Ritratto di donna
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Ritratto di donna

  1. 132 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ritratto di donna

Informazioni su questo libro

Due donne unite dal legame più intimo e complesso: quello tra madre e figlia. La figlia, ormai adulta e madre a sua volta, scrittrice affermata ma dalla vita personale irrisolta, cerca di ricostruire i frammenti del discorso amoroso che la lega alla madre anziana e alla Sardegna, la terra che ha lasciato anni prima e in cui ora è tornata. Come pezzi di conchiglie sparsi sul bagnasciuga i ricordi le pungono la pelle e le parlano di una remota bellezza, ma non riescono a unirsi in una forma dotata di senso.

Com'è successo - quando, e perché? - che la madre sia diventata qualcuno da cui difendersi e scappare?

Eppure, nella distanza, tutto sembrava più nitido: il dolore, i silenzi, le incomprensioni. Più semplice attribuire ruoli e responsabilità. Ma le prospettive cambiano, man mano che si modifica la nostra esistenza. E quando la prospettiva del racconto si trasferisce alla madre, che nella seconda parte del romanzo diventa l'io narrante, ecco che il quadro si arricchisce di elementi: nuovi colori, profumi, forme. Finché l'incastro dei punti di vista e le rispettive rivelazioni sfociano in una visione dall'alto, che fotografa la nascita di un nuovo e inaspettato legame.

In un alternarsi continuo tra passato e presente, cullati dalla scrittura dolce e musicale di Cristian Mannu, poco alla volta assistiamo alla definizione di un quadro sempre più completo, ricco di dettagli e sfumature. Come se avessimo il privilegio di assistere alla composizione, pennellata dopo pennellata, e poi compissimo qualche passo indietro per ammirarlo nel suo insieme.

Accolto con entusiasmo da critica e pubblico con la sua opera di esordio, Maria di Ísili, Cristian Mannu torna con un romanzo potente e delicato, che ci coinvolge fin dalle prime righe per la sua forza emotiva ed è costruito con stupefacente maestria ed equilibrio.

Cristian Mannu è nato e vive in Sardegna.

Con la sua prima opera, Maria di Ísili (Giunti, 2016), ha vinto la ventottesima edizione del Premio Italo Calvino e la prima edizione del Premio Fondazione Megamark. È stato inoltre finalista al Premio Berto, al Premio Dessì e al Premio Opera Prima 2016.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804746454
eBook ISBN
9788835716921

