I discepoli del fuoco
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I discepoli del fuoco

  1. 464 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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I discepoli del fuoco

Informazioni su questo libro

Bologna, dicembre 1311. Mondino de' Liuzzi, medico anatomista, viene incaricato dal podestà di far luce su una morte strana e orribile: un membro del Consiglio degli Anziani è stato rinvenuto carbonizzato in casa sua, eppure nella stanza nulla fa pensare a un incendio. Perfino la poltrona su cui l'uomo era seduto è rimasta quasi integra, mentre il corpo è bruciato in modo irregolare. I piedi sono illesi, un braccio è interamente ustionato, tutto il resto è ridotto in cenere.

Mondino fa trasportare le spoglie nel suo studio per esaminarle. Non riesce a svelare la dinamica dei fatti, ma sollevando con il coltello da dissezione la pelle bruciata del braccio scopre i resti di un tatuaggio: un mostro alato, con la testa di leone e il corpo avvolto nelle spire di un serpente. La mattina seguente il cadavere scompare.

Qualche tempo dopo, un frate francescano viene ritrovato morto nel quartiere dei bordelli. In tasca ha un disegno molto simile al tatuaggio individuato da Mondino. L'indagine sulle due vittime rivela l'esistenza di una setta di adoratori di Mithra, dio persiano del sole e del fuoco, venerato anche dai Romani sotto il nome di Sol Invictus. Con l'aiuto di Gerardo da Castelbretone, un ex Templare con cui ha stretto amicizia, Mondino viene a sapere che la setta ha un folle progetto per "salvare" l'anima dell'intera città... distruggendola con il fuoco purificatore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804751700

