Il potere delle donne
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Il potere delle donne

Il viaggio di un medico attraverso il coraggio e la speranza

  1. 348 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il potere delle donne

Il viaggio di un medico attraverso il coraggio e la speranza

Informazioni su questo libro

Da oltre venticinque anni, il Congo è lacerato da una guerra che ha provocato almeno cinque milioni di morti e infuria soprattutto nella provincia del Kivu, non a caso la più ricca di oro, cobalto, nichel, rame, petrolio e diamanti. È qui che numerose bande paramilitari, spesso manovrate da multinazionali estere interessate ai tesori del sottosuolo, imperversano senza alcun vero controllo da parte delle autorità nazionali e impongono con la violenza le proprie regole alla popolazione locale, ormai ridotta allo stremo. Fra le tante atrocità commesse, gli stupri di massa e le aggressioni sessuali spiccano per la colpevole indifferenza che li ha sempre circondati: le donne che ne sono vittime - 15.000 all'anno, secondo le stime delle Nazioni Unite - vengono in genere costrette a tacere dal timore di subire lo stigma di una società che le reputa figure marginali, una proprietà del padre prima e del marito poi, e dunque prive di una propria identità.

Denis Mukwege - premio Nobel per la Pace e attivista per i diritti umani - ha dedicato la sua vita ad aiutare quelle donne. E da vent'anni affianca alla sua attività di medico quella di ambasciatore di pace per sensibilizzare la comunità internazionale. In queste pagine, intense e personali, Mukwege intreccia la sua storia con quella delle donne che lo hanno ispirato, con il loro coraggio e la loro generosità, la loro resilienza e la loro energia. Sono le donne della sua famiglia, sono attiviste, avvocate o studiose, sono le pazienti che ha curato o le sopravvissute alla violenza sessuale che ha incontrato durante gli anni di lavoro in Congo e nei suoi viaggi, dalla Corea al Kosovo, dall'Iraq alla Colombia, dagli Stati Uniti all'Europa.

Questo libro è un omaggio alla forza delle donne e al contempo un grido di battaglia a sostegno di «una delle cause più importanti degli ultimi cento anni», la campagna in favore dei loro diritti.

