«E quindi quante copie abbiamo venduto?»
«Poche, Fede...»
«Poche quante?»
«Cinquecento.»
«Ma è impossibile!»
«È possibile, Fede. Ma guarda che è un ottimo risultato. Ti ho mandato il rendiconto ufficiale delle vendite per e-mail.»
Aprii il file. In basso a destra compariva la scritta: “Totale copie vendute: 498 – Netto da liquidare: € 632,90”.
Quel figlio di puttana dell’editore mi stava sicuramente nascondendo qualcosa. Ci avevo messo tutto me stesso in quel libro. Era inammissibile che in un anno avessi guadagnato solo quattro spicci. Quel bastardo non lo aveva pubblicizzato abbastanza oppure aveva manomesso il rendiconto ufficiale. Per forza. Non c’erano altre spiegazioni. Io avevo scritto un capolavoro.
Nell’immediato, però, la scritta “Netto da liquidare: € 632,90” voleva dire soltanto una cosa: ero ancora povero e dovevo ancora andare a lavorare.
Al President Palace Resort, per la precisione. Una catena di alberghi con strutture in tutta Italia. Avevo trovato quel ruolo da responsabile della reception grazie a una vecchia conoscenza e, se fare il direttore di un albergo mi faceva cagare – questa era stata la mia ultima mansione –, nessuno può immaginare quanto mi facesse cagare essere stato degradato a responsabile della reception. In aggiunta a questa mia insoddisfazione, dopo sei mesi passati tra prenotazioni, check-in, check-out e rotture varie, arrivò l’inculata.
Arrivò d’estate, un trasferimento non voluto. Nel Sud Italia, per giunta.
Avevo avuto dei dissidi con Big Boss e lo stronzo aveva scritto una lettera in burocratese che ai miei occhi suonava tipo: “Se vuoi continuare a lavorare per il President Palace Resort ti farò soffrire molto affidandoti un incarico di merda in terronia, capito, schiavo?”.
Dalle sue parole formali sembrava che l’esperienza nel meridione fosse estremamente qualificante. Peccato che nel settore del turismo l’indennità di trasferta non esisteva e, quindi, avrei continuato a percepire il solito stipendio da povero, pur facendomi il triplo del culo.
Io non volevo perdere il contratto a tempo indeterminato e, quindi, ci andai, sebbene era risaputo che in estate un sacco di stronzi di tutto il pianeta venivano a mettere le palle a mollo nei mari del Sud Italia e a farmi il dispiacere della loro presenza davanti al bancone della reception.
Il problema è che alla reception non puoi neanche rimorchiare. Per i baristi è più facile. C’è la musica, ci sono i drink, ci sono gli sguardi. Alla reception non c’è atmosfera.
Figuriamoci se la reception sta nel Sud Italia.
Io avevo origini meridionali, ma alcune disparità sostanziali erano evidenti.
Nel resort dove mi avevano mandato a lavorare, il wi-fi prendeva soltanto in alcuni punti, e ovviamente non nella camera doppia con bagno disabili uso staff che mi avevano assegnato in condivisione con un local terrone doc.
Per farmi una sega come si deve mi toccava mettere lo smartphone in mezzo al prato con l’hotspot personale attivo e connettermi al telefono con il tablet da dentro la stanza.
È in casi come questo che ti accorgi che il Sud sta indietro anni luce, cazzo. Seghe del genere sarebbero inimmaginabili su al Nord.
Il local terrone si chiamava Gianni ed era un lavapiatti notturno (al President Palace Resort la cucina era aperta giorno e notte). Se gli guardavi i denti era come se qualcuno li avesse scossi tra le mani a mo’ di dadi e glieli avesse lanciati in bocca. Era uno di quelli che, quando vedeva una donna, diceva, stupito: “Aja madonn’, hai vist’ quant’è bona chella signorin’?”.
Io mi giravo e nella maggior parte delle volte “chella signorin’” era una cicciottella di mezza età con le tette cascanti. Questo era Gianni. Però il terroncello fumava canne e aveva contatti che potevano reperirmi la marijuana, quindi era opportuno assecondarlo e provare a tollerare i reciproci difetti.
Per andare d’accordo bisogna dare e avere secondo un giusto equilibrio senza rompersi vicendevolmente troppo i coglioni.