movimento #1

[chiaroscuri e colori]
«C’è poco da fare, signora. La porti a casa. Meglio in famiglia che da sola qui in ospedale», così ti ha detto il giovane medico, gesticolando con le sue dita sottili, quando gli hai chiesto quale fosse la situazione dopo il malore che l’aveva colpita. E così hai fatto. L’hai riportata a casa. In questa casa che tu non hai mai sentito tua, ma che per lei è sempre stato l’unico luogo dove tornare, ogni volta, come se fosse un magnete dalla forza inspiegabile, il centro misterioso di un universo segreto.
Ed è qui, in questa casa, che adesso rimani ferma a osservarla: un viso che quasi non riconosci, senza trucco, appassito, una sagoma immobile e muta. Le tieni stretta la mano, non gliela vorresti lasciare. Di nuovo. Come in quella foto di tanti anni fa, quando eri ancora bambina: quel pezzetto di carta quadrato che tenevi dentro il tuo diario e che ora ti fermi di nuovo a guardare, sul suo comodino, per la prima volta a colori e ingrandito.
Il bianco e nero sgualcito di una fotografia che per anni hai creduto racchiudesse le vaghe certezze che avevi: su di te, su tua madre, sulle vostre distanze. Molti vuoti e pochissimi pieni, chiaroscuri riempiti da colori inventati, non veri.
Ricordi?
Il tuo vestitino, i suoi fiori, il cielo ingrigito anche senza le nuvole. Ombre su ombre a confondere i particolari: la tristezza di un viso, una mano rinchiusa in un pugno, un passerotto nascosto tra i boccioli di un albero: puntino più scuro degli altri, sparito dalla tua memoria e di colpo riapparso.
E pensare che forse era già tutto lì, ma tu non l’avevi capito.
C’erano già i tuoi occhi di oggi, le lacrime, i rimpianti, le domande mai fatte, quelle rimaste senza risposte. C’eri già tu che scendevi le scale di quel palazzo grigio con le tegole rosse, al numero 3 di rue Joseph-Bara. C’era già il tuo telefono nero che squillava e una voce dall’accento francese a ricordarti ciò che forse non avresti voluto sapere. C’era già il suo corpo invecchiato che si accasciava di colpo poco dopo l’entrata di casa. C’erano già le sue chiavi che cadevano a terra, il rumore sordo della sua testa sulle mattonelle scure al di là della porta. C’eri già tu, qui, di nuovo, con lo sguardo rivolto a tua madre, questa volta distesa sul letto, e i pensieri distratti a vagare nel tempo.
Mancavano solo i colori, alcuni dettagli essenziali.
Fermati, adesso, a osservarli.
Guardala bene, quell’immagine non più in chiaroscuro e dai contorni sfumati, ma nitida e chiara, come ora ti appare.
Lo vedi il tuo vestitino delle grandi occasioni, con le balze e i nastrini di seta?
Le senti le scarpe di cuoio che fanno male ai piedini?
E il suo viso, il suo sorriso forzato ma stanco, la sua acconciatura perfetta, li vedi?
Lo senti il tocco della sua mano, il suo cuore che batte, il suo respiro affannato?
Li vedi bene i suoi occhi?
Non avevano ancora pianto, ma già si preparavano a farlo. L’avresti sorpresa poco dopo, mentre cercava di nascondersi dentro uno strato profondo di cipria, davanti allo specchio d’argento della camera grande. Eri rimasta a guardarla, in silenzio, vicina alla porta socchiusa. Ne avevi ascoltato i singhiozzi. Poi eri entrata, adagio, con i tuoi passi piccoli e lenti. Lei se n’era accorta e aveva iniziato a spazzolarsi i capelli. Si era girata verso di te e ti aveva sorriso, come faceva sempre quando la guardavi in quel modo.
Adesso non ricordi più le parole esatte, ma rivedi ancora le sue labbra sottili, segnate di rosso, muoversi piano, quasi tremando. Ti sembra ancora di sentire il suono annacquato della sua voce bagnata, stanca, e quel buon odore di lavanda e matita per gli occhi nell’aria in penombra dell’andito lungo. Lo stesso andito che ti faceva paura, con le sue curve cieche, buie, senza finestre, e che attraversavi di corsa, certe notti, dopo incubi che sembravano veri e risvegli improvvisi, cercando tuo padre, urlando «Ho paura, ho paura, papà, dove sei?».
Ma tuo padre non c’era. Non c’era nei sogni e nemmeno dentro al suo letto. Spariva e ti lasciava da sola. Come quel pomeriggio, poco dopo la foto.
Quante volte hai provato a riannodare i ricordi, a cercare anche solo un indizio nella memoria confusa.
