Quattro stagioni per vivere
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Quattro stagioni per vivere

  1. 288 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Quattro stagioni per vivere

Informazioni su questo libro

Per sostentare la madre malata, Osvaldo ha bisogno di carne, e parte a caccia di camosci. Si prepara a passare parecchio tempo nel freddo del bosco, quando si imbatte in quello che sembra un enorme colpo di fortuna. Un camoscio appena ucciso, e sepolto nella neve dai cacciatori, che verranno a riprenderselo. Osvaldo cede alla tentazione e prende il camoscio. Non ci vorrà molto perché i legittimi proprietari, i gemelli Legnole, due brutte persone, di corpo e di anima, vengano a sapere chi ha rubato il loro camoscio. E decidano che il colpevole dovrà pagare con la morte. Inizia così per Osvaldo un anno di vita in mezzo ai boschi e alle montagne, tra agguati, pedinamenti, rischi mortali, in fuga dalla ottusa follia dei gemelli, fino al sorprendente finale. Mauro Corona, ispiratissimo, ci regala un romanzo travolgente, ricco di colpi di scena, e animato da personaggi tanto realistici quanto archetipici. Attraverso la fuga di Osvaldo, Corona racconta lo scorrere delle stagioni, costruisce un romanzo di colori (il bianco della neve, il rosso dell'autunno, il giallo dell'estate) e riflette sul potere salvifico della natura: Osvaldo, anche se in fuga, anche se braccato, anche se affamato, sarà felice in mezzo ai suoi boschi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804746126

INVERNO

Gennaio

Chissà cosa mi avrebbe riservato quel triste gennaio. Chi avrebbe immaginato che sarebbe stato il più duro di tutta la mia vita. Per tante cose. Prima il freddo, poi valanghe, vento, ghiaccio e... i Legnole. In quel mese mi hanno sparato tre volte. Ovviamente non per uccidermi, lo avrebbero potuto fare. Volevano spaventarmi. E ci riuscivano. Pensavo questo mentre tiravo giù la pelle alla bolp. Trenta giorni difficili e ancora mi domando come son riuscito a portarla fuori. Intendo la scorza. Anche febbraio è stato tosto, ma molto meno, e voglio anticipare che a marzo nevicò forte. Ma devo andare in ordine di fatti, per cui qui mi fermo.
Gennaio non fu molto nevoso, anche se a dire il vero era sufficiente quella già caduta. Fu il freddo a limarmi le ossa. Anche se avevo vestiti buoni, ero ben protetto, avevo legna secca nei depositi, fu veramente una tortura. Quel freddo lì non si poteva reggere. Mi sfiniva e toglieva la volontà di fare ogni minima cosa. E come se non bastasse, ogni giorno calava il vento maligno delle montagne che mordeva il corpo come un cagnaccio rabbioso. Con la pelle della bolp feci un berretto, lasciando il pelo all’interno. Lo indossavo sopra quello di lana. Mi copriva fino alle orecchie ma non bastava a sconfiggere quel gelo infame. Pensavo, sbagliando, che in quelle condizioni i Legnole non si muovessero. Non fu così.
Un giorno vidi del fumo alzarsi laggiù, sul limitar del bosco scheletrito. Sotto quel fumo c’era un fuoco. Puntai il binocolo e vidi due uomini che si scaldavano. Stavano sulla linea del sentiero che menava a valle. In quel punto passa sul bordo della croda, e c’erano dei cavi a cui tenersi per non finir di sotto. Era un punto molto pericoloso, l’unico per guadagnare il bosco sottostante. Oppure si montava verso destra, ma servivano cinque ore per raggiungere il raccordo che menava al paese. Tutt’intorno montagne impervie e rocce verticali. Usavo spesso quel tratturo. Anche l’ultima volta che ero calato per parlare ai Legnole ero passato di lì, non senza qualche brivido, come sempre. Ancora non sapevo che di là non sarei più transitato.
Ma non devo dire le cose prima o faccio confusione.