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VII

LOTTARE PER LA GIUSTIZIA

All’inizio del 2014 sentivo di non poterne più. Nei due anni precedenti avevamo ricoverato una sfilza di bambine con ferite agghiaccianti, tutte provenienti dallo stesso villaggio, Kavumu, a una trentina di chilometri da Bukavu. In principio erano pochi casi isolati, ma negli anni successivi ne erano arrivate a decine.
Erano state tutte rapite in circostanze simili. Nel cuore della notte, degli uomini facevano irruzione nelle loro case e spesso somministravano alle vittime un potente narcotico. Una volta rapite, le ragazzine venivano stuprate più volte e la mattina dopo erano restituite, sanguinanti e confuse, alle loro famiglie. Ogni caso devastante rappresentava un’infanzia distrutta; la gravità delle ferite e delle cicatrici era tale che la maggior parte di loro, una volta adulte, non avrebbe mai potuto avere una vita sessuale normale o dei bambini.
Nei primi cinque mesi del 2014 curammo quindici giovanissime pazienti. L’ultima goccia fu una bambina di quattro anni che arrivò in ospedale con gravi lesioni retto-vaginali. Una cosa oscena, straziante, semplicemente al di là della mia comprensione.
La operai insieme al mio amico e collega di lunga data Guy-Bernard Cadière, il chirurgo belga specialista in laparoscopia, una tecnica mininvasiva per accedere agli organi interni dell’addome, e nel trattamento delle fistole. Guy viene regolarmente a Bukavu con la sua équipe della clinica universitaria dell’ULB di Bruxelles. Oltre a raccogliere fondi per il nostro ospedale e a essere una fonte inesauribile di consulenze, ha contribuito alla formazione dei nostri chirurghi all’uso delle tecniche non invasive.
Poche cose possono sconvolgere un chirurgo. L’interno del corpo umano non ha misteri per noi, ma operammo quella bambina trattenendo a stento le lacrime. Mentre esaminavamo le sue ferite, ci chiedevamo l’un l’altro come potevano esserle state inflitte. Ci alternammo al tavolo operatorio, ammutoliti dallo shock e animati dal furore.
Alla fine mi tolsi i guanti chirurgici, infilai il camice e tornai nel mio ufficio, assillato da pensieri rabbiosi, soffocato dalla nausea e dal disgusto. Quante altre bambine avrebbero mutilato, quegli uomini, prima di essere fermati?
Quando ritrovai la calma, decisi di andare personalmente a Kavumu. Avevo bisogno di vedere con i miei occhi e di sentire dalla viva voce della comunità cosa stesse accadendo. Perché le famiglie non riuscivano a proteggere le loro figlie? Che cosa facevano i genitori quando le bambine venivano rapite e abusate in quel modo?
Ancora una volta mi sentivo impotente. Era come se non facessi altro che raccogliere i pezzi, ricucire corpi straziati, traumatizzato da ciò di cui ero testimone, ma senza mai riuscire a vedere la fine della violenza. Avevo bisogno di ascoltare padri e madri di persona.
Con l’aiuto di alcuni gruppi umanitari, una settimana dopo organizzammo un’assemblea in un centro comunitario del villaggio. Viaggiai con la mia scorta di caschi blu. Avevamo invitato anche il procuratore capo di Bukavu, un alto ufficiale delle forze armate congolesi e un rappresentante della polizia, che accolsero la proposta. Anche il governatore della provincia e il ministro regionale dell’Interno avevano accettato l’invito, ma all’ultimo momento si erano tirati indietro.
Il livello di interesse suscitato dall’incontro si poteva giudicare in base al numero dei presenti: circa cinquecento persone, stipate in una sala soffocante. Alcune sedevano in due per sedia, altre stavano in piedi verso il fondo. C’era persino gente assiepata all’esterno per mancanza di spazio.
Il clima era teso, sin dall’inizio. Il pubblico era composto soprattutto da donne, che si sventagliavano nell’aria densa e afosa. Mentre prendevano posto parlavano fra loro ad alta voce, e alcune lanciavano occhiate accusatorie in direzione del procuratore e dell’agente di polizia.
Anni e anni di frustrazioni trovarono sfogo non appena ebbero in mano il microfono e furono invitate a parlare. Raccontarono che la loro comunità viveva in uno stato di paura costante. Andavano tutti a dormire senza sapere se al risveglio si sarebbero accorti che una bambina era scomparsa, o se li avrebbe svegliati di soprassalto il frastuono di uomini armati che sfondavano le fragili porte delle loro case in cerca di una nuova vittima.
Alcune attiviste per i diritti delle donne supplicarono gli uomini presenti di impegnarsi di più. «Non avete pietà?» disse una di loro rivolta alla sala. «Qui non si tratta di stupro, si tratta del massacro delle nostre figlie!»
Il procuratore prese la parola e disse che aveva le mani legate, a meno che i genitori non si fossero fatti avanti per sporgere denuncia. «Dovete denunciare quello che vi accade» li esortò. «Se non sporgete denuncia, c’è ben poco che io possa fare.» Un brusio di indignazione percorse la sala. Alcune madri vicino a me alzarono gli occhi al cielo.
Quando ebbe finito, il procuratore fu bersagliato di proteste. Lo schernirono chiamandolo «Monsieur Hundred Dollars» per la sua fama di accettare mazzette. I colpevoli non venivano mai arrestati, disse un operatore sociale tra gli applausi del pubblico. E anche quando venivano presi, potevano comprarsi la libertà.
«Vanno avanti così perché possono farla franca. Sanno di non andare incontro a problemi» spiegò.