VI

Gerardo passeggiava tra i banchi della seta, nel mercato di Porta Ravegnana guardandosi intorno e tenendo Masino per mano. Per fortuna aveva smesso di piovere e da dietro i nuvoloni grigi ogni tanto emergeva un raggio di sole. Anche l’aria, dopo la pioggia notturna, si era fatta più mite. La gente per strada diceva che quel cambiamento improvviso di temperatura preludeva a una grande nevicata, di quelle che lasciavano per giorni la città sotto una spessa coltre bianca.
Ma nel frattempo, era bello camminare senza per forza dover restare al riparo dei portici. Respirando l’aria fredda, Gerardo si sentiva vivo. Si sarebbe tolto persino la guarnacca, se poi non avesse dovuto portarla in mano. In quanto a Masino, sotto il saio di canapa grezza dell’ospitale, indossava camicia, brache e un paio di sandali che Gerardo gli aveva fatto fare poco tempo prima. Gli colava il moccio dal naso, e spesso con la mano libera si dava una grattata al cranio rapato.
Aspettavano Clara, e non avrebbe saputo dire chi dei due era il più nervoso.
Quella mattina presto lei aveva mandato una donna alla porta dell’ospitale, a dire al frate portinaio che un po’ più tardi sarebbe passata al mercato della seta per fare spese, e le avrebbe fatto piacere vedere il fratello. Non aveva menzionato Gerardo, ma era evidente che il bambino non poteva andare da solo all’appuntamento.
Gerardo non sapeva come trattarla. Era solo una fantesca, ma era anche la sorella di Masino. Avrebbe preferito non tener conto della differenza sociale tra loro, ma la distanza c’era, ed era inutile fingere di non vederla.
Per questo aveva pensato di lasciare Masino con lei, andare a parlare con Michele da Castenaso e poi tornare a prenderlo. La cosa più importante, tuttavia, era che Clara arrivasse. Masino avrebbe sofferto moltissimo se per qualunque ragione non si fosse fatta trovare.
«Ti piace la seta?» gli chiese, vedendolo incantato davanti al banco di un drappiere, che esponeva tessuti leggerissimi e colorati, rossi, verdi, gialli e indaco.
Il bambino annuì, senza distogliere lo sguardo dalle pezze di seta dietro il banco, grandi rotoli verticali di colori scuri, avvolti intorno a un palo. Quello che aveva attratto la sua attenzione era un tessuto rosso cupo, che sembrava cambiare sfumatura ogni volta che era colpito dalla luce, quando il drappiere si spostava per servire un cliente.
Gerardo voleva proseguire in cerca di Clara, ma non ebbe cuore di trascinarlo via subito. Tanto anche la ragazza cercava loro, si sarebbero trovati senz’altro.
Masino era molto sensibile, piangeva per un nulla e a volte si incantava a guardare cose che avrebbero dovuto attrarre più una femmina che un maschio. Eppure, nonostante questo e nonostante il suo mutismo, gli altri bambini dell’ospitale avevano imparato a rispettarlo, quando un giorno si era ribellato contro uno dei più tiranni, gettandolo a terra e prendendolo a pugni e calci finché non era intervenuto un monaco a separarli.
Gerardo aveva concluso che aveva un’anima da artista, e favoriva la sua attrazione per i colori. Coltivava persino l’idea di mandarlo a bottega da un pittore, appena fosse stato grande abbastanza.
Masino distolse lo sguardo dalle pezze di seta e si voltò dall’altra parte, attento, come se i suoi occhi sapessero già dove cercare. Un attimo dopo tirò la manica di Gerardo, indicando la figura svelta della sorella che passava accanto a un banco. Masino lasciò la mano di Gerardo e corse ad abbracciarla. Clara lo prese in braccio, lo baciò sul viso e sui capelli cortissimi, e solo quando lo depose a terra si rivolse a Gerardo.
«Grazie di averlo portato» disse sorridendo.
«Di nulla» rispose Gerardo, serio. «Purtroppo non posso restare. Se dovete fare delle compere per i vostri padroni, andate pure con Masino. Io ho un affare da sbrigare in via delle Pescherie, poi torno qui a prenderlo.»
«Credevo che venivate anche voi» disse lei, con un’ombra di delusione nello sguardo.
Di sicuro era perché la imbarazzava restare sola con il fratello muto, pensò Gerardo. «Devo vedere una persona» disse. «Poi verrò ad aspettarvi qui, davanti a questo banco, va bene?»
«Non tardate molto, per favore» rispose lei. «Devo tornare a casa prima di mezzogiorno.»
«State tranquilla.»
Gerardo fece un gesto di saluto a Masino, il quale aveva occhi solo per la sorella, e si incamminò verso la via delle Pescherie.
Il lezzo del pesce nella stagione fredda era minore che d’estate, ma gli arrivò alle narici molto prima di svoltare l’angolo. Per fortuna l’edificio dell’Arte dei Muratori era all’inizio della strada.
Attraversò il portone alto più di sette piedi, sopra il quale era dipinto sul muro lo stemma dell’Arte, con la cazzuola e il martello d’argento in campo rosso e i tre gigli dorati in alto. Nell’ampio cortile, senza rivolgersi a nessuno in particolare fece con le mani il gesto di riconoscimento che gli aveva insegnato Michele da Castenaso. Un capomastro si staccò da un gruppo di scalpellini e decoratori con i quali stava parlando e venne a chiedergli cosa desiderava. Gerardo rispose e l’uomo senza fare altre domande gli indicò una scala di legno e una porta al primo piano, dalla quale in quel momento stava uscendo un tizio con un pesante mantello, che andò a sedersi davanti a una finestra come se quello fosse il suo posto d’osservazione.
Gerardo salì fino al ballatoio, nella parte dell’edificio riservata ai membri dell’Arte. Nessuno più lo fermò, nessuno gli chiese chi fosse, e l’uomo seduto accanto alla finestra non si voltò neppure a guardarlo quando bussò alla porta.
Ogni Arte aveva i suoi sistemi per difendere i propri segreti, e l’Arte dei Muratori aveva scelto di comportarsi come se non avesse nulla da nascondere.
In realtà non era così, Gerardo l’aveva notato all’osteria della Pellegrina. La segretezza e lo spirito di corpo tra i muratori erano solo meno ostentati.
Per esempio, entrando in una stanza luminosa e scaldata da un grande braciere, dove Abdul era intento a tracciare triangoli con riga e squadra su un grande foglio di carta bambagina, mentre un vecchio dai capelli bianchi con una lunga veste nera macchiata di unto era seduto accanto alla finestra, con il viso rivolto verso il cielo grigio, si sarebbe pensato che il detentore dei segreti dell’arte muratoria fosse il turco.
