La città di Dio
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La città di Dio

  1. 336 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Uno scrittore da tempo in cerca di un soggetto per il suo nuovo romanzo si imbatte in un curioso fatto di cronaca: da una chiesa di Manhattan è stata rubata la grande croce d'ottone che sovrastava l'altare maggiore. E ancora più inspiegabilmente, il simbolo di Cristo ricompare pochi giorni dopo sul tetto di una sinagoga. Lo scrittore si mette dunque in contatto con il reverendo Pemberton, un eccentrico sacerdote in crisi con le gerarchie ecclesiastiche, e lo segue nei suoi incontri con l'irrequieto rabbino Joshua Gruen, anch'egli alla ricerca delle ragioni della duplice profanazione. Finché l'inchiesta si trasforma in un'indagine sulla sopravvivenza e sul senso della spiritualità alla fine di un secolo torturato...

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Informazioni

E.L. DOCTOROW

LA CITTÀ DI DIO

Traduzione di Vincenzo Mantovani
Mondadori

LA CITTÀ DI DIO

A
Alison
Gabriel
Graylen
Annabel
e
TK

E così, secondo la teoria, l’universo si è espanso in modo esponenziale a partire da un punto, una singolarità spaziotemporale, un evento istantaneo, un fatto originario ben distinto o una sostanza quantistica in evoluzione, a tal punto che il termine “esplosione” risulta inadeguato, anche se la teoria è nota come il Big Bang. Ciò che dovremmo tenere a mente, nella nostra mente, è che l’universo non deflagrò in uno spazio disponibile preesistente, ma che fu lo spazio a deflagrare, trascinando ogni cosa con sé in un grande schiudersi espansivo, la nascita – in un lampo silenzioso della durata di uno o due secondi – dell’intero universo dilagante di gas e materia e luce-oscurità, una trasformazione cosmica del nulla nel volume e nella cronologia dello spaziotempo. Tutto chiaro?
E da allora la storia universale ha visto una sorta di evoluzione della materia stellare, della polvere primordiale, le nebulose, ardenti, splendenti, pulsanti, mentre ogni cosa ha continuato a staccarsi da ogni altra cosa per gli ultimi quindici miliardi di anni o giù di lì.
Ma cosa significa che l’originaria singolarità, o la singolare originalità, che nella sua submicroscopica sostanza comprendeva tutto lo spazio e tutto il tempo, che doveva voluminosamente e monumentalmente erompere all’improvviso in concetti che non possiamo comprendere né apprendere, cosa significa dire che… l’universo non nacque deflagrando nello spazio, ma che fu lo spazio, esso stesso una proprietà dell’universo, a deflagrare con tutto quello che c’era dentro? Cosa significa dire che è lo spazio che si è espanso, allargato, che è sbocciato? In che cosa è sbocciato? L’universo, espandendo ancor oggi le sue galassie di soli cocenti, stelle moribonde, metallici monumenti di pietra, nubi di polvere cosmica, deve riempire… qualcosa. Se si sta espandendo deve avere un perimetro, che oggi supera ampiamente la nostra capacità di misurarlo. Come stanno le cose in quel momento ai confini dell’universo? Cosa c’è oltre quell’impetuoso, invadente parametrico confine prima dell’invasione? Cos’è che viene superato, riempito, animato, acceso? O non c’è confine, non c’è limite, ma una serie infinita di universi che si espandono l’uno dentro l’altro, tutti nello stesso tempo? Sicché ciò che si espande si espande futilmente in se stesso, materia scura vorticante all’infinito di un’ampiezza insensata e spaventosa, senza proprietà, senza volume, senza energie primordiali trasformatrici della luce o della forza o dei quanti pulsanti, e tutte queste sono semplici invenzioni della nostra coscienza, e la nostra coscienza, essa stessa priva di volume e di qualità fisiche, un progetto – in definitiva – tanto irragionevole, freddo e inumano quanto l’universo della nostra illusione.