Tutto il giorno osservai i due che andavano dal fuoco alla roccia e viceversa. Sentivano freddo e si avvicinavano alle fiamme per scaldarsi. Mi venne in mente di sparare un colpo, a dire che li tenevo d’occhio. Anche loro mi avevano visto: io avevo acceso una montagna di rami secchi. Dove c’è fumo c’è fuoco, e dove c’è fuoco qualcuno lo fa. Presi il fucile, aspettai che fossero alla roccia e sparai in direzione del fumo. Non successe nulla. La distanza era talmente lunga che la pallottola si perse da qualche parte, come uno che non sa dove andare. Ma i gemelli si spaventarono. Scapparono a nascondersi dietro gli alberi. E da lì tirarono due colpi. Su da me non arrivò niente se non il cupo rimbombo degli spari. Ma di lì a poco avrei udito un altro colpo, ben più potente.
Arrivò nella notte e sconquassò la montagna. Era appena venuta su una luna d’oro, il freddo tagliava la faccia con la sua lama affilata. Me ne stavo imbacuccato nel pastrano, avevo pantaloni pesanti e calzettoni sopra i pantaloni. Così bardato ero uscito dalla grotta a vedere le stelle tremare di freddo. E tremavano! Mi sembrava si spegnessero una alla volta e cadessero insieme come gocce congelate dai rami di un cespuglio solitario. Piovevano sulla neve indurita col brillio di faville. Invece la luna sembrava tiepida tanto era tonda e gialla. Camminava lenta e pacifica verso la sua meta, dentro un silenzio misterioso e inquietante. Impossibile non pensare al destino crudele di stare al mondo. E fu mentre ammiravo la luna e le stelle che il silenzio si frantumò in mille schegge.
Lontano laggiù, dove di giorno gironzolavano i Legnole, irruppe una fiammata violacea seguita da un’esplosione che fece tremare la valle e le montagne. Non capivo cosa fosse successo. Pensai a un’azione dei gemelli, ma cosa avevano combinato? Potevo scoprirlo solo con la luce del giorno. Il perché lo avrei capito in seguito. Intanto, dopo la sfuriata, ovunque era tornato il silenzio pacifico dell’inverno. Mosso dalla curiosità, presi la pila intenzionato ad andare a vedere. Avevo fatto sì e no duecento metri quando notai due lucine. Più lontano s’alzò un fuoco. Erano ancora in giro. Torna al tuo antro, mi dissi, da quelle parti non è buono andare. In quella notte di gelo pietrificato, il fascio della pila annullava la luce chiara della luna. Tutto questo non mi piaceva. Allora la spensi decidendo di tornare alla spelonca guidato dal freddo lucore dell’astro. Appena eliminata la torcia, fu come entrare in uno stampo di ghiaccio mortale. La notte mi aveva afferrato, serrando sul mio corpo il suo abbraccio inquietante. Provai paura. Ero solo, attorno a me niente a favore, lontano da ogni punto di vita. Sapere che i gemelli stavano nel fondovalle quasi mi rallegrava. Guardai in alto. Il balenio del fuoco nella grotta mi stimolò a far presto. Corsi verso la luce benevola, riaccendendo la pila per sottrarmi alla stretta implacabile di quella notte invernale. Sul fuoco morente gettai una brancata di rami secchi e mi disposi ad aspettare il giorno. Volevo sapere cos’era stato quel botto che aveva sconquassato la valle. Cosa avevano combinato i bastardi?
Ogni tanto, dall’esterno, entrava rasoterra il vento delle montagne. Faceva girare il fuoco come una trottola. Dovevo spostarmi per non farmi bruciare la faccia.
Si crede che il vento sia tutto uguale, una forza invisibile che muove e spinge tutto quello che trova. Invece no. Il vento delle montagne non è quello del bosco o delle radure. Così come quello che soffia sui campi non è quello dei pascoli alti. Quello che gratta i pendii innevati è diverso dal vento delle pianure ghiacciate. Si differenziano dal soffiare, da come si muovono, da quanto durano. Se un vento soffia più di quarantott’ore, quassù dicono che è una femmina, una venta. Quando vento e venta fanno l’amore occorre rimanere tappati in casa. Spazzano via ogni cosa e non trovi più il cappello tanto lo portano lontano. E poi c’è il vento delle gole rocciose che viene fuori rotolando come un tuono. Spinto a forza nelle strettoie, si mette a urlare e fischiare come qualcuno che chiede aiuto. Gente che si lamenta per chissà quali torture. Quella notte da paura, era il vento delle montagne a spingermi il fuoco sul viso.
