UniverseCity109.982 visualizzazioni
In pericolo. Impossibile lasciare Universe City. Aiutatemi.
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Ciao.
Spero ci sia qualcuno in ascolto.
Invio questo messaggio via radio – un mezzo di comunicazione ormai obsoleto, lo so, ma forse uno dei pochi che la Città ha dimenticato di monitorare – per trasmettervi un cupo e disperato grido d’aiuto.
Le cose a Universe City non sono come sembrano.
Non posso dirvi chi sono. Chiamatemi… vi prego di chiamarmi solo Radio. Radio Silence. Dopo tutto, sono solo una voce via radio, e potrebbe non esserci nessuno ad ascoltarmi.
Mi chiedo: se nessuno ascolta la mia voce, sto comunque facendo rumore?
[…]
«Lo senti anche tu?» disse Carys Last, fermandosi davanti a me così all’improvviso che quasi le finii addosso. Eravamo alla stazione, sulla banchina. Avevamo quindici anni ed eravamo amiche.
«Cosa?» risposi io, perché non sentivo niente a parte la musica che usciva da un auricolare. Probabilmente gli Animal Collective.
Carys rise, cosa che non succedeva molto spesso. «Hai la musica troppo alta» disse, tirandomi via le cuffiette con un dito. «Ascolta.»
Restammo immobili ad ascoltare e ricordo ogni singola cosa che ho sentito in quel momento. Lo sferragliare del treno da cui eravamo appena scese che si allontanava dalla stazione, diretto al cuore della città. Il controllore ai tornelli che spiegava a un uomo anziano che il rapido per St. Pancras era stato cancellato causa neve. Lo stridio lontano del traffico, il vento sopra le nostre teste, lo sciacquone del gabinetto della stazione e “Il treno delle – 8:02 – per – Ramsgate – è in arrivo al binario – uno”, la neve che veniva spalata via e un camion dei pompieri e la voce di Carys e…
Fuoco.
Ci girammo e osservammo la città davanti a noi, smorta e innevata. Di solito si riusciva a vedere la nostra scuola da lì, ma quel giorno era coperta da una nuvola di fumo.
«Come abbiamo fatto a non vederlo dal treno?» chiese Carys.
«Io dormivo» dissi.
«Io no.»
«Non ci avrai fatto caso.»
«Be’, a quanto pare è andata a fuoco la scuola» disse, e andò a sedersi su una panchina. «Il desiderio che ho espresso a sette anni si è avverato.»
La fissai ancora per qualche istante, poi mi unii a lei.
«Pensi che siano stati quei deficienti?» domandai, riferendomi ai blogger anonimi che da un mese a quella parte avevano preso la nostra scuola di mira con scherzi sempre più feroci.
Carys fece spallucce. «Che importa. Tanto il risultato finale è lo stesso, no?»
«Che importa?» E fu in quel momento che iniziai a realizzare la portata dell’evento. «Mi sa… Mi sa che è una cosa seria. Ci toccherà cambiare scuola. Da qui sembra che le sezioni C e D siano andate… totalmente in fumo.» Mi rigirai la stoffa della gonna fra le dita. «Il mio armadietto era nella D. Dentro c’era l’album da disegno per il GCSE, il certificato di istruzione secondaria, di arte. Su alcune cose ho lavorato giorni interi.»
«Oh, merda.»
Rabbrividii. «Perché fare una cosa del genere? Hanno distrutto un sacco di lavoro. Hanno incasinato gli esami, sia GCSE sia A-level, a un botto di gente, e queste cose possono influire sul serio sul nostro futuro. Hanno letteralmente rovinato la vita a delle persone.»
Carys sembrò pensarci su. Schiuse le labbra come a rispondere, ma finì per chiuderle senza dire niente.
«Abbiamo a cuore la felicità dei nostri studenti e ovviamente il loro successo» disse la preside, la dottoressa Afolayan, di fronte a quattrocento genitori e studenti durante l’incontro genitori-insegnanti dell’ultimo trimestre del penultimo anno di liceo. Avevo diciassette anni, ero la rappresentante d’istituto, ed ero seduta dietro le quinte perché nel giro di due minuti sarei dovuta salire su quel palco a parlare. Non mi ero preparata il discorso e non ero nervosa. Anzi, mi sentivo molto compiaciuta di me stessa.
«Riteniamo sia nostro dovere nei confronti dei giovani dare loro le migliori opportunità che il mondo abbia da offrire.»
Ero riuscita a farmi eleggere rappresentante d’istituto l’anno prima, perché avevo usato come manifesto per la campagna elettorale una foto del mio doppio mento e infilato la parola “meme” nel discorso finale. Tutto ciò aveva trasmesso l’idea che non me ne fregasse un cazzo dei risultati, anche se in realtà era proprio l’opposto, e così le persone si erano sentite più inclini a votare per me. Non si poteva dire che non conoscessi il mio pubblico.
Nonostante ciò, non sapevo bene di cosa avrei parlato nel discorso di quel pomeriggio. La Afolayan stava già dicendo tutte le cose che mi ero appuntata cinque minuti prima sul volantino di un locale ripescato dalla tasca della giacca.
«Il nostro programma Oxbridge ha avuto particolarmente successo quest’anno…»
Accartocciai il volantino e lo lasciai cadere a terra. E va bene, avrei improvvisato.
Non era la prima volta che mi inventavo un discorso su due piedi, quindi non è che fosse poi questa gran cosa, e comunque nessuno se n’era mai accorto; nessuno si era mai neanche posto il dubbio. Avevo la reputazione di studentessa organizzata, diligente e brillante, le cui ambizioni includevano l’Università di Cambridge.
Ero intelligente.
Ero la studentessa migliore del mio anno.
Sarei andata a Cambridge, avrei trovato un buon lavoro, guadagnato un sacco di soldi, e sarei stata felice.
«E penso davvero» disse la preside Afolayan, «che anche il corpo insegnanti si meriti un applauso per il duro lavoro svolto quest’anno.»
Il pubblico applaudì, ma vidi un paio di studenti alzare gli occhi al cielo.
«E ora ho il piacere di presentarvi la nostra rappresentante d’istituto, Frances Janvier.»
Aveva pronunciato male il mio cognome. Vedevo Daniel Jun, l’altro rappresentante d’istituto, che mi guardava dal lato opposto del palco. Daniel mi odiava perché eravamo entrambi delle spietate macchine da studio.
«Da quando si è unita a noi, qualche anno fa, Frances è sempre stata una studentessa modello, e sono onoratissima che sia lei a rappresentare tutto ciò in cui crediamo qui. Oggi vi racconterà la sua esperienza qui, e vi esporrà i suoi piani per il futuro.»
Mi alzai, salii sul palco e sorrisi: mi sentivo alla grande perché ero esattamente dove avrei dovuto essere.
«Non hai intenzione di improvvisare per l’ennesima volta, vero Frances?» mi aveva chiesto mamma quindici minuti prima. «L’ultima volta hai finito il discorso alzando i pollici.»
Era in piedi accanto a me, dietro le quinte.
Mamma aveva sempre amato gli incontri con i professori, principalmente perché adorava gli sguardi sfuggenti e confusi che la accoglievano quando si presentava come mia madre. Questo perché lei era bianca e mio padre etiope, e per qualche ragione gran pa...