Mi piacerebbe trovare un astronomo con cui fare una bella chiacchierata. Penso a come la gente si abbrutiva per sopravvivere ai campi. Allo stesso modo gli astronomi si annullano davanti all’universo fulgido di stelle? Vedendo, cioè, l’universo come un lavoro? (Non per giustificare gli altri di noi, che rilevano queste tracce dolorose dell’universale vastità e poi fanno la solita vita come se non fosse nient’altro che una mostra organizzata dal museo di storia naturale.) L’astronomo medio alle prese col suo lavoro quotidiano comprende forse che al di là dei fenomeni celesti sottoposti alla sua attenzione, dei calcoli della radiometria, per non dire dell’inevitabile timore reverenziale ispirato dalla sua vita professionale, si trova una verità di un orrore così monumentale – questo estremo contesto della nostra lotta, questa conclusione dei nostri storici intelletti così mostruosa da contemplare – che nemmeno il rivolgersi a Dio può alleviare il tormento di una così profonda, disastrosa, disperata infinitudine? È quanto mi chiedo. Infatti, se ha qualcosa a che fare con questa storia, con questa realtà primordiale, con questi legittimi concetti, Dio è talmente spaventoso da non poter essere raggiunto da nessuna supplica umana che chieda sollievo, conforto o la redenzione che deriverebbe dall’essere messi a parte del Suo segreto.
* * *
— Ieri sera a cena, nome in codice Moira. Dopo averla vista per un anno o due e averle rivolto la parola solo brevemente, sempre con le stesse reazioni interiori, sono giunto a riconoscere un accrescimento del livello della mia attenzione, o forse un’oppressione passeggera, o una sorta di eccitazione, stranamente non sessuale, che in genere dà luogo, in un istante, a un senso di smarrimento, alla fugace impressione che la mia vita sia stata buttata via, o più probabilmente che, per la sua natura ostinata, non abbia voluto realizzarsi come dovrebbe… Mentre cenavamo insieme ho capito perché, finalmente, valeva la pena di frequentare questa gente.
Non si trucca, non s’ingioiella e compare abitualmente nel più semplice e meno adatto degli abiti da sera, con i capelli raccolti o acconciati con una noncuranza quasi eccessiva, come se si fosse pettinata in fretta e furia, all’ultimo momento, per la cena importante alla quale è stata trascinata dal marito.
La sua aria tranquilla: ecco ciò che notai la prima volta che la vidi. Come se stesse pensando a qualcos’altro, come se non facesse parte del nostro ambiente raffinato. Poiché non voleva farsi notare e mancava, evidentemente, di una professione sua, tra le donne da favola che la circondavano poteva apparire assolutamente comune. Eppure era sempre oggetto della loro ammirazione, un’ammirazione tutt’altro che facile da nascondere.
Una figura esile e dalla vita lunga. Zigomi alti e occhi marroni, scuri. La bocca è generosa, il viso di un pallore uniforme color tela greggia che, in assenza d’inquinanti variazioni, sembra dispensato dall’illuminazione. Questa uniformità slava, soprattutto nella fronte, sotto l’onda obliqua dei capelli raccolti, può spiegare almeno in parte la calma sovrana che ho sempre sentito emanare da lei.
Chinò la testa, sorrise, guardandomi francamente e limpidamente negli occhi, e prese posto a tavola con quella sua tranquillità, quell’aria posata che trovo così attraente.
Le cose andarono bene. Mi permetta d’intrattenerla… Pronunciai le mie battute con naturalezza. Lei le apprezzò, nel suo modo tranquillo. Al terzo bicchiere di Bordeaux pensai, al riparo delle conversazioni circostanti, che dovevo correre il rischio. La mia confessione le strappò una risata allegra e non impegnativa. Ma le si arrossarono le gote, e lei smise di ridere e guardò per un attimo il marito, seduto al tavolo più vicino. Raccolse la forchetta e, a occhi bassi, riprese a mangiare. Tipicamente, la camicetta le si era aperta all’ultimo bottone, allacciato male. Era chiaro che sotto non indossava altro. Eppure mi fu impossibile immaginare che potesse avere un’avventura, e mi rabbuiai, e un po’ – persino – mi vergognai di me. Mi chiesi amaramente se elevava la natura morale di tutti gli uomini che la circondavano.
Ma poi, quando stavano per servire il dessert, gli uomini ricevettero l’ordine di consultare il retro dei cartellini con i loro nomi e di cambiare tavolo. Io mi trovai seduto accanto a una giornalista televisiva che esprimeva idee politiche ben precise – quella sera a cena, mai però sullo schermo – e mi passò la voglia di ascoltare, e cominciavo a sentirmi intontito dall’alcol e infelice quando, voltandomi indietro, scoprii… Moira… che mi guardava con una solenne intensità che rasentava la collera.