Feci una cuccuma di caffè giusto per ingannare il tempo. Poi credo di essermi appisolato, ma non del tutto. Era quel sonno falso che non sei né sveglio né addormentato. Sentivo crepitare il fuoco, sentivo l’aria che visitava la caverna e giocava con le fiamme. Non ero sveglio e non dormivo, non vedevo niente e sentivo tutto. Udii all’improvviso il rantolo di un gufo. Pareva venire da lontano, come dai confini del mondo. Invece era lì fuori e mi svegliò strappandomi dal torpore. Ascoltai quella voce amica e mi commossi. Mai ero stato così bene di notte come in quella strana notte.
L’ho già detto, di tutto questo dovrei ringraziare i Legnole. Senza la loro ottusa caccia, forse non avrei mai provato queste sensazioni. E sì che non sono facile a piagnistei o commozioni. Sono cresciuto senza nemmeno poter piangere. Mia mamma diceva che non serve. Mio padre non l’ho conosciuto, perciò non poteva dirmi niente. Non so nemmeno chi sia. Mia mamma, oltre al suo seme, s’è tenuta dentro anche il segreto. Così mi sono indurito. Adesso, la vita all’aperto, privazioni, stenti e fatiche stavano spremendo fuori il segreto di me. Ma a questo punto poteva bastare. Sarei tornato a casa volentieri se quei bastardi avessero troncato il loro folle proposito. Così invece non era, perciò dovevo resistere e cercare di portar fuori la pelle. Mi rassegnai al destino con un sospiro, e tutta la natura intorno a me rispose come un grande amen.
Piano piano arrivò nella grotta la fioca luce che annuncia l’alba. Me ne accorgevo perché quello è il momento in cui la roccia, prima tutta scura, comincia a prendere forme. Appaiono qua e là rughe e fessure, le ombre diventano dettagli, spigoli, sbalzi. È la carta d’identità del giorno, che presenta a chi non dorme la sua faccia.
Verso le dieci, spuntò un sole debole e freddo come un moribondo. Non scaldava ma esisteva, e questo rallegrava il cuore non solo a me, ma credo anche agli animali assiderati. A quel punto ricordai l’esplosione della sera prima. Puntai il binocolo laggiù dove l’affilata lama di pietra scivolava d’un balzo verso il bosco. Misi a fuoco e capii tutto, sebbene ci fosse poco da capire. Quei criminali avevano fatto saltare la parete rocciosa dove, protetto da funi d’acciaio, passava come un segno di matita l’unico sentiero verso valle. Al suo posto appariva una grande piaga giallastra alta più di venti metri. Da lì non si scendeva più. Avevo con me un pezzo di corda ma non lunga a sufficienza per calarmi. E poi come sarei tornato su? Mi toccava fare un giro di cinque, sei ore. Potevo fissare una corda e risalire ogni volta, mungendola. Ma non era igienico. Metti che i Legnole se ne fossero accorti? Potevano intaccarla col ronchetto e farmi precipitare mentre arrampicavo. Troppo complicato. Da lì non dovevo più transitare. E dall’altro percorso mi aspettavano ore di marcia. Maledetti bastardi. Capii che era ora di cambiare antro per essere più comodo a scendere verso il paese e i viveri. Come ho detto, grotte, antri e caverne ne avevo attrezzati parecchi, ero fornito di campi base. Dovevo stare accorto, lo sapevano e potevano tendermi un agguato. Del resto, rimanendo lì diventavo un bersaglio facile, troppo studiato. I due mi spiavano in continuazione, meglio confonderli e spostarsi di tana in tana. Paradossalmente, l’unica cosa a mio favore era il freddo. Duro da sopportare anche per loro, non credo siano di sasso. Le teste le hanno di carpino, ma il corpo no. Per evitare di congelare, si sarebbero mossi meno. Ma non dovevo sperarci troppo. Quelli erano talmente ottusi da non sentir nemmeno la ragione del freddo. Coi Legnole non si poteva agire tramite ragionamento. Erano buoni a nulla ma capaci di tutto. Sotto quel sole pallido e smunto, che dava allegria, decisi di andare a vedere il crollo. Con mille cautele mi avviai, io davanti e Papo dietro. Lo tenevo con un po’ di corda, che non ci fossero altri bocconi avvelenati. Calzando le grappelle sulla neve indurita, arrivai nel luogo dell’esplosione. Il cane grattava le unghie per non scivolare. Guardai quel che avevano fatto. La parete di roccia che da secoli portava sulle spalle il sentiero era scomparsa. La valanga di detriti finita in basso aveva macellato una larga fascia di bosco. Osservai la piaga gialla sulla parete crollata. E trovai la sorpresa. Nella parete bassa, dov’era più liscia, scritte col nerofumo del carburo stavano le seguenti parole: “Qui morirà. Qui fenirà la to vita”.