Tuo padre che scatta la fotografia è l’ultima cosa che vedi, ogni volta che provi a pensarci. Tuo padre bello, alto, camicia bianca ma senza cravatta, che ti fa l’occhiolino mentre solleva la mano sinistra.
«La luce è perfetta» dice. «Siete bellissime.»
Poi il rumore dell’otturatore. E infine il silenzio.
Ti ritrovi scalza a chiamare tua madre.
La raggiungi nella sua stanza.
Lei piange e poi ti sorride.
E tutto ricomincia uguale, ogni volta.
Ti sembra ancora di sentire la sua voce, anche adesso.
Tu non hai più cinque anni, però, e lei non ha più quell’abito a scacchi, aderente sui fianchi, ma solo un lenzuolo ingiallito che nasconde le forme e, forse, il dolore.
Ti sforzi per cercare di ricordare le cose che ha detto, ma non ci riesci. Ci hai provato molte volte, dopo quel giorno. Ogni volta che hai pensato a lei, per tutta la vita, fino a oggi, sei tornata a quegli attimi, a quella donna che ti parlava, a quella bambina che ascoltava in silenzio. Come se in quelle parole potesse esserci la verità, o almeno una ricetta per non essere infelici. Non sei più stata in grado di ricomporre per intero quel discorso, soltanto pezzi di frasi, dove dentro c’era “niente”, forse qualche bugia, la parola “tristezza”, probabilmente la vita.
Erano tessere che non combaciavano mai, come le conchiglie rotte che ti piaceva cercare sul bagnasciuga. Le mettevi dentro un cappello di paglia e poi ti sedevi vicina allo scoglio più grande per cercare di unirle. Ma non ce l’hai mai fatta. Non sei mai riuscita a trovare due metà esatte di un unico guscio. E neanche il tuo incastro nel mondo.
Vorresti dirglielo, adesso. Adesso che non parla e non apre più gli occhi. Adesso che non sai se sente quello che dici. Vorresti chiederle se esiste davvero l’altra metà di se stesse, se lei ha trovato la sua; se esiste una formula magica per sentirsi intere, magari anche un poco sicure, e non solo frammenti spezzati di cose perdute che non si ritrovano mai.
Ti basterebbe una carezza, una sola, anche senza parole, pensi. Ti basterebbe sentire le sue mani sul viso, le sue labbra sulla tua fronte, ancora una volta, come quando eri piccola e lei ti sussurrava quella frase, sempre la stessa, “Sogni d’oro, amore mio”, prima di spegnere la luce e andare a dormire. Le confideresti che è il ricordo più bello che conservi di lei, insieme al suo modo gentile di toccare le cose e al profumo dolce e caldo della sua torta all’arancia, la mattina al risveglio, nella cucina bianca, luminosa, grande.
Quante volte l’hai odiata, qualche anno dopo, però, quella stessa cucina, quella torta all’arancia, persino tua mamma, in grembiule e truccata, con i capelli sempre impeccabili, le unghie lunghe, tonde, laccate. E quanto ti è sembrata piccola e stretta quella finestra, troppo lucido e pulito, quel maledettissimo vetro, per poterci passare dentro e scappare. Sembrava uno specchio: rifletteva i tuoi occhi castani che non brillavano più, il tuo viso che sembrava allungarsi un poco ogni giorno e diventare sottile, pallido, e quel bruttissimo neo in mezzo alla guancia, poi, che avresti voluto nascondere, quella tua voglia di essere altrove senza sapere dove e perché. Ti infastidiva persino la bustina celeste del lievito: quella bambina bionda, le sue treccine rosse, il suo sorriso mentre impastava i dolci, come tua madre. Tutto ti sembrava un’immensa, noiosa bugia, anche l’albume delle uova che si montava a neve. Affondavi con fastidio e rabbia la forchetta nei tuorli, quasi a volerli ferire. Trattavi male tua madre, usando parole insinuanti, taglienti, anche senza capirle. Non c’era carezza delle sue mani che potesse addolcirti, placarti. Non più. Avevi smesso di aspettare, impaziente, che indossasse i guanti per sfornare la torta e te ne servisse una fetta sul piatto, come faceva quando eri ancora all’asilo. Tornavi subito in camera tua e te ne stavi rinchiusa, con la serranda abbassata, per ore, a leggere le sue riviste e i suoi romanzi d’amore, anche se non avevi ancora l’età per capirli.
Eri in quarta o quinta elementare, difficile a dirsi, ora, ma forse anche inutile, credi. Eppure continui a pensarci. Rosso, verde, giallo: non riesci nemmeno a ricordare il colore del fiocco sul grembiule (bianco) che tua madre stirava per te ogni mattina. Ti aiutava a indossarlo: infilava i bottoni dentro alle asole, uno per uno, con una lentezza che frenava la tua smania di correre verso scuola con le tue amiche; e poi, come ultimo gesto di un rito che si ripeteva uguale ogni giorno, ti sistemava per bene il colletto col pizzo, poco prima di uscire di casa. Doveva essere tutto perfetto. Compreso il fazzoletto di stoffa, ancora caldo di ferro da stiro e piegato più volte a formare un quadrato, da custodire nella tasca di destra.
Non c’era increspatura che sfuggisse al controllo delle sue mani precise, non c’era macchia che potesse insinuarsi e sporcare i tessuti. Niente doveva essere fuori controllo, fuori dal suo controllo. Ti rendeva nervosa, sempre di più, la sua ossessione per la pulizia, per l’ordine. Le sue fobie, le sue fissazioni, poi: le lenzuola per coprire il divano, per non consumarlo, da togliere solo quando venivano ospiti; le bambole e le costruzioni sopra gli armadi per lo stesso motivo, «perché le rovini», «perché ogni volta ne perdi un pezzo e non lo ritrovi». Come se tutto dovesse restare uguale, non cambiare, non invecchiare. Come se il tempo dovesse fermarsi per conservare le cose intatte per sempre.
Una vita da tenere in vetrina, spolverata e splendente, chiusa a chiave, come le sue statuine in cristallo, le sue bottigliette di profumo mignon che era vietato aprire, annusare, o anche solo toccare. Una vita da guardare. Senza viverla, senza sciuparla, per paura di perderla. «Non correre», «Non urlare», «Non saltare», «Non fare»: la lista infinita dei suoi divieti, ripetuti come una cantilena. E le sue urla. Le sue urla isteriche quando tornavi a pranzo tutta sporca di fango o con le scarpe nuove, lucide, graffiate sopra le punte. «Sembri un maschiaccio!» gridava, col viso prima rosso e poi viola. «Scommetto che Serena non si è ridotta in questo modo. Lei sì che sa come ci si comporta.»
Serena, già. La tua amica del cuore, quando ancora vivevate in paese. Quanto era bella, Serena, pensi, con i suoi boccoli biondi, gli occhi celesti e la fossetta che le spuntava sulla guancia sinistra quando rideva.
“Mamma, te la ricordi Serena?” vorresti chiederle. Per strapparle un sorriso, così inconsueto e prezioso, per vederlo ancora un’ultima volta, come quando invitavi la tua amica a casa per fare i compiti e tua madre vi portava la merenda in camera, sopra il vassoio di legno: cioccolata calda con panna montata e biscotti a forma di cuore, appena sfornati, ricoperti di zucchero a velo. Entrava con un viso radioso, felice, ancora di più nel vedervi sedute composte a risolvere problemi e operazioni sui vostri quaderni a quadretti, senza orecchie e senza quelle cancellature che la facevano andare su tutte le furie quando ti controllava i compiti e ti costringeva a strappare le pagine per riscrivere tutto, finché non c’era più neanche un errore.
Se la ricorderebbe, eccome, Serena. La sua figlia mancata, quella precisa, ubbidiente. Quella che usava per fare paragoni impossibili. “Non hai un minimo di grazia” ripeteva ogni volta che sbagliavi qualcosa. “Mica come Serena.” E sì, mica come Serena, che quando le chiedevano cosa volesse fare da grande rispondeva che voleva trovare un marito ricco, anche non bello, e vivere da signora, in città, con tre o quattro figli biondi come lei e la domestica a occuparsi di loro, in una villa enorme, in centro, con il giardino e due statue di aquile davanti all’ingresso.
Chissà che fine ha fatto Serena, ti chiedi, vorresti chiedere a tua madre. Chissà se ha trovato l’uomo che cercava o se alla fine ha deciso di rimanere da sola. Chissà se è andata davvero in città o se vive ancora nella casa a due piani della sua famiglia, a Sa Muragessa, quella con la facciata non ancora finita e il tralcio di vite sospeso sopra il balcone, come un piccolo ponte sul cielo, dove hanno abitato la nonna e le zie non sposate, tutte insieme, fino a più di cent’anni.
