmaginabili.
John «Snowshoe» Thompson faceva più di cento chilometri alla volta per consegnare. Altro che droni…
Dove c’era un norvegese, neve e una discesa, c’era un paio di sci. E si narra anche di gare di discesa a cento all’ora, cosa immaginabile pensando a quanto lunghe possano essere certe discese sulle Montagne Rocciose rispetto a quelle della Scandinavia.
Discese lunghe come i costoni alpini.
Sulle Alpi lo sci arrivò grazie alle aristocratiche famiglie britanniche, sempre in movimento alla ricerca di belle cose da vedere e da fare. Già verso il 1850 i britannici passavano le estati a camminare sulle vette del Centro della Svizzera. Scoprirono che anche «fuori stagione» ci si poteva divertire scendendo per le valli con le slitte. E poi con ai piedi due bei pezzi di legno lucidati con la cera.
Tra Sankt Moritz e Zurigo, a Glarona, nascono il primo Ski Club svizzero e una fabbrica di sci che permettevano ai postini di muoversi (l’efficienza delle poste svizzere!), ai pastori di recuperare le mucche rimaste indietro dopo le prime nevicate e ai militari di spostarsi rapidamente tra una valle e l’altra.
È Melchior Jacober, un geniale carpentiere, il primo fabbricante alpino di sci. Nel 1893 realizza sci diversi per discese in stile telemark e per risalite e discese sulla neve soffice. Più o meno larghi. Più o meno lunghi. Perfezionati poco a poco utilizzando legni diversi. Frassino e olmo, principalmente. Il cugino Josef realizzava i lacci per gli attacchi. Circa cento paia di sci l’anno vennero prodotti all’avvio dell’azienda. Duecento l’anno seguente. Poi trecento. Il modello più prestigioso era il «Glarona». Costava 20 franchi. Gli sci norvegesi erano più cari. Ci volevano 30 franchi per assicurarsene un buon paio. Per capirne il valore, consideriamo che una notte in un hotel in pensione completa costava 10 franchi. Dopo qualche anno il cugino Josef si rese conto che a fare sci si poteva mettere da parte qualche soldino in più che a costruire solo gli attacchi. Si specializzò in attrezzi per i militari. Il suo marchio era il «Ghottardsoldat». In vent’anni ne vendette più di duecentocinquantamila paia agli eserciti di mezzo mondo, inclusi Cile, Persia, Russia.
In Italia il primo paio di sci si vide nel 1896. Arrivò a Torino per la curiosità di un giovane chimico svizzero amante della montagna: Adolfo Kind. Spinto dalla lettura del libro di Nansen decise di cercare di acquistare un paio di tavole presso il negozio di Glarona. Quando gli attrezzi furono a Torino, alla vigilia dell’inverno, Kind iniziò a sperimentare. Prima sul pavimento di casa (chi non lo ha fatto?), poi sul primo prato imbiancato disponibile e infine lungo le colline attorno a Torino.
Entusiasmo totale. Un modo divertente per scendere dai monti e per spostarsi.
Un grandissimo impulso all’uso degli sci arrivò dalle necessità dei militari. È più o meno nello stesso periodo, a cavallo del secolo, che nascono reparti alpini specializzati.
La tecnica del telemark viene assorbita poco a poco. Così come quella del christiania. Ma i pendii alpini, come quelli delle Montagne Rocciose, non sempre consentono quel genere di curva. Bisogna rallentare per evitare rocce, alberi o solo per non finire giù da qualche dirupo. Il bastone a volte va bene. Altre proprio no.
Ma ecco il genio: Mathias Zdarsky inventa lo «stem». Lo spazzaneve. Ecco lo sci alpino. Si va dritti. Si salta. Si curva. Si rallenta. Ci si ferma. Ora c’è tutto. Siamo tutti figli di Zdarsky. Originario della Moravia, Zdarsky era un maestro di scuola, curioso di pittura, arte e viaggi. La lettura del libro di Nansen lo spinse a provare gli sci. Risiedeva a Lilienfeld, a ovest di Vienna, e quando poteva provava. Provava. Si accorse quasi subito che qualcosa non andava con gli sci e gli scarponi. Gli attacchi non bloccavano come lui desiderava. Voleva qualcosa di più stabile e meno «ballerino». Oltre allo spazzaneve «inventò» anche l’attacco in metallo. O almeno qualcosa di più adatto per la sua tecnica primitiva, ma già molto efficace sui pendii alpini di Lilienfeld. Tanto efficace che iniziò ad avere studenti anche fuori da scuola, sui pendii innevati. Scrisse il primo libro di tecnica sciatoria. Le sue lezioni erano seguite da decine, a volte centinaia, di persone appassionate. Si è inventato anche il maestro di sci. Pare che più di ventimila persone abbiano frequentato le sue lezioni. Anche moltissimi militari, che poi trasferirono la conoscenza in giro per le valli. Tra questi un altro austriaco, Georg Bilgeri, che adattò la tecnica, criticandone alcuni aspetti. Bilgeri aggiunse il secondo bastone per avere più equilibrio e miglio...