Ecco cos’erano le lucine viste dopo lo scoppio. Usciti dal riparo armati di lampade a carburo, avevano scritto la minaccia col nerofumo indelebile della fiamma. Altro che rimanere al calduccio lontani dal freddo! Avevano riempito di esplosivo la fessura in alto lungo la linea separativa. E l’avevano fatta saltare. Trovare dinamite non era difficile. Ne ho anch’io e mi sa che la uso. Tutti in paese abbiamo lavorato nelle gallerie o nelle cave. O nei cunicoli per tirare acqua ai mulini, segherie, battiferro e torni. Rubare due, tre casse di esplosivo alle ditte era una stupidata. E se quelli hanno intenzione di esagerare, gli faccio saltare la casa. Così provano cosa vuol dire stare senza un tetto. Ma aspetto che siano fuori paese, non voglio seppellirli vivi. Se avessi voluto stenderli, lo avrei già fatto.
Adesso mi avevano creato il problema del sentiero. Stavo dentro un vasto catino di neve, isolato dal mondo, sotto montagne alte e dure, senza più strada. Una trappola dalla quale dovevo togliermi al più presto. Necessitava spostarmi e mi spostai. L’indomani, ficcai nello zaino le cose più urgenti e puntai all’antro di Tamarìa, in alta val Bedin. Portai le ciaspe ma non servivano, avrei camminato sul marmo bianco della neve. Sotto gli scarponi, le grappelle: c’erano pendii ripidi che guai scivolare. In mano l’alpenstock, in spalla due fucili. La pistola nascosta nella grotta. Sarei tornato se tutto andava bene. Scrutando la valle, osservavo, e ascoltavo. Volevo captare segnali sospetti. Non avevo paura per me. Sapevo che prima di farmi fuori volevano rendermi un verme, un uomo sfinito, impaurito, morto in piedi.
Avevo invece terrore che sparassero al mio cane. Pur di crearmi dolore, capacissimi di farlo. Ma guai a loro. Guai al mondo toccare il mio Papo. Allora sì che avrebbero firmato la loro condanna a morte. A costo di passare in galera il resto della vita, li avrei uccisi. Ma neanche. Troppo comoda una pallottola improvvisa se non l’aspetti. No. Se uccidevano il mio Papo, li avrei catturati, legati e torturati giorni. Uno alla volta, finché non imploravano la pietà della morte. Come ho detto sempre, ammazzarli per un camoscio no, per il mio cane sì. L’ultima notte nella spelonca preferita era stata davvero strana. Aggiungo insonne. Stavo imbacuccato accanto al fuoco, assieme al cane e a sciami di ricordi. Una folla di memorie, vivide e accese, salivano dall’anima al cervello come le faville salivano al soffitto della grotta. Lassù le faville si spegnevano, i miei ricordi no. Tornava a passare la vita, con la sua cesta di regali che io non avevo saputo cogliere. Bastava allungare il braccio, prenderne qualcuno. Ce n’erano tanti in quella cesta! Ma io no. Testardo, aspettavo fosse la vita a tirar fuori qualcosa e darmelo. Invece la vita non ti dà nulla, lei passa ma la roba te la devi prendere tu. Adesso dovevo prendermi qualcosa. Avevo intenzione di salvarmi e chiudere presto la faccenda. Ma sapevo che non c’è salvezza senza sofferenza. E allora avanti a patire.