Con Gianni accettavo persino di ascoltare quei discorsi che, in situazioni normali, non avrebbero superato il test d’ingresso dei dieci secondi. Se nei primi dieci secondi incipit e interlocutore non mi colpiscono, generalmente smetto di ascoltare, ma con Gianni avevo sempre un orecchio di riguardo anche quando parlava senza, di fatto, dire niente di utile per l’umanità.
Poi c’era un collega della reception che puzzava. Se n’erano accorti tutti. Era impossibile ignorare quel mélange di cane umido e latrina che proveniva dal corpo di quello schifo. Io lo avevo detto al direttore. Anche altri colleghi glielo avevano segnalato, ma nessuno trovava il coraggio di andare direttamente dall’uomo-discarica e dirgli: “Ehi bello, perché non ti lavi?”.
Era lui e soltanto lui il responsabile della sua puzza, in fin dei conti.
Alla fine, dopo un turno di lavoro dove avevo rischiato di vomitargli in faccia, mi presi la responsabilità di dirglielo io. Gli rivelai pure che non ero l’unico ad aver notato quel fetore. Quando realizzò che era la verità, si offese, diede le dimissioni e al suo posto fecero il contratto a una ventottenne non male di nome Marika Novarese. Un po’ bassettina, ma con un bel viso da cumshot e tutte le curve giuste.
Quando la presero pensai di avere fatto proprio bene a far scappare l’uomo-cassonetto. Ci avevano guadagnato tutti da quella sostituzione.
Io avevo soltanto agevolato il processo naturale per il quale le persone vecchie fanno spazio alle nuove.
La notte dell’arrivo di Marika non riuscii a dormire bene per via di una zanzara che, ronzandomi nelle orecchie, mi dava la conferma del fatto che quegli insetti non servono a un cazzo. Il giorno dopo avevo il turno di mattina, ma continuavo a rivoltarmi nel letto e a guardare l’orologio mentre quella puttana volante sibilava insistentemente nella stanza. Mi sembrava quasi che la sveglia avesse gli occhi da diavolo e parlasse in modo satanico: “Manca poco. Manca sempre meno al lavoro, schiavetto mio, e tu ci andrai senza aver chiuso occhio tutta la notte, muahahahahah”. La sentivo ridere dalla branda.
Quei pensieri allucinati e il male di vivere mi fecero svegliare involontariamente prima del tempo. Mi preparai e andai alla reception in anticipo. La frustrazione fu massima quando diedi il cambio al collega della notte mentre arrivavano i primi stronzi per i check-out.
Erano passati appena due minuti e già avrei voluto addormentarmi, ma purtroppo non si poteva. Non era permesso questo tipo di espressione della libertà individuale durante il lavoro. Mica i clienti potevano accettare queste cadute di stile. Sarebbero rimasti tutti sconcertati dalla poca professionalità di un quattro stelle, se il portiere si fosse messo a dormire dietro al bancone. Avrebbero fatto subito una delle loro belle recensioni del cazzo: “Il ragazzo pelato in turno la mattina ci ha russato davanti mentre siamo scesi a pagare la stanza. Sconsigliato”.
Trascorsi la mattinata cercando di rimanere in piedi, nascondendomi tra i miei tipici sorrisi falsi da receptionist.
Quando tornai in stanza, alla fine del turno, sentii Gianni scoreggiare mentre dormicchiava. La camera aveva un odore di scarpe tenute al chiuso e fumo di canna stantio.
In qualche modo Gianni si accorse che ero rientrato, si ridestò dalla semisonnolenza e disse: «Hai sentito che da domenica abbiamo come ospite tutto il corpo femminile di ballo di Dance Travel?».
«Cazzo se ho sentito» dissi, «non vedo l’ora di portare a termine il secondo obiettivo.»
Gianni allungò la mano sul comodino e accese uno spinello abbandonato a metà la sera prima nel posacenere. Poi disse: «Portare a termine cosa?».
«Il secondo obiettivo per poter restare in trasferta lontano da casa...»
«Cioè, cosa?»
«La figa, no?»
«Troppo vero» disse Gianni. «E il primo obiettivo qual era?»
Mi alzai e gli presi lo spinello dalle mani. «Qualcuno che procurava l’erba, amico. Eri tu il primo obiettivo, devi esserne onorato!»