Oltre alla sequela di stupri, nei dintorni di Kavumu c’erano stati anche omicidi, attacchi incendiari e pestaggi. Un attivista locale che aveva cominciato a indagare sugli stupri era stato ucciso a colpi d’arma da fuoco in casa propria, di fronte alla figlia. A dimostrazione dell’insicurezza diffusa, persino un accampamento militare nelle vicinanze era stato attaccato.
Varie persone lasciarono intendere di sapere chi ci fosse dietro questa ondata di vessazioni, ma nessuno era disposto a fare nomi. «Sappiamo che, se parlassimo, verremmo uccisi anche noi» disse l’operatore sociale. «Questa potrebbe essere la mia ultima notte solo per essere intervenuto qui, oggi» aggiunse.
Il procuratore e l’agente di polizia cercarono di difendersi e alla fine attribuirono tutta la colpa a una milizia attiva nella zona. Dissero che stavano lavorando per catturarne i membri. Ma le loro parole suonavano false. Ogni volta che tentavano di difendersi, la folla si faceva beffe delle loro spiegazioni.
Fu subito evidente che il problema non era la mancanza di coraggio della comunità, e tanto meno l’assenza di vigilanza da parte dei genitori. Madri e padri raccontarono che stavano svegli tutta la notte. Alcuni erano esausti per aver dormito a turno, alternandosi per vegliare sulle figlie. Ero colpito dal vigore con cui molte madri facevano sentire le loro ragioni.
Il problema era la totale mancanza di un sistema giudiziario funzionante. E quel villaggio appena fuori Bukavu era un microcosmo del nostro mondo. A un livello superficiale potrebbe sembrare un luogo molto distante, con le sue baracche di legno e le strade fangose. Eppure il problema che si trovavano ad affrontare le madri di quelle ragazzine è comune alle donne di ogni dove: anche quando rompono il silenzio e denunciano i crimini subiti, molto spesso il sistema giudiziario tradisce le loro aspettative.
Gli abusi sessuali prosperano nel silenzio, ma si diffondono ogni volta che gli uomini sono liberi di agire impunemente. Aristotele, il padre della filosofia occidentale, ha scritto: «L’uomo che, se ha realizzato i suoi fini naturali, è il migliore degli animali, quando non ha né leggi né giustizia è il peggiore».a Dopo tutto quello che ho visto, non potrei essere più d’accordo.
A Kavumu non c’erano leggi, e l’uomo dava il peggio di sé. Ma in definitiva sono stato testimone di quanto efficace possa essere il sistema giudiziario quando vengono messe in campo risorse sufficienti e si agisce con determinazione.
Terminata l’assemblea, fui avvicinato da alcune donne e dall’operatore sociale che era intervenuto davanti a tutti. Parlando sottovoce, in modo da non essere uditi dagli altri, mi svelarono chi fosse il principale responsabile di quei crimini efferati.
La milizia attiva nella zona era controllata da un deputato locale, membro dell’assemblea provinciale del Sud Kivu. «Frédéric Batumike. È onnipotente. Nessuno osa toccarlo» disse una di loro.
Dopo l’assemblea, intensificammo i nostri sforzi per porre fine alla più aberrante serie di aggressioni sessuali che avessimo mai visto. Tra il 2012 e il 2015, a Kavumu erano state stuprate almeno quarantasei bambine tra i diciotto mesi e i dieci anni.
Entrammo a far parte di un’ampia coalizione di gruppi impegnati sul tema, fra cui Physicians for Human Rights, un’organizzazione con sede a New York con cui collaboro da più di dieci anni, e TRIAL International, una ONG di Ginevra che si occupa di sostenere le vittime di stupro durante il processo. Il contributo del nostro team legale e dei nostri medici specialisti è stato essenziale.
Nel 2009 la fondazione Panzi aveva creato un nuovo servizio legale nell’ambito del nostro programma di «assistenza olistica» alle sopravvissute. Era un’evoluzione naturale del nostro lavoro, che integrava i programmi di assistenza sanitaria, sostegno psicologico e inserimento socioeconomico gestiti attraverso la Città della gioia e la Maison Dorcas.
Avevamo notato che molte sopravvissute, partecipando a questi programmi, guarivano dalle ferite, ritrovavano la fiducia in se stesse ed erano pronte ad affrontare lo stigma impresso dalla comunità. Ma una volta recuperata l’autostima si chiedevano come poter adire le vie legali e ottenere giustizia non solo per se stesse, ma in modo che altre donne non dovessero seguire la stessa sorte.
Quando vedo donne pronte a sporgere denuncia, nonostante le scarse possibilità di successo e il rischio di subire intimidazioni, so che il nostro lavoro sta producendo effetti positivi: perché per farlo ci vuole forza, fiducia nei propri diritti e autostima, tutte cose che noi cerchiamo di incoraggiare.
Il servizio legale dell’ospedale è conosciuto come il «consultorio giuridico» ed è stato istituito da un’energica avvocata, Thérèse Kulungu. Thérèse vive nel Congo occidentale, ma si era offerta di percorrere 1600 chilometri per unirsi a noi all’altro capo del paese, senza avere mai messo piede prima a Bukavu, dopo avere letto sul giornale del nostro lavoro.
I suoi successori non sono stati da meno e guidano un team di sei avvocati che informano le sopravvissute sui loro diritti legali, le aiutano a presentare denuncia e le seguono durante il processo. Collaborano anche con altri avvocati e con i leader delle comunità di tutta la provincia, contribuendo a educare i cittadini e in particolare le donne in merito al sistema giudiziario.
