La gondola si fermò accanto a un molo, e Mondino scese con cautela, attento a non fare movimenti bruschi. Il sole era già alto nel cielo ma non si vedeva, nascosto da una cappa di nuvole biancastre. Mondino, con un carattere collerico dominato dalla bile gialla e quindi dall’elemento fuoco, si sentiva a disagio in mezzo a tutta quell’acqua. Era stato costretto a dormire vestito, per difendersi dalla cappa umida che di notte avvolgeva Venezia come un sudario, e si era svegliato tardi, di cattivo umore e niente affatto riposato.
Raggiunse a piedi piazza San Marco, passando per calli strette dove ogni tanto un nobile a cavallo costringeva tutti ad appiattirsi contro i muri delle case per lasciarlo passare. Usare i cavalli a Venezia era un’ostentazione inutile, ma ai nobili, in qualsiasi città , piaceva fare cose prive di senso pur di farsi notare.
Prima di cominciare ad attraversare la piazza per il lungo si rassettò i vestiti. Anche se si era finalmente cambiato, scegliendo una semplice veste nera lunga fino ai polpacci, era consapevole di non fare una buona impressione, con le scarpe sempre un po’ bagnate e il mantello nero da viaggio cosparso di fili di paglia usciti dal materasso della locanda, come se avesse dormito in una stalla.
La città sembrava prepararsi a qualche evento importante, che non poteva essere solo lo Sposalizio del Mare o l’esecuzione del povero Eleazar. Tra le botteghe e i banchi all’aperto, c’erano file di palchi di legno che sembravano delimitare un percorso che conduceva verso la basilica. Guardando la chiesa in fondo alla piazza, la prima cosa che catturò il suo sguardo furono i quattro grandi cavalli di bronzo dorato e argentato, trasportati per mare dall’ippodromo di Costantinopoli e in seguito collocati sopra il portale centrale della chiesa. Ne aveva sentito parlare, ma non immaginava nulla del genere.
La facciata sormontata dai cavalli era uno spettacolo barbaro: un accumulo di tesori razziati, di statue, guglie, pilastri e mosaici lontanissimo dalle facciate in mattoni rossi o al massimo in marmo bianco delle chiese di Bologna. L’impressione prevalente che restava nell’animo non era la potenza della chiesa di Cristo, ma quella di Venezia e dei veneziani.
Il colpo d’occhio era reso ancora più strano dagli stendardi agitati dal vento, che operai arrampicati in posizioni pericolose erano intenti ad appendere dappertutto, sfruttando ogni sporgenza: mani di statue, riccioli di marmo, punte di ferro.
Mondino voleva parlare con il mendicante che aveva rinvenuto i corpi dei tre bambini crocifissi. Qualche informazione di prima mano era essenziale, se voleva sperare di capire abbastanza di quella faccenda da poter aiutare Davide e suo padre. Arrivato nel punto in cui la piazza incrociava la piazzetta più piccola che dava verso i moli, si guardò intorno con circospezione. Sapeva di correre un grosso rischio e l’unico modo per evitare guai era quello di stare molto attento.
A un tratto vide Gradenigo, immobile con le mani sui fianchi, quasi nello stesso punto del giorno prima, e sentì il cuore saltare un battito.
Per fortuna era intento a sorvegliare la costruzione di altre due forche, sempre tra le colonne di San Marco e San Todaro, e gli dava le spalle. La gabbia appesa al campanile era vuota. Mondino esitò. Se si fosse fatto arrestare non avrebbe potuto aiutare nessuno, neppure Adia. Tuttavia non sapeva quando il nobile sarebbe andato via, perciò decise di provare ugualmente a fare ciò per cui era venuto. Si trattava solo di stare attenti e di non avvicinarsi troppo. Con tutta la gente che affollava la zona, era improbabile che Gradenigo lo vedesse.
Indietreggiò fino a mettere tra loro la mole del palazzo che faceva angolo tra le due piazze contigue, e chiese indicazioni a un venditore di pesce fritto, il quale puntò un dito ossuto verso un ometto che fissava la facciata con aria attenta, come sorvegliando il lavoro degli operai.
«È quello là » disse, con un accenno di sorriso. «In questi giorni lo cercano tutti, è più famoso del doge.»
Il mendicante era piccolo e magro, sui trent’anni, vestito di stracci, ma in un modo che gli conferiva una specie di bizzarra dignità . Era coperto da una tunica al ginocchio e da qualcosa di simile a un mantello sporchissimo, stretto in vita da una cintura di stoffa. Un pezzo di tessuto arancione, arrotolato in testa alla foggia orientale, gli dava un’aria più da saraceno che da cristiano.
«Agostino di San Marco?» chiese Mondino, avvicinandosi.
L’uomo si voltò. Era ossuto e più basso di lui di tutta la testa, turbante compreso. «Per servirvi, messere» disse, inchinandosi con un gesto fiorito della mano. «Volete sapere anche voi del ritrovamento miracoloso di quei poveri bambini?»
