Con il progetto di Tesla di una berlina elettrica di lusso prossimo al completamento, J.B. Straubel era passato al ruolo di supervisore nella creazione di una rete di ricarica tra San Francisco e il lago Tahoe, e tra Los Angeles e Las Vegas, per fugare i timori dei californiani di finire la carica mentre erano in viaggio. Un’analoga rete di cosiddette «stazioni Supercharger» stava prendendo piede in tutte le principali autostrade interstatali degli Stati Uniti. E quel giorno del 2013, a bordo del jet privato di Elon Musk diretto a Los Angeles, Straubel rimuginava sulle conseguenze delle ambizioni del suo capo per il futuro di Tesla.
Dal momento in cui l’azienda di auto elettriche aveva acquisito l’ex fabbrica di GM-Toyota a Fremont, Musk si era convinto che lo stabilimento potesse tornare a produrre 500.000 veicoli all’anno, obiettivo che aveva quasi raggiunto parecchi anni prima, all’apice del suo splendore.a Aveva detto a Wall Street che pensava che la domanda globale di Model S si attestasse sulle 50.000 unità l’anno, e che puntava alla stessa cifra anche per quanto riguardava i SUV Model X. Stando così le cose, al vecchio impianto restava margine per costruire qualcosa come 400.000 future Model 3, una cifra da capogiro per un’azienda che l’anno precedente aveva faticato a fabbricare anche una sola Model S, e che stava ancora avendo difficoltà a incrementarne la produzione.
Il collo di bottiglia erano principalmente le batterie. Tesla dipendeva dalla sola Panasonic per la fornitura delle migliaia di celle agli ioni di litio che venivano unite a formare il pacco batterie di ciascuno dei suoi veicoli. In base a un calcolo approssimativo di Straubel, per produrre auto al massimo dei ritmi dello stabilimento, a Tesla sarebbe servito un approvvigionamento annuale di batterie pari grossomodo a quante ne venivano costruite all’epoca in tutto il mondo. Problema più grosso: il prezzo. Ai tassi attuali, la società non poteva permettersi di vendere un’auto elettrica a 30.000 dollari. Malgrado tutto il lavoro fatto da Straubel e Kurt Kelty per abbattere i costi delle batterie, quello era ancora il fattore che impediva a Tesla di diventare un marchio generalista. Le celle avevano un costo stimato di 250 dollari per kilowattora, rispetto ai 350 del 2009.1 Il che significava che quelle contenute in un pacco batterie da 590 chili con una capacità di 89 kWh – obiettivo ragionevole per una berlina in grado di competere con il suo equivalente a benzina – sarebbero costate intorno ai 21.000 dollari.2 Era già una bella fetta del prezzo di listino previsto per la Model 3. Secondo gli analisti, le case automobilistiche avrebbero dovuto abbattere quella cifra portandola a più o meno un centinaio di dollari per kWh prima che il costo di fabbricazione di un’auto elettrica diventasse equiparabile a quello di una macchina tradizionale.
Discutendo di quei calcoli in aereo, Straubel e Musk si convinsero ben presto di una cosa: avevano bisogno di una fabbrica che sfornasse batterie solo per Tesla.3 Era l’unico modo per arrivare all’economia di scala cui aspiravano. Un’operazione del genere sarebbe costata miliardi, e per quanto l’azienda stesse avendo successo con la Model S, il suo saldo di cassa dopo i finanziamenti raccolti a inizio anno era poco meno di 800 milioni di dollari. Era previsto che quei soldi finanziassero sia la Model X sia la Model 3, e si stava facendo sempre più chiaro, all’interno della società , che il SUV sarebbe costato ben più di quanto promesso da Musk agli investitori. Anche con una fabbrica tutta sua, per sfornare miliardi di celle di batterie ogni anno Tesla aveva bisogno dell’aiuto di Panasonic. Non era un obiettivo semplice.