Tutto il corpo femminile di ballo di Dance Travel sarebbe stato ospite da quella domenica al President Palace Resort. Per cinque giorni, duemila puttanelle fra i venti e i trentacinque anni avrebbero ballato, bevuto e cercato cazzo giorno e notte nell’albergo dove lavoravo.
Quella domenica sarebbe stata l’occasione per stabilire un contatto definitivo con il luogo in cui mi trovavo. Non rimanevo mai per troppo tempo in un posto se non venivano soddisfatti entrambi gli obiettivi.
I turisti si divertivano e noi dipendenti sgobbavamo. I turisti andavano al mare e noi dipendenti stavamo nelle cucine, nelle stanze, nelle reception, nei back office. A preparare da mangiare, a risolvere i problemi e a pulire la loro merda. E c’era un motivo per il quale noi ci trovavamo dalla parte dello spazzolone del cesso e i turisti, invece, dalla parte del manico. Il motivo era il denaro.
La libertà termina dove termina il saldo disponibile degli esseri umani. E se, come me, sei un essere umano povero come la merda, devi schiavizzarti e sgobbare per ricevere un salario di sussistenza. Invece, se sei un turista del President Palace Resort vuol dire che in linea di massima non te la passi poi tanto male.
In totale eravamo centotrenta dipendenti (animazione esclusa) contro circa duemila turisti pronti a romperti il cazzo a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Circa la metà del personale, incluso me, alloggiava e viveva all’interno del resort.
Il villaggio disponeva di: due piscine all’aperto, un campo da tennis in terra battuta, un campo da calcetto, due ristoranti, una pizzeria, quattro bar, un bazar, due negozi di prodotti tipici, una cartoleria, un tabaccaio, un infopoint, una reception, una spa e centro massaggi, un economato, un ufficio della direzione, un ufficio commerciale, un ufficio prenotazioni, una spiaggia privata, una palestra, un parco per bambini, un ufficio della governante, due lavanderie, quattro sale meeting e diverse aree comuni.
Solo l’idea di tutto il lavoro che stava dietro quell’agglomerato di stronzate mi faceva venire voglia di bermi una pinta di candeggina e farla finita.
Invece non sarei mai stato tanto coraggioso da uccidermi. Vivevo la mia prigionia.
Il President Palace Resort era una grande galera.
Il personale aveva le camere peggiori, ed erano tutte posizionate di fronte agli impianti dei condizionatori. Quelle camere non le potevano vendere agli ospiti perché tutti si sarebbero lamentati del rumore dei motori dell’aria condizionata, per questo le davano a noi stronzi del personale.
La mia cella era la 123. La giornata veniva scandita dal lavoro e dalle pause per i pasti.
Il cibo era uno schifo e le conversazioni tra i colleghi erano principalmente in dialetto e vertevano perlopiù sul calcio. Alcune volte parlavano di politica, ma nessuno ne sapeva realmente qualcosa. Erano tutti discorsi inconcludenti da provinciali poveri del Sud Italia.
Stando lì sentivo di non viverla, la vita. Sopravvivevo, e allora mi resi conto di avere bisogno delle donne. Il loro odore mi avrebbe aiutato a non pensare alla totale assenza di significato della mia presenza lì dentro.
Gianni invece non ci pensava a queste cose. Era venuto da Nicotera Marina al President Palace per lavorare dieci ore tutte le notti, dormire, lavarsi i vestiti nel piccolo lavandino della nostra camera e poi ricominciare. Sembrava fosse abituato a non avere nessuna comodità e sembrava non accorgersi del trascorrere inutile della sua esistenza.
In vita sua era stato soltanto a Roma per un weekend con un amico. Tutto il resto dei ventisette anni della sua orribile esistenza lo aveva trascorso a Nicotera Marina.
Si era sempre arrangiato con la droga e i lavoretti pagati in nero e, ora, sembrava contento di lavare i piatti di notte, avere vitto e alloggio gratis e una busta paga regolare.
Ogni sera, prima di iniziare il lavoro, prendeva una bustina di magnesio e potassio e tutte le volte lo vedevo che contava quante bustine rimanevano nella confezione (forse pensava che potessi rubargliele?). Poi si metteva il profumo: un profumo economico che era comunque sp...