«Miracoloso? Perché?»
Agostino sorrise con la bocca sdentata e con gli occhi. «Il miracolo è che sono sopravvissuto a quella vista, messere» disse. Mondino fece un passo indietro a causa della puzza che emanava dai suoi vestiti, e il mendicante continuò: «Vi racconto tutto per bene, se volete. Ma non a pancia vuota».
Capita l’antifona, Mondino lo invitò dallo stesso venditore di pesce a cui aveva chiesto indicazioni. Anche lui aveva fame, e prese una porzione della stessa cosa che ordinò Agostino.
Il venditore mise loro in mano due spicchi di una specie di torta di pesce, e quattro o cinque gallette ciascuno. Poi si spostarono verso una mescita all’aperto a pochi passi di distanza. Chiesero due boccali di bianco e cominciarono a mangiare in piedi. Mondino ebbe l’accortezza di mettersi sopravvento rispetto al mendicante, prima di assaggiare il cibo, con un po’ di diffidenza. Il sapore salato del pesce era addolcito da cipolle, uva passa e pinoli, con un effetto niente affatto spiacevole.
«Sarde in saor» disse Agostino, a bocca piena. «È un piatto che abbiamo importato da Costantinopoli, adattandolo al nostro gusto e migliorandolo.»
«È ottimo» disse Mondino, non appena ebbe inghiottito il primo boccone.
«E questi si chiamano bussolai» disse il mendicante, sollevando uno dei biscotti secchi. «È un cibo da mar, che occupa poco spazio e dura molti giorni.»
«Parli in modo molto corretto per… uno della tua condizione» disse Mondino.
L’altro annuì più volte, continuando a masticare. «Ho studiato» spiegò. «Dovevo farmi frate mendicante, poi sono diventato solo mendicante. Troppa fatica essere frate. Allora, volete che vi racconti la storia del ritrovamento?»
«Certo, comincia pure e non saltare nulla.»
Agostino si lanciò in una rievocazione colorita, piena di momenti di tensione e pause drammatiche create ad arte, in cui beveva un sorso di vino dal boccale.
Arrivato al momento in cui si era reso conto che stava guardando i corpi di tre bambini crocifissi, e non un mucchio di rottami portati a riva dall’acqua alta, concluse: «San Marco in persona deve essere intervenuto per fare in modo che capissi a poco a poco. Altrimenti forse sarei impazzito dall’orrore».
Mondino bevve a sua volta un lungo sorso di vino. Quel piatto salato metteva una discreta sete. «Sei certo di avermi detto tutto?» chiese poi.
«Sono certo di non avervi ancora rivelato la cosa più importante» rispose Agostino, con un sorriso furbo. «Per quella non basta il vino, ci vuole una moneta.»
Mondino se lo aspettava. Tirò fuori due delle monete più piccole che gli aveva dato il cambiatore e gliele mise in mano. «Spero proprio che ne valga la pena» disse.
«Non ve ne pentirete» disse il mendicante. «E poiché mi siete simpatico vi accompagno di persona, invece di mandarvi da solo.»
«Accompagnarmi dove?»
Agostino vuotò il boccale di legno, lo posò sul banco di mescita e rispose con una strizzata d’occhio, indicando davanti a sé: «In chiesa».
Per entrare nella basilica era necessario attraversare la parte della piazza in cui c’era il rischio di essere visti da Gradenigo. Mondino tuttavia non desiderava spiegare al mendicante i suoi problemi, per cui si incamminò deciso, fidando nella sorte ed evitando di voltarsi dalla parte del nobile. Sapeva per esperienza che fissare qualcuno alle spalle era il modo più sicuro per farlo voltare.
Durante il breve percorso dal banco di mescita alla chiesa, Agostino gli illustrò la provenienza delle varie opere, come i pilastri acritani e il gruppo in porfido rosso dei tetrarchi, incastrato in uno spigolo della facciata. Tutti e quattro i personaggi della scultura avevano la mano sinistra sulla spada.
«C’è chi dice che in realtà siano quattro ladri trasformati in pietra» gli confidò in tono cospiratorio, con una finta noncuranza che tradiva un orgoglio smisurato per la sua città . Solo quando entrarono dal portale di Sant’Alipio, sormontato da un mosaico che descriveva l’ingresso del corpo di san Marco nella basilica, avvenuto secoli prima, Mondino tirò il fiato.
Appena superato il nartece fu sopraffatto dallo splendore di ori e mosaici sparsi dappertutto, e non prestò più attenzione alle spiegazioni di Agostino. Mentre camminava lo vide indicargli l’ambone delle reliquie, da cui il doge neoeletto si mostrava ai veneziani prima dell’acclamazione pubblica in piazza, e il presbiterio con l’altare maggiore, ma la sua attenzione a un tratto fu assorbita da tre fagotti adagiati l’uno accanto all’altro su una specie di letto allestito nella cappella a sinistra del presbiterio. Dovevano essere i corpi dei bimbi uccisi, rimossi dalle croci alle quali erano stati inchiodati. Erano coperti da un sontuoso drappo di seta damascata rosso e oro, che aveva anche la funzione di assorbire i liquidi della decomposizione.
Per coprire l’odore erano stati utilizzati almeno una decina di incensieri in marmo e in metallo, che ondeggiavano appesi a lunghe catene, diffondendo fumi aromatici così spessi da dare alla cappella l’apparenza incerta e tremolante di una visione nella nebbia.
«Non li avete ancora sepolti!» esclamò Mondino. «Davide… Cioè, mi è stato detto che i corpi sono stati ritrovati…»
«Quattro giorni fa» disse Agostino, in tono solenne. «Ma chi li ha visti dice che sono ancora come li ho trovati io. Un altro miracolo.»
Mondino scosse la testa senza dire nulla, non sapendo cosa pensare di quell’esibizione.
«Dopo quello che hanno passato» proseguì il mendicante «al popolo di Venezia non sembrava giusto consegnarli al riposo eterno senza una benedizione speciale.» Il suo tono tradiva la rassegnazione fatalista di chi ha visto il lato meno bello della vita. «Comunque tutto dovrebbe risolversi entro tre giorni da oggi.»
«In che senso, risolversi?»
«Verrà il vescovo a benedirli e ci sarà una processione solenne. A questo servono tutti i preparativi che avete visto in piazza. Dopo la processione ci sarà una messa, quindi l’esecuzione dell’assassino tra le due colonne, Poi finalmente quei poveri piccoli saranno sepolti con gli onori riservati ai nobili, anche se non si sa chi sono.»
«Capisco» disse Mondino, cercando di mantenere un atteggiamento neutro. «E l’assassino ha confessato?»
«Ancora no» rispose il mendicante, con un’alzata di spalle. «Ma lo farà , state tranquillo. Se ne occupa Sua Eccellenza Vettor Gradenigo in persona, figuratevi.»
Lo disse come se il nome del nobile parlasse da solo, e a Mondino sembrò di comprendere perfettamente cosa intendesse. In quel momento, tuttavia, la sua mente era occupata quasi per intero da ciò che aveva davanti. Volgendosi indietro, vide che quella parte della basilica era deserta. Una volta entrato nella cappella, i preti e i fedeli presenti qua e là non avrebbero potuto vederlo.
Senza pensarci oltre, si avvicinò ai tre piccoli cadaveri, coprendosi con una mano naso e bocca, perché da vicino l’incenso non bastava a sopraffare l’odore greve della morte. Scostò il telo di broccato e guardò senza arretrare. Il cibo gustoso che aveva appena mangiato gli tornò su con un sapore acido, e ci volle tutta la forza accumulata in anni di consuetudine con i cadaveri per tenerlo nello stomaco. Vomitare in chiesa sarebbe stato un peccato grave.
La carne era gonfia e spaccata, bianca come quella dei pesci in alcuni punti, scura e purulenta in altri. La decomposizione tuttavia non era molto avanzata, e dall’odore agliaceo che emergeva tra gli altri Mondino capì subito il perché.
«Sono stati immersi in un bagno d’arsenico» mormorò. «Altro che miracolo.»
Era un sistema per rallentare la decomposizione, usato di solito per le salme degli alti prelati, che restavano esposte giorni e giorni alla vista del pubblico prima della sepoltura.
«Arsenico e latte di calce» precisò Agostino, alle sue spalle.
«Allora lo sapevi» esclamò Mondino, voltandosi di scatto.
«Ho fatto studi teologici, ve l’ho detto» replicò il mendicante, con un sorriso furbesco. «Ma alla gente fa bene credere in questi piccoli miracoli.»
«Farebbe bene anche a me» replicò Mondino, chinandosi a esaminarli da vicino. «La loro non è stata una morte rapida.»
«Lo dite perché sono stati crocifissi?»
«Lo dico perché questi segni violacei che ancora si distinguono sulla pelle sono tracce di scudisciate, inferte quando erano già inchiodati alle croci. Anche la ferita al costato non era mortale. Serviva per dissanguarli, non per ucciderli.»
Agostino lo fissava a bocca aperta, gli occhi spalancati dalla sorpresa. «Come fate a sapere tutte queste cose?»
«Sono un medico» rispose Mondino, stringendosi nelle spalle.
Aveva visto abbastanza. I segni delle scudisciate si interrompevano sui fianchi, perché quando erano state inferte la schiena dei bimbi era già pressata contro il legno della croce. In quanto alla ferita, era troppo in basso per uccidere sul colpo. Se l’autore di quello scempio avesse vol...