Mi raggiungerà nei pressi del museo per andare prima a mangiare un boccone insieme e poi a vedere i Monet.
* * *
— E mentre ogni cosa si stacca da ogni altra cosa per quindici miliardi di anni o giù di lì, si stabiliscono affinità, siderei legami, e le stelle cominciano a ruotare lentamente l’una intorno all’altra raggruppandosi in galassie, e queste con movimenti solenni e monumentali si adunano ancor più lentamente in ammassi, i quali ammassi a loro volta si distribuiscono in modo lineare, una grande catena o collana di superammassi per miliardi e miliardi di anni luce. E in tutta questa maestosa e ampia ondata di cosmosità si verifica un piccolo e oscuro incidente, un casuale raggrupparsi di atomi di azoto e di carbonio che, fondendosi, raggiungono l’esistenza molecolare di una singola cellula, un granello di organica decomposizione e, sacrebleu, ecco la prima entità dell’universo dotata di una propria volontà.
* * *
Messaggio dal Padre:
Ciao, ecco le risposte alle tue domande, nell’ordine: il Libro delle Preghiere;1 cotta; collarino da pastore anglicano con la camicia rossa; quando ci si rivolge a lui direttamente: Padre, indirettamente: il Reverendo Taldeitali (un vescovo sarebbe il Reverendissimo); il mio uomo era Tillich, anche se qualcuno voleva appiopparmi Jim Pike. E la croce rubata era di ottone, alta due metri e mezzo. Tu mi rendi nervoso, Everett.
Dio ti benedica,
Pem
* * *
— Il furto
Oggi nel pomeriggio a Battery Park. Giornata calda, gente in giro. Brezzolina autunnale che mi fa pensare a una donna che mi soffia nell’orecchio.
Dappertutto piccioni in picchiata, con la polvere della città nelle ali.
Dietro di me il profilo finanziario della parte bassa di Manhattan trasformato dalla luce del sole in una cattedrale isolana, un complesso di edifici dedicati al culto.
E m’imbatto in questo venditore ambulante di orologi, un tipo con perline e treccioline alla rasta e un gran sorriso. Alto e diritto nel suo camicione da corista. La sacrale presenza non minimizzata dalle Nike bianche nuove che ha ai piedi.
«Non occorre caricarli, puoi tenerli sotto la doccia, impermeabili, con i diamanti e tutto, sempre l’ora giusta.»
Un’imbarcazione emerge come un fantasma dal riverbero della baia levigata dalla nafta: il traghetto di Ellis Island. Barche, non sarò mai stanco di guardarle. Vira, con i tre ponti gremiti fino ai parapetti. Sbatte contro l’imbarcadero per uno sprezzante ormeggio newyorkese. Uuf. Le palafitte gemono, e il loro scricchiolio ricorda una serie di colpi di arma da fuoco.
L’uomo sulla promenade crede che ce l’abbiano con lui e si mette a correre.
Scendono i turisti, facendo rimbombare la passerella. Macchine fotografiche, videocamere e bambini stupefatti appesi alle loro spalle.
Dio, c’è qualcosa di terribilmente esausto nel porto di New York, come se l’odore del mare fosse nafta, come se le barche fossero autobus, come se tutto il cielo fosse un garage tappezzato di calendari di donne nude con i mesi che devono ancora venire già sfogliati e coperti di unte ditate nere.
Ma sono tornato dall’ambulante vestito da corista e gli ho detto che il suo look mi piaceva. Gli avrei dato un dollaro, gli ho detto, se mi avesse lasciato vedere l’etichetta. Il sorriso scompare: «Che, sei matto?».
Solleva il vassoio di orologi per metterlo fuori della mia portata. «Vattene, non voglio aver niente a che fare con te.» Guardando a destra e a manca, mentre lo dice.
Ero in borghese: jeans e una giacca di pelle sopra la camicia a scacchi e la T-shirt. Nulla di cruciforme che m’identificasse.
E più tardi, durante la passeggiata, in Astor Place, dove sciorinano le mercanzie sul marciapiede: tre dei camici viola da corista ordinatamente piegati e accatastati sopra una tenda di plastica per doccia. Ne ho preso uno, ho rivoltato il collo ed ecco l’etichetta, Churchpew Crafts, e il segno della lavanderia del signor Chung.
L’ambulante, un giovane mestizo dall’aria solenne con quella calotta di capelli neri che è propria della sua gente, voleva tre dollari l’uno. Mi è sembrato un prezzo ragionevole.
Vengono dal Senegal, o dai Caraibi, o da Lima, San Salvador, Oaxaca, trovano un pezzo di m...

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