L’ultima volta che l’hai vista piangeva su un marciapiede, dentro il suo cappotto arancione, muovendo la mano coperta dai guanti blu notte, al freddo, sotto la neve, mentre ti vedeva partire su quella corriera che non ti avrebbe più riportata da lei. Tu la guardavi dall’alto, in ginocchio sopra il sedile, con la testa appoggiata sul vetro appannato. Piangevi, ma pensavi che saresti tornata.
Non è successo.
Non hai più sentito né visto nessuno.
Chissà se anche lei si ricorda di te, di tua madre.
Chissà cosa ricorda, se ogni tanto ti pensa, vi pensa, o se ha smesso di farlo ormai tanti anni fa.
Senti un piccolo vuoto, come quando ti manca qualcosa ma non sai bene cosa, come quando desideri essere ciò che non sei o in un posto lontano che hai amato tanto. Pensi per un solo momento, un attimo appena, a come sarebbe stata diversa la vita se non fosse morto tuo padre, se non fossi partita. Pensi che strano sarebbe rivedere Serena, farti rivedere da lei. Forse non vi riconoscereste. Sarà cambiata, pensi. Sei cambiata, ne sei certa. I capelli, la pelle, i gusti, l’altezza, i denti, i pensieri, il tuo modo di vedere le cose, le persone, te stessa. Potresti essere un’altra, adesso, una sconosciuta. E lei lo sarebbe per te. Ti chiedi dietro quale albero storto si sono nascoste quelle bambine che giocavano nel piazzale della chiesa, la domenica sera, lanciando piccoli sassi sui numeri bianchi scritti col gesso per terra e saltando con una gamba per arrivare alla fine del giro. Vorresti sapere quando e come sono finite quelle giornate che volevi non terminassero mai. Ti chiedi dov’è finita tutta quella bellezza. Dove sono finiti lo scorrere lento e veloce del tempo, la sua inconsistenza, i tuoi sogni che sembravano veri. Dove sono finiti tuo padre, tua madre, la loro bambina. Ti sembra che non sia mai esistita, quella bambina, e che tutto sia solo un racconto confuso, parole senza contorni, pennellate distratte su tele sbiadite. Come quelle sul quadro che ti sorprendi a fissare, adesso, oltre il cuscino e i capelli grigi, arruffati, di questa donna che è ancora tua madre. Il quadro con la cornice dorata, quello con le case sparpagliate e i comignoli alti, le strade sterrate, i cortili deserti, la ruota di un carro appoggiata a un cancello, le ombre, le assenze e i silenzi.
Gli stessi silenzi di quell’ultima estate nella casa in campagna dei tuoi nonni paterni, sotto i tacchi calcarei di Jerzu, con tuo cugino Marcello, a inseguire cavallette e lucertole, tra rosmarino e basilico, sotto il sole che bruciava le piante e la pelle; a staccare pomodori maturi dall’orto per succhiarli e mangiarli ridendo senza farvi vedere dai grandi; e poi ad aspettare svegli, fino a tardi, che le volpi si avvicinassero, sotto la luna, nei giorni più secchi, per bere un po’ d’acqua dalla vostra ciotola in latta. Guardavate stupiti, nascosti, in silenzio, la mamma e i suoi cuccioli, come si guardano le pietre preziose, come se fossero animali incantati, usciti per voi dalle storie che vi raccontava nonna Marisa dopo cena, sotto il loggiato, poco prima che il buio calasse sopra la vigna e trasformasse le ortensie in castelli altissimi di petali e foglie.
Avevi undici anni e il seno che iniziava proprio in quei giorni a gonfiare il pigiama e premere sul materasso, di notte, fastidioso e duro, prima solo a sinistra, poi anche a destra: un corpo nel corpo che spingeva da dentro e chiedeva più spazio. Cominciavi a sentirti goffa, impacciata, diversa. Sentivi gli occhi degli altri frugarti, anche quelli di Marcello, che prima era solo il tuo compagno di giochi. Sentivi i tuoi occhi guardarlo in maniera inconsueta.
Ci fu il primo bacio, quasi per caso, e poi il secondo, il terzo. E i sensi di colpa, pensando al peccato da non dover confessare a nessuno. La paura di essere stati visti. Gli imbarazzi anche solo a parlarsi, dopo quel giorno. Niente più corse. Niente più incursioni nell’orto. Ognuno per conto suo: tu a leggere, lui a far finta di cercare cinghiali dentro la mac...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ritratto di donna
  4. movimento #1. [chiaroscuri e colori]
  5. movimento #2. [cornici e luci]
  6. movimento #3. [riflessi]
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright