Una storia tra due città
eBook - ePub

Una storia tra due città

  1. 608 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Una storia tra due città

Informazioni su questo libro

Romanzo di enorme e duraturo successo, Una storia tra due città uscì dapprima a puntate, quindi in volume, nel 1859. Si tratta di un romanzo storico ambientato tra Parigi e Londra nei burrascosi anni che precedettero e seguirono la Rivoluzione francese. Tra le molteplici vicende umane che si intrecciano in queste pagine spiccano quelle di Lucie Manette, donna insieme dolce e coraggiosa, figlia di un uomo ingiustamente detenuto nella Bastiglia e da lei inizialmente creduto morto; di Charles Darnay, aristocratico francese espatriato in Inghilterra, indiscriminatamente accusato durante il Terrore; e infine dell'avvocato Sydney Carton, dall'ambiguo passato, cui viene offerto un inconsueto destino. Racconto avvincente e ricco di colpi di scena, Una storia tra due città vive anche di un raffinato impianto allegorico nel quale i luoghi e i personaggi rappresentano diverse istanze politiche e sociali, in una indimenticabile raffigurazione delle forze che muovono la Storia dell'uomo.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Una storia tra due città di Charles Dickens, Mario Domenichelli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Letteratura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804615286

LIBRO SECONDO

Il filo d’oro
1

Cinque anni più tardi

La banca Tellson, vicino a Temple Bar, era un posto all’antica, perfino in quell’anno millesettecentottanta. L’edificio era piccolo, era scuro, era brutto, e scomodo.1 Un posto all’antica anche per via di una peculiarità dello spirito dei soci per i quali l’angustia, l’oscurità, la bruttezza e la scomodità erano motivi d’orgoglio. E traevano motivo di vanto anche dal fatto che la banca avesse al riguardo una sorta di primato, assolutamente convinti che un aspetto migliore certamente ne avrebbe diminuito la rispettabilità. E non era una convinzione inerte: era un’arma vera e propria usata contro altre imprese d’affari d’aspetto più prospero. Alla Tellson, dicevano, non c’è bisogno d’altro spazio, né di luce, né d’altre migliorie. Quelle eran cose che andavano bene per Noakes & Co., o per la F.lli Snooks. La Tellson, beh… grazie a Dio…
E non ce n’era uno che non avrebbe diseredato il figlio se gli avesse posto il problema di ricostruire la Tellson. Da questo punto di vista la banca molto assomigliava al paese, visto che anche il paese non esitava a diseredare i suoi figli ogniqualvolta si provavano a suggerire migliorie di leggi e costumi considerati da tutti, e da tempo, riprovevoli, e perciò tanto più rispettabili. E così, alla fine, la Tellson era diventata il perfetto simbolo della scomodità trionfante. Bisognava lottare con una porta idiota nella sua ostinazione prima che questa si aprisse con una specie di rantolo agonico, quindi c’erano due alti gradini per i quali, dentro la Tellson, non ci si entrava, ci si stramazzava, e quando si riprendevano i sensi ci si trovava in una sorta di negozietto da quattro soldi, con due banchetti dietro i quali servivano dei vecchi decrepiti nelle cui mani gli assegni tremolavano come scossi dal vento mentre quelli ne esaminavano la firma alla poca luce di certe finestrelle sordide incessantemente sottoposte agli scrosci di fango schizzati dal traffico di Fleet Street, e rese anche più sordide dalle inferriate e dall’ombra incombente di Temple Bar. Se, per necessità d’affari, si doveva parlare alla «banca», come si diceva, ci si relegava in una sorta di cerchio dei dannati nel retro, dove si poteva con profitto meditare sullo sciupio della vita, finché «La banca» in persona non arrivava con le mani in saccoccia, e a malapena potevi vedere di chi si trattava in quella lugubre penombra. Quanto ai soldi, li si vedeva uscire o entrare da certi vecchi cassetti tarlati che facevano volare in aria e nella gola e nel naso nubi di polvere di legno ogni volta che li si chiudeva o li si apriva. E le banconote avevano uno sgradevole odore di muffa, come se stessero velocemente decomponendosi per ritrasformarsi in stracci. L’argento, poi, era conservato vicino alle latrine e, per un qualche maligno contagio, bastava un paio di giorni a corromperne la bella lucentezza. I documenti andavano ad accatastarsi in camere di sicurezza improvvisate ricavate da cucine e retrocucine, e trasudavano tutto il grasso della pergamena, in quell’aria spessa di banca. E le carte di famiglia nelle loro scatole andavano su in una sorta di stanza da Barmecidi,2 nel bel mezzo della quale per l’appunto troneggiava una gran tavola da pranzo che mai era servita allo scopo per la quale era stata creata. In quella stanza, ancora in quell’anno millesettecentottanta, alle prime lettere di un antico amore, o dei vostri bambini, ancora non era risparmiato l’orrore (solo di recente abolito) d’essere fissate con occhi amorosi attraverso i vetri delle finestre dalle teste tagliate ed esposte a Temple Bar con una brutalità insensata e una ferocia degne dell’Abissinia o dell’Ashanti.3
Del resto, al tempo, mettere a morte era un rimedio che trovava il favore di ogni professione e di ogni commercio, e la Tellson non faceva certo eccezione. La morte è il rimedio naturale per ogni cosa. E perché non dovrebbe esserlo anche a termini di legge? Di conseguenza il falsario era condannato a morte, e a morte era condannato anche chi emetteva assegni scoperti, e anche chi si permetteva di aprire una missiva a lui non indirizzata. E a morte era condannato anche chi rubava quaranta scellini e sei pence. E fu messo a morte il sorvegliante dei cavalli di fronte alla Tellson che se l’era svignata con una delle bestie, e uno che aveva coniato una moneta da uno scellino falsa anche fu condannato a morte, e insomma i suonatori di tre quarti delle note nell’intera gamma musicale del codice penale venivano condannati a morte.4 Non che questo avesse alcun effetto di prevenzione, anzi, a esser precisi, pareva quasi che l’effetto fosse contrario. Però risparmiava la seccatura di stare a distinguere fra caso e caso (in questa vita almeno) e, a ogni modo, era una cosa pratica e sbrigativa e dopo non rimaneva granché di cui doversi occupare. Così, anche la Tellson, ai suoi tempi, come del resto tutte le altre grandi imprese d’affari dell’epoca, di vite se n’era prese un bel numero, e se – invece di farle sparire con discrezione, dopo un po’ – quelle teste mozzate proprio di fronte alla banca fossero state messe in fila su Temple Bar, probabilmente avrebbero compromesso, e in modo piuttosto significativo, la già poca luce che riusciva a filtrare in quei suoi uffici nel seminterrato.
Incastrati fra cupe credenze e madie di ogni genere, alla Tellson, a mandare avanti gli affari c’erano solo dei vecchioni decrepiti. Quando si assumeva un giovane alla sede di Londra, lo nascondevano da qualche parte finché non fosse vecchio quanto bastava. Lo tenevano in qualche luogo buio, come il formaggio, finché non fosse stagionato a puntino. Solo quando aveva acquisito il tipico aroma Tellson insieme alle venature turchine di muffa, gli si permetteva di farsi ammirare mentre ponzava, attraverso gli occhiali, su certi grossi registri, contribuendo, con tanto di brache e ghette, al generale peso dell’istituto.
Fuori della porta della Tellson – mai dentro, a meno che non ce lo chiamassero per una qualche ragione – stava un uomo tuttofare, all’occasione portiere e fattorino, che funzionava anche da insegna vivente. C’era sempre nelle ore d’apertura, a meno che non fosse in giro per qualche commissione, nel qual caso si faceva sostituire dal figlio, un ragazzaccio di strada di dodici anni, orrendo, fatto e sputato il padre. Si dava per inteso che la Tellson, molto signorilmente, quell’uomo tuttofare lo tollerava; da sempre la banca aveva tollerato un tuttofare. Quello che c’era ora, a quel posto ci era arrivato col tempo e con la pazienza. Faceva Cruncher di cognome e, nella chiesa parrocchiale di Hounsditch, nell’Est londinese,5 in occasione della sua rinuncia infantile, per bocca del padrino, alle buie opere di Satana,6 era stato battezzato Jerry.
La scena era l’alloggio del signor Cruncher in vicolo della Spada Pendente, a Whitefriars;7 l’ora, le sette e mezzo di un ventoso mattino di marzo, Anno Domini millesettecentottanta. Il signor Cruncher l’anno del Signore lo chiamava sempre «Anna Domino». Era evidentemente convinto che l’inizio dell’era cristiana fosse da situarsi nel giorno in cui una certa signora aveva inventato quel gioco così popolare che prendeva dunque il nome da quello dell’inventrice.
Il quartiere in cui si trovava l’appartamento del signor Cruncher non era un granché. Erano due stanze, o tre, se si contava lo sgabuzzino con la finestrella vetrata; però erano tenute bene. Presto com’era, quel ventoso mattino di marzo, sul pavimento della stanza in cui il signor Cruncher dormiva era già stato passato lo straccio, e sul pesante tavolo, preso di seconda mano, era stata distesa una tovaglia bianca pulita sulla quale erano apparecchiati per la colazione tazze e piatti.
Dormiva, il signor Cruncher, sotto una coperta fatta di pezze di diverso colore, sicché pareva un arlecchino sorpreso nell’intimità domestica. Dormiva pesantemente, dapprincipio, poi, un po’ alla volta, iniziò a rigirarsi e ad agitarsi, finché non emerse dalla coperta, con i capelli ritti che parevano dover tagliare le lenzuola a strisce. Così, tirando fuori la testa, esclamò, con un tono duro, esasperato: «Mi venga un colpo, se non lo sta facendo ancora!».
Inginocchiata in un angolo c’era una donna che dava l’impressione di essere una creatura brava e ordinata; si tirò subito su, con l’aria apprensiva, perché chiaramente era lei la causa di quell’irritazione.
«E allora!» disse il signor Cruncher, cercando uno stivale sul pavimento, «te la vuoi fare finita, o no!?»
Dopo aver così, per la seconda volta, salutato il mattino, il signor Cruncher procedette al terzo saluto, tirando lo stivale contro la povera donna, ed era tutto sporco di fango, quello stivale, il che deve far riflettere su di una peculiarità dell’economia di casa Cruncher, quella per cui, nonostante il signor Cruncher tornasse a casa dal lavoro con gli stivali puliti, spesso si risvegliava al mattino trovandoli tutti infangati.
«Beh», disse il signor Cruncher, con una modulazione tonale, dopo aver fallito il bersaglio, «cosa ti credi di fare? Brutta iettatrice!»
«Dicevo solo le orazioni.»
«Le orazioni! Ah, bella roba! Cosa ti credi!? Metterti in ginocchio a pregarmi contro!»
«Mica ti pregavo contro, le dicevo per te le orazioni!»
«Eh no! Te mi pregavi contro. E comunque a me ci penso io, te fatti gli affari tuoi. Guarda un po’, che bella mamma che hai, Jerry, a pregarmi contro per buttarmi il malocchio. Proprio una bella mamma, figlio mio. Bella religione! Buttarsi in ginocchio a pregare che gli si tolga il pane di bocca al suo unico figlio.»
Il signorino Cruncher, in camicia da notte, la prese molto male, e anche lui cominciò a vociare contro la povera donna e quelle orazioni che gli portavano via il pane di bocca.
«Femmina, datti meno arie», disse il signor Cruncher senza rendersi conto dell’incoerenza di quel che veniva dicendo, «quanto valgono le tue orazioni, eh? A quanto le fai?»
«Col cuore, le dico, Jerry. È solo per questo che valgono.»
«Solo per questo, eh!» le rifece il verso, «mica tanto, eh! Comunque, stai attenta a non pregarmi contro. Mi ci manca solo questa. Non voglio che mi porti male, hai poco da fare la furba! Se proprio ti devi consumare i ginocchi, consumateli per fare un favore a tuo marito e a tuo figlio, mica per farci dispetto; l’avessi avuta una moglie non snaturata, e questo povero ragazzo una madre non snaturata, la settimana passata un po’ di soldi li avrei fatti; ma te no! Giù a darmi contro, con le tue orazioni, a fregarmi di mala sorte con la tua religione. Che mi pigli un accidente», il signor Cruncher, fra le imprecazioni, frattanto, si buttava indosso i panni, «se, a forza di orazioni, e tutto il resto, non m’hai fregato la settimana scorsa, una sfortuna che peggio di così a un povero cristo d’onesto commerciante non gli poteva andare! Dài, Jerry figlio! Vestiti, ragazzo mio! E tienla d’occhio mentre mi pulisco gli stivali e, se fa tanto di ributtarsi in ginocchio, chiamami. Perché, te lo dico io», e si rivolgeva ora alla moglie, «è ora di far basta. Mi scricchiolano tutte le ossa che mi par d’essere una carrozza da piazza e ho un sonno che neanche avessi bevuto il laudano, e ho un gran mal di schiena che, se non fosse per il dolore, non saprei nemmeno se sono io o un altro, e non ne ho cavato un soldo; io dico che sei stata te a darmi contro, dalla mattina alla sera, per farmi restare al verde; guarda che non lo sopporto, iettatrice! Capito?»
E continuò a mugugnare: «Eh già, te che sei tanto religiosa, anche! Te non ti metti contro gli interessi di tuo marito e tuo figlio, eh? No, macché!» e altre cose del genere, sprizzando scintille dal sarcasmo che veniva arrotando sulla vorticante mola della sua indignazione, mentre si dedicava alla pulizia degli stivali e si preparava per gli affari del giorno. Nel frattempo, il figlio, la cui testa era irta di aculei, anche se più teneri, come quella del padre, e i cui giovani occhi, come quelli del padre, si tenevano stretti alla radice del naso, faceva la guardia, come gli era stato ordinato, alla madre; e continuava a precipitarsi fuori dalla sua camera da letto, in realtà uno sgabuzzino, dove si stava lavando, per agitare la povera donna al grido soffocato di: «Eccola che si inginocchia! Oh babbo!». Dopo questo allarme lanciato per finta, riscompariva nello sgabuzzino, con un sogghigno senza alcun rispetto.
L’umore del signor Cruncher non era migliorato per niente quando sedette a far colazione. E ancora se la prese, con particolare animosità, con la signora Cruncher che voleva render grazie per il cibo quotidiano. «Ooh! ma allora non la vogliamo proprio fare finita, eh? Siamo sempre punto e daccapo!?»
La poveraccia stette...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Mario Domenichelli
  4. Nota al testo
  5. UNA STORIA TRA DUE CITTÀ
  6. Prefazione
  7. Libro primo
  8. Libro secondo
  9. Libro terzo
  10. Note
  11. Copyright