Oltretutto, la solita strategia di Musk non avrebbe funzionato. La Model S era stata un successo per critici e influencer, ma aveva fallito miseramente rispetto all’obiettivo dichiarato da Elon di costare 50.000 dollari. Per ora andava bene così; ma in futuro sarebbe stato diverso. Doveva costruire una macchina, in senso metaforico e letterale, che rendesse abbordabile la sua nuova auto. Nel ridurre le spese l’economia di scala sarebbe stata sua alleata, perché avrebbe distribuito i costi di produzione su più veicoli possibili. Il grosso del costo delle batterie derivava dalla fabbricazione; l’economia di scala poteva eliminare quella voce. Ma d’altro canto una produzione enorme richiedeva un rapido incremento delle vendite. Bastava sincronizzare quei due elementi – batterie e consegne – e sarebbe stata una riedizione del 2008 e del 2013, con nuovi passi da gigante per Tesla nel mercato.
La sfida non era elaborare qualche piano ingegnoso; la via da seguire era abbastanza chiara. Il difficile – più difficile di quanto nel 2013 chiunque avrebbe potuto prevedere – sarebbe stato attuarlo.
Il ruolo di Straubel nello sviluppo della tecnologia del pacco batterie che aveva consentito alle auto Tesla di funzionare era stato cruciale, al punto che Musk (e con lui tutta la letteratura aziendale) lo vedeva alla stregua di un cofondatore. L’aspetto ingegneristico era straordinario, ovviamente, ma tutto era dipeso anche dalla capacità di J.B. di convincere Panasonic a una stretta collaborazione con Tesla. Quello tra le due società era stato un rapporto burrascoso sin dall’inizio, e per farlo funzionare c’erano volute perseveranza e fortuna, per non parlare della scoperta fondamentale di Straubel nel 2006, quando a Panasonic aveva trovato Kurt Kelty.
Per la Roadster, tuttavia, Tesla aveva continuato a usare perlopiù batterie standard, mentre Straubel, con un occhio rivolto alla Model S, aveva voluto cambiare chimica e struttura delle celle per renderle più robuste e più adatte al mondo dell’automotive in generale. La domanda di celle sarebbe stata abbastanza ampia da costringere Panasonic a dedicarvi risorse aggiuntive. Oltretutto, la tabella di marcia di Musk era più serrata delle tempistiche cui l’azienda giapponese era abituata. Via via che le due parti definivano i termini dell’accordo, in seguito all’annuncio dell’investimento da parte di Panasonic nel 2010, Elon era sempre meno contento di quel fornitore.
Si era arrivati, come sempre, a discutere sul prezzo. E dopo un incontro particolarmente disastroso a Palo Alto, nel 2011, la partnership era sembrata a rischio. Per quanto Musk, anni prima, avesse assecondato il direttore finanziario Deepak Ahuja mettendo la cravatta per l’incontro preliminare con l’amministratore delegato di Toyota, stavolta aveva mostrato meno interesse ad andare incontro alle formalità di aziende giapponesi come Panasonic.4 E alla proposta di prezzo fatta dalla società sulle celle per la Model S, era andato su tutte le furie. «È una follia» aveva ribattuto. Si era arrabbiato moltissimo e aveva abbandonato precipitosamente la riunione. Mentre se ne andava, i suoi assistenti, compreso Straubel, avevano tentato di dirottarlo su un meeting con tutto il personale, dove diverse centinaia di dipendenti di Tesla erano riuniti in attesa di un aggiornamento da parte del loro CEO. L’avevano sentito mormorare tra sé e sé: «È un disastro. Non ce la facciamo». Si era voltato verso Straubel, gli aveva detto di fare l’incontro con lo staff senza di lui, e se n’era andato.
E così si era configurato un nuovo incarico per Straubel e il suo team: Tesla stava prendendo in considerazione l’idea di entrare nel settore delle batterie. Visto che Panasonic con le sue celle chiedeva troppo ed era troppo lenta, avrebbero provato a farsele da soli. Musk aveva cominciato a immischiarsi in prima persona nella squadra di Straubel, riassegnandone i membri al compito di allestire una fabbrica di batterie. Era una prospettiva sconfortante: alcuni neoassunti non erano neanche sicuri che facesse sul serio.
«Sì, cazzo, dico sul serio!» aveva tuonato un giorno dalla sua scrivania.
Ma al di là della questione dei costi, Panasonic aveva perfezionato per anni le proprie procedure di fabbricazione delle celle, dispositivi estremamente pericolosi, per i quali ci volevano ambienti puliti e tute speciali in modo da impedire che il materiale venisse contaminato. Tesla ancora stava provando a capire come usare i carrelli per spostare i telai delle Model S da una parte all’altra della sua vecchia fabbrica. Alcuni nel team avevano la sensazione che fosse un’impresa disperata. E dopo mesi di lavoro, con proiezioni di costi sempre più elevati, alla fine Musk aveva accantonato l’idea. Non erano pronti a un testa a testa con le Panasonic e le Sanyo di tutto il mondo. Ma non se n’era scordato del tutto.
Fuori dal radar di Musk, Kelty lavorava in segreto a un accordo con Panasonic che entrambe le parti potessero trovare accettabile. La rabbia di Elon alla fine si era spenta (il team di Straubel non aveva ben chiaro se si fosse lasciato convincere dalla logica dell’accordo o se banalmente avesse perso interesse, o se quello scoppio d’ira fosse stato una tattica di negoziazione). Nell’ottobre 2011, Panasonic aveva annunciato di aver siglato un contratto per produrre per Tesla celle sufficienti a costruire 80.000 veicoli nei quattro anni a seguire. Aveva garantito che nel 2012 ne avrebbe consegnate abbastanza per produrre più di 6000 berline Model S. Per soddisfare la domanda, avrebbe portato le catene di montaggio da una a due.
La tabella di marcia si sarebbe rivelata ancor più ambiziosa di quanto inizialmente richiesto da Tesla. Ma nel 2013 era ormai chiaro che la Model S era un successo, non soltanto per Tesla ma anche per Panasonic. Era il tipo di fenomeno di cui l’azienda giapponese aveva disperato bisogno dopo aver arrancato per tutto il 2012. Una decina d’anni prima aveva scommesso moltissimo sulla telefonia mobile e i televisori a schermo piatto. Ma la concorrenza di rivali cinesi più a buon mercato l’aveva portata a fallire in quelle imprese, con perdite di miliardi di dollari. Era stata quindi avviata una dolorosa ristrutturazione aziendale, durata molti anni e culminata con la nomina alla presidenza di Kazuhiro Tsuga, nel 2012. Questi aveva deciso di abbandonare i televisori e aveva tagliato decine di migliaia di posti di lavoro. Ma non era abbastanza; sapeva di dover indirizzare l’azienda verso nuovi settori di sviluppo.
La richiesta di più batterie per la Model S da parte di Tesla, nel 2013, arrivò per Tsuga proprio al momento giusto. Nel lungo periodo voleva trasformare il business automobilistico in una delle divisioni principali dell’azienda, e una partnership di spessore con Tesla sarebbe servita da biglietto da visita con altre case produttrici che volessero spingersi nel mercato delle auto elettriche.
Tsuga era ansioso di consolidare quel rapporto. Panasonic arrivò addirittura a chiedere a Tesla di incidere il nome del fornitore sul lunotto posteriore in cambio di un’iniezione di liquidità di 50 milioni di dollari. Musk non ne volle sapere. Tsuga nominò dei nuovi vertici nel reparto batterie, che si recarono a Palo Alto per incontrare lo staff di Tesla.
Musk era convinto che intendessero parlare di una riduzione di prezzo. Avrebbe avuto senso.
Le richieste per la Model S erano così tante che la neonata catena di assemblaggio di Tesla stava subendo un rallentamento in virtù del fatto che non aveva batterie per tenere il ritmo, e Musk stava spingendo per avere sempre più celle. Più lavoro avrebbe dovuto comportare uno sconto, in teoria. Ma, al contrario, i giapponesi in visita volevano alzare il prezzo. Probabilmente si trattava di una tattica di negoziazione tesa a far colpo sul nuovo CEO in patria, ma gli si ritorse spaventosamente contro, per usare un eufemismo. Musk si controllò quel tanto che bastava per non inveire contro i visitatori, cosa che invece aveva fatto in passato con altri fornitori. Però meditava vendetta.
L’indomani, un sabato, convocò il suo team nel quartier generale di Tesla con un ordine che conoscevano bene: si sarebbero fatti le batterie da soli. Stavolta, però, sarebbe stato diverso da ogni tentativo precedente. Se la Model 3 fosse stata un successo, Tesla avrebbe potuto non dipendere più totalmente da una terza parte, com’era stato con Panasonic sulla Model S. Quello che lui e Straubel avevano immaginato sul jet privato stava per diventare realtà .
Ma il solo fatto che Tesla non avrebbe acquistato le celle da Panasonic non significava che non ne volesse i soldi. Esattamente come nel 2006 l’azienda aveva beneficiato dell’assunzione di Kelty, stavolta stava per trarre vantaggio dalla presenza di un nuovo leader nelle file della società giapponese. Yoshi Yamada, dirigente anziano di Panasonic, aveva una visione degli affari più occidentale di alcuni dei suoi contemporanei, e tutta l’intenzione di scardinare i vecchi usi dell’azienda. Aveva contribuito a rivoluzionare le attività di Panasonic negli Stati Uniti, con uno stile di management più moderno, e aveva speso parecchio tempo a intrecciare rapporti nella Silicon Valley. Con l’avvicinarsi della pensione, nel 2011, all’età di sessant’anni, aveva iniziato a correre maratone; e durante le vacanze viaggiava per tutti gli Stati Uniti a visitare i campi di battaglia dell’epoca della guerra d’indipendenza.
Un trasferimento l’aveva riportato in Giappone, dove gli avevano assegnato il controllo dell’unità che comprendeva le batterie. In virtù di questo, aveva ereditato anche il rapporto con Tesla. Da responsabile della divisione statunitense, nel 2009 aveva visitato l’azienda nella fase in cui Panasonic stava iniziando a sondare la possibilità di una partnership. Prima d’allora Kelty l’aveva accompagnato diverse volte presso aziende di tecnologia, ai tempi in cui il dirigente americano era ancora a capo degli uffici della società giapponese nella Silicon Valley. Per cui, quando nel 2013 le pretese di Musk minacciarono di far deragliare le trattative, Yamada intervenne in prima persona per rimettere le cose in sesto. Fino ad allora i rapporti con la casa automobilistica erano stati gestiti come una faccenda di normale amministrazione del reparto batterie; nessun vertice dal Giappone vi era stato coinvolto. Yamada pensò che ci fosse bisogno di una maggiore supervisione.
Quell’autunno annunciarono una proroga del contratto. Per soddisfare le esigenze di Tesla per la Model 3 e per ovviare all’incapacità di Panasonic di gestire le nuove richieste, Yamada propose una joint venture tra le due aziende.5 A Musk non piacevano per niente accordi del genere, fondamentalmente una società al 50 e 50, con ambo le parti che si contendevano il controllo. Chiunque avesse mai lavorato per lui sapeva bene che non era incline alle spartizioni di potere. Ma a quel punto, Kelty e Straubel avevano già in pentola qualcosa per placare le preoccupazioni del loro capo.
Per Straubel era tempo di cambiamenti. Aveva conosciuto Boryana, una ragazza delle risorse umane che si autodefiniva una nerd e aveva in comune con lui la passione per i dati. I due si sposarono quell’estate. A fine 2013, J.B. stava preparando delle slide per presentare il progetto di una colossale fabbrica di batterie. Era un piano ardito: uno stabilimento da costruire per gradi, aggiungendo capacità a seconda di quando ce ne fosse stato bisogno. Sarebbe costato qualcosa come 5 miliardi di dollari, con una superficie di oltre 900.000 metri quadrati racchiusa tutta sotto lo stesso tetto (più grande del Pentagono, insomma). Per edificarlo ci sarebbero voluti all’incirca 400 ettari di terreno e avrebbe dato lavoro a 6500 persone.
La proposta aveva più aspetti in comune con il modo in cui Henry Ford aveva concepito la sua attività un centinaio d’anni prima che non con le modalità operative della maggior parte delle case automobilistiche moderne. Alcuni membri della squadra erano contrari all’idea, sollecitata da Musk, di accollarsi la responsabilità delle batterie. Kelty temeva una complessità eccessiva, e aveva paura che ciò avrebbe spinto le sue controparti di Panasonic a una soluzione mai sperimentata prima: nel piano ambizioso di Straubel, Panasonic avrebbe sostanzialmente allestito un laboratorio all’interno dello stabilimento Tesla per costruire le celle da una parte, mentre Tesla avrebbe assemblato i pacchi b...