Per giungere all’antro di Tamarìa non bastava un giorno di cammino. Dovevo giocoforza dormire da qualche parte. Passare la notte sotto un larice non mi dispiaceva. Allora ne cercai uno adatto. E lo trovai. Lasciai la caverna che non era ancora chiaro. Sopra di me stava la luna a vegliare i miei passi. E le stelle: gocce di rugiada congelate, appese alla volta del cielo. Ogni tanto ne cadeva una per stanchezza. Il suo cuore affilato tagliava con una scia il lenzuolo scuro della notte. Dopo un’ora vidi cadere un’altra stella, più luminosa di tutte. È un segnale, pensai. Guardai verso la valle per scoprire se vi erano luci dei Legnole in marcia. Niente. Sulla barba la condensa diventava ghiaccio, toglierla mi faceva male. Mai sentito un freddo così feroce. Gli alberi scoppiavano spaccandosi a metà. Camminavo piano per non stancarmi. Sarebbe stata lunga. E guai sudare. Se poi ti fermi, la schiena diventa una lastra di ghiaccio. Bisogna marciare lenti e continui. Nella mia situazione guai prendermi qualche magagna. Una bronchite con febbre poteva essermi fatale. Anche senza febbre. Non avevo un seppur minimo medicinale. Lacuna che mi ripromisi di colmare non appena fossi calato per viveri. Piano, piano, con Papo accanto, risalii l’interminabile costa di Piae, colma di neve, ripida che non la ricordavo. E poi gli infiniti traversi del Cimone, Costamolin e Rodetìa bianca. L’ultima rampa fu Piciocche, e non ero nemmeno a metà strada.
Verso pomeriggio, quando il sole stava declinando, intravidi l’albero dove passare la notte. Era un larice enorme, la cui base faceva curva. Vicino a lui spuntava un ciuffo di muga. Rammentai che in quella zona i mughi sono alti e fitti. Ora, tranne quel ramo dondolante, tutto era sepolto e bloccato nel cemento della neve. D’estate, il luogo è quasi inaccessibile tanto è infestato dal pino mugo e dal larice. Ora non si vedeva che bianco ovunque. Allora capii che la neve era tanta e non mi riusciva di immaginare quando il disgelo l’avrebbe cacciata via. Tanta e dura, il sole avrebbe faticato a disfarla e ridurla acqua. Quel ciuffo di muga, che spuntava dal manto indurito, pareva una mano invocante aiuto. Ricordava la mia situazione. Anch’io ero sepolto dal destino ottuso dei Legnole. Chiedevo aiuto come quel ramo, ma nessun disgelo sarebbe venuto a liberarmi. Dovevo essere io il mio sole, il mio canto di primavera, il mio liberatore.
Sedetti sotto il larice. Il tepore del suo corpo aveva sciolto il manto mezzo metro intorno, potevo stare all’asciutto. Per arrivare al tronco fui costretto a saltare il bordo ghiacciato della neve. Più in alto, notai un pino secco spuntare dal marmo bianco come uno scheletro minaccioso. Non aveva un centimetro di corteccia. Era color della cenere ma, illuminato dal tramonto, pareva d’argento puro. Appoggiai la schiena alla curva di base e riposai. Di fianco a me, Papo stese il muso rasoterra come se volesse riflettere. Con la pala corta spianai gli aghi secchi piovuti in autunno dai rami e preparai il giaciglio. Portai lo zaino accanto a me. Pesava come minimo venti chili. Conteneva l’indispensabile per vivere all’aperto e resistere. Presi seghetto e ronca e andai verso il pino argentato. Rubai a quell’albero morto una scorta di legna secca che una volta accesa era benzina. Non vi è nulla come la pianta morta in piedi che brucia facile regalando la massima forza di calore. Io me ne intendo di queste cose, lavoro nel legno da sempre, e di bosco sono esperto. Mentre tagliavo, il sole sprofondò dietro la Cridola e i monti si fecero grigi e tristi. Mi apparvero freddi come la morte che circondava le valli. Accesi un falò che dovetti levarmi il pastrano. Tirai fuori il sacco a pelo, mi stesi sopra e aspettai che le ombre della sera venissero ad avvolgermi nella loro coperta scura.
In certi frangenti avere un cane vicino è una gioia che pochi sanno. Lo è quando siamo a casa, figuriamoci nella solitudine dell’aspra natura, nel cuore...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Quattro stagioni per vivere
  4. AUTUNNO
  5. INVERNO
  6. PRIMA VERA
  7. ESTATE
  8. UN NUOVO AUTUNNO
  9. Copyright