Invece era il contrario.
Gerardo si avvicinò alla finestra, dalla quale entrava un’aria satura di umidità, fermandosi alle spalle del vecchio. «Mastro Michele» disse, salutando con un cenno del capo. «Abdul.»
«Messer Gerardo. Accomodatevi, per favore. Stiamo aspettando una persona.»
«Chi?»
«Un uomo che può sapere qualcosa di ciò che vi interessa. Sarebbe già dovuto arrivare, ma lavora in un cantiere a San Lazzaro, e forse ha avuto un contrattempo.»
«O si è fermato a bere in una taverna» disse Abdul. «Se mi aveste lasciato andare a prenderlo…»
«Il tuo compito è determinare la funicolare dei carichi di quell’arco» disse Michele, senza voltare il viso verso di lui. «Lavora e non distrarti.»
«Come desiderate, maestro» rispose il turco, abbassando di nuovo sul foglio la testa coperta da fitti riccioli neri.
«Abbiate pazienza» disse Michele a Gerardo. «Non può tardare ancora molto.»
«Il fatto è che ho un impegno tra poco» disse Gerardo. Non voleva creare problemi a Clara: ci mancava solo che fosse punita per colpa sua. «Magari potrei tornare più tardi.»
«Un uomo ha abbandonato il posto di lavoro, rinunciando a mezza giornata di paga, per venire qui a dirvi ciò che sa» intervenne Abdul, stizzito. «Il minimo che potete fare è aspettarlo.» Arrossì di colpo rendendosi conto di aver violato l’ordine di non distrarsi. «Scusate, maestro» farfugliò.
«Lasciate stare quello che ha detto Abdul» disse Michele, con la sua voce metallica. «Avete il diritto di fare ciò che preferite, naturalmente. Mi scuserò io al vostro posto con il muratore che ho mandato a chiamare.»
Qualcosa nel suo tono fece capire a Gerardo che se fosse andato via non ci sarebbe stata una seconda occasione. Forse al suo ritorno il gesto di riconoscimento non avrebbe funzionato e gli sarebbe stato impedito di entrare. In fondo, pensò, Clara ci avrebbe di sicuro messo un po’ di tempo a fare le sue spese. Non si era mai sentito di una donna che comprasse della seta senza prima aver fatto il giro di ogni singola bottega del mercato.
«Aspetterò» disse.
«Benissimo» rispose Michele, tornando a rivolgere il viso verso il cielo grigio fuori dalla finestra.
Nella stanza non c’erano altre sedie o scranni, e Gerardo restò in piedi, con le mani intrecciate dietro la schiena, per un tempo imprecisato, riempito solo dallo scricchiolio del carboncino sulla carta ruvida.
A un tratto le campane della cattedrale di San Pietro suonarono sesta, seguite da quelle di varie altre chiese. L’ora in cui Clara doveva tornare a casa era già passata.
Gerardo respirò di sollievo quando la porta si aprì e l’uomo con il mantello introdusse il muratore che aspettavano.
Si trattava di un tizio basso e snello, dal profilo volpino, che si guardò intorno salutando con un cenno del capo Gerardo e Abdul e poi andò a presentare i suoi omaggi a Michele da Castenaso con un profondo inchino. Il ministrale dell’Arte gli toccò la testa, con un gesto quasi ecclesiastico, poi gli chiese il motivo del ritardo. Fu subito chiaro che l’uomo era ubriaco.
«Lascia perdere le scuse» disse Michele, burbero «e racconta a questo gentiluomo quello che sai.»
L’uomo si voltò verso Gerardo, un po’ malfermo sulle gambe. «Si tratta di un mio vicino di casa» farfugliò.
«Andate avanti» disse Gerardo.
L’altro annuì, e in un volgare abbastanza corretto, ma segnato da molte pause, raccontò che il suo vicino era un capomastro, il quale circa tre anni prima gli aveva confidato davanti a un boccale di vino che aveva fatto un affare d’oro: cinquanta lire bolognine per risistemare un vecchio sotterraneo.
«Con cinquanta lire risistemate una casa di due piani da cima a fondo, non so se mi spiego» disse con un risolino furbo. «Ma tutti quei soldi erano perché non doveva rivelare a nessuno dove lavorava e di cosa si trattava.»
Gerardo gli fece segno di continuare, e l’uomo raccontò che meno di un mese dopo il capomastro era stato trovato morto in un fosso, insieme ai suoi due apprendisti.
«E voi pensate che sia stato il committente a ucciderlo?» chiese Gerardo.
Il muratore annuì, deciso. «Forse era venuto a sapere che il mio vicino aveva parlato con me, e ha capito che non poteva fidarsi» disse. «O forse aveva deciso di toglierlo di mezzo già da prima. Perciò gli aveva promesso tutti quei soldi.»
«L’assassino non è mai stato scoperto» disse Michele da Castenaso. «Questo delitto potrebbe essere collegato al tempio che state cercando.»
Gerardo non era convinto. «Potrebbe anche non esserci alcun nesso» disse. «In ogni modo, se non sappiamo dove si trova la casa, l’informazione serve a poco.»
«È a ovest» intervenne il muratore. «Noi abitiamo, cioè, abitavamo… Insomma, io abito ancora lì ma lui no, perché è morto…»
«Dove abitate?» lo incalzò Gerardo.
«Nei pressi di Porta Lame, al di qua della circla. In quel periodo il mio vicino quando andava al lavoro prendeva sempre a est, in direzione del Mercato di Mezzo. Quindi la casa è a ovest.» Fece una faccia perplessa, come chiedendosi se era stato abbastanza chiaro, poi aggiunse: «A ovest rispetto a dove ci troviamo ora, voglio dire».
Gerardo scosse la testa. Così ne sapeva quanto prima. La circla era la palizzata con terrapieno che al momento rappresentava la terza cerchia di mura di Bologna. A partire da così lontano, dire “a est”, “a ovest”, “a sud” senza riferimenti precisi, era un’indicazione troppo vaga.
«C’è dell’altro?» chiese.
«Sì» rispose l’uomo. «Un giorno mentre lavorava, il mio vicino ha mandato un apprendista a chiedere qualcosa al padrone di casa. Il ragazzo non l’ha trovato ed è salito a cercarlo sull’altana al terzo piano.» L’uomo aprì le labbra sottili in un sorriso, come sul punto di riferire un aneddoto divertente. «Il padrone appena l’ha visto l’ha mandato via a calci nel culo, gridando parole che i signori non ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I DISCEPOLI DEL FUOCO
  4. Prologo
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. XV
  20. XVI
  21. XVII
  22. Epilogo
  23. Ringraziamenti
  24. Copyright