È un lavoro importantissimo e non di rado pericoloso, sostenuto anche da numerosi partner stranieri tra cui l’Eastern Congo Initiative, fondata dall’attore Ben Affleck e da Whitney Williams.
La collaborazione tra il consultorio giuridico e i medici dell’ospedale, che grazie all’aiuto di Physicians for Human Rights sanno come redigere una relazione forense, fu fondamentale per produrre prove a carico dei carnefici di Kavumu. Ci occupammo di raccogliere dichiarazioni dettagliate delle vittime e dei loro familiari, registrare videointerviste e scattare fotografie.
Mi adoperai personalmente per ottenere un’ampia copertura mediatica del caso sia in Congo sia a livello internazionale. La giornalista belga Colette Braeckman svolse un ruolo importante in Europa, e la giornalista americana Lauren Wolfe scrisse un dettagliato e commovente articolo su Kavumu per la rivista statunitense «Foreign Policy» intitolato A Miserable Mystery in Congo.
Le autorità congolesi ricevevano sempre più pressioni affinché adottassero provvedimenti concreti. Tempo prima il governo di Kabila aveva nominato una rappresentante speciale per la violenza sessuale, un provvedimento di facciata più che un vero progresso verso la soluzione del problema. Quando la contattammo riguardo al caso Kavumu, la donna ci disse di non poter fare nulla a causa dell’immunità parlamentare di cui Batumike godeva in quanto deputato all’assemblea del Sud Kivu per la zona di Kavumu.
All’inizio del 2016 l’ufficio del procuratore civile e la polizia ricevettero l’ordine di intensificare le loro fiacche indagini. Ma gli sforzi non durarono a lungo. Le indagini si arenarono non appena anche loro giunsero alla conclusione che Batumike non poteva essere perseguito.
Per fortuna la giustizia militare si dimostrò un alleato più affidabile e meno incline alla corruzione. In marzo gli inquirenti del tribunale militare di Bukavu avocarono a sé i casi delle bambine sostenendo che quella serie di stupri costituiva un crimine contro l’umanità, un reato che ricadeva sotto la loro responsabilità.
Tre mesi dopo Batumike fu arrestato insieme a decine di altri uomini. Finì agli arresti domiciliari, e in casa sua la polizia rinvenne una Colt semiautomatica, antiquata ma ancora funzionante, con la scritta «US Army», senza dubbio acquistata sul vasto mercato nero delle armi dismesse. Ciò significava che poteva essere accusato anche di possesso di un’arma da guerra.
Gli inquirenti reperirono inoltre dei tabulati telefonici da cui risultava che era regolarmente in contatto con alcuni sgherri della milizia colti in flagrante mentre violentavano una bambina. Emersero anche i legami tra il deputato e i capi operativi del suo gruppo armato, che si faceva chiamare Jeshi la Yesu (Esercito di Gesù). Con queste prove fu possibile dimostrare che era proprio lui a controllare quella milizia.
L’intera storia del loro regno del terrore venne alla luce nel dicembre 2017, quando fu giudicato dall’alta corte militare insieme ad altri diciassette miliziani. Il suo gruppo aveva preso il controllo della zona dopo aver assassinato un espatriato tedesco, proprietario di una piantagione nei dintorni di Kavumu, per ordine di Batumike. Il deputato aveva poi tentato senza successo di impossessarsi delle sue terre. Quando gli erano stati negati gli atti di proprietà, aveva mandato un gruppo di uomini armati di kalashnikov a occuparle con la forza.
La milizia era anche stata utilizzata per molestare e mettere a tacere chiunque fosse considerato un avversario politico del capo, compreso l’attivista che aveva iniziato a indagare su di lui ed era stato assassinato. Batumike era stato poi molto abile a sfruttare la sua posizione, la sua influenza e il suo denaro per bloccare le indagini giudiziarie e di polizia contro i suoi scagnozzi.
L’inchiesta gettò luce anche sugli stupri delle bambine. La corte arrivò alla conclusione che i combattenti erano sotto l’influenza di uno stregone, il quale preparava per loro delle pozioni che avrebbero dovuto proteggerli dai nemici. Gli intrugli richiedevano il sangue dell’imene di una vergine.
Ciarlatanerie e superstizioni rituali hanno una lunga storia in Congo, sebbene normalmente non comportino violenze sessuali. Per esempio, è noto che negli anni Sessanta svolsero un ruolo importante nella rivolta dei Simba contro Mobutu, quando ai giovani guerrieri veniva data una polvere nera, ottenuta macinando ossa di leone e di gorilla, e amuleti magici grazie ai quali erano convinti che i proiettili dei nemici si sarebbero trasformati in acqua.
Durante le tre settimane in cui si svolse il processo, il tribunale militare tenne delle udienze a Kavumu; le vittime e i testimoni si presentarono a decine per rilasciare una dichiarazione, in molti casi protetti da uno schermo e da tecnologie di alterazione della vo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL POTERE DELLE DONNE
  4. Introduzione
  5. I. Il coraggio materno
  6. II. Un’emergenza sanitaria femminile
  7. III. Crisi e resilienza
  8. IV. Dolore e forza
  9. V. La parola a lui
  10. VI. Denunciare
  11. VII. Lottare per la giustizia
  12. VIII. Riconoscere e ricordare
  13. IX. Uomini e mascolinità
  14. X. Leadership
  15. Conclusioni
  16. Note
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright