Il ritorno di Sira
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Il ritorno di Sira

  1. 672 pagine
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Il ritorno di Sira

Informazioni su questo libro

Gerusalemme, 1945. Conclusa la sua missione come collaboratrice dei servizi segreti britannici, Sira è diventata la signora Bonnard: sposata al suo ex collega inglese Marcus, a cui è stato affidato un nuovo incarico nella Palestina del Mandato britannico, guarda al futuro speranzosa, in cerca di una serenità che finora le è stata preclusa. Il destino è però ancora una volta in agguato, proprio quando all'orizzonte si concretizzano la possibilità di un nuovo lavoro per la radio palestinese e una maternità inaspettata.

Una serie di eventi drammatici e imprevisti la costringeranno, ancora una volta, a reinventarsi e a prendere in mano le redini della propria vita. Londra, protagonista di una lenta e dolorosa ricostruzione, Madrid, dove il governo franchista, in cerca di alleanze strategiche, è pronto ad accogliere Eva Perón nella tappa spagnola del suo viaggio in Europa, e poi Tangeri, dove tutto, molti anni prima, aveva avuto inizio: città che raccontano di paesi alla ricerca di nuovi, precari equilibri dopo la fine della guerra, diventano così le tappe di un lungo viaggio verso l'affermazione e l'autonomia di questa donna straordinaria.

Sira torna in scena con forza, completamente diversa dalla sarta innocente alle prese con avventure e messaggi clandestini che avevamo conosciuto in La notte ha cambiato rumore. Ora è una donna forte e sempre più consapevole, che lotta ancora una volta per salvarsi e per salvare la vita di chi ama.

Un romanzo appassionante e coinvolgente che intreccia sapientemente storia e finzione; il ritorno di una protagonista indimenticabile sospesa fra segreti e tradimenti, ideali e menzogne, amore e coraggio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804746263
Terza parte

SPAGNA

36

Rimasi sveglia fino all’alba. Tutti gli interrogativi aperti mi si agitavano nella testa, lottavano con le unghie e con i denti per ottenere la mia attenzione. Sarei riuscita a fare il mio lavoro? Qualche imprevisto mi avrebbe messa in imbarazzo? Víctor si sarebbe trovato bene a casa del nonno, lontano da me?
Sola, sdraiata su un letto estraneo, con il sonno che si ostinava a sfuggirmi, vidi girare le lancette della sveglia fino a indicare l’una di notte, le due, le tre, quasi le quattro. A un certo punto sentii delle voci che provenivano dal piano di sotto, passi sulle scale; una porta vicina si aprì dopo che qualcuno aveva girato la chiave. Poi, solo il silenzio.
Eravamo arrivati a Madrid quel pomeriggio, con un giorno di anticipo sul programma. Una volta scesi dall’aereo ed entrati nel terminal, Phillippa era rimasta indietro con il bambino mentre io mi dirigevo verso l’uscita imprimendo alla mia andatura l’aria disinvolta della cronista radiofonica in cui si presumeva che mi fossi appena trasformata.
Mi avevano avvertita che ci sarebbe stato un autista ad aspettarmi; lo individuai subito, ma finsi di non notarlo, per avere una panoramica completa dell’area. Quando lo vidi lì da un lato, in paziente attesa, tirai un sospiro di sollievo: ecco mio padre, Gonzalo Alvarado, un po’ più vecchio, un po’ più magro nel suo completo a tre pezzi. Anche lui mi vide, naturalmente. Ma così come ci eravamo messi d’accordo per telefono, ci ignorammo a vicenda. Accanto a lui, vestita con modesta sobrietà, c’era una donna. Era Miguela, la governante dell’Estremadura che si occupava della casa in sostituzione della vecchia Servanda. Ci avrebbero pensato loro due a portare Phillippa e mio figlio nell’appartamento di calle Hermosilla, dove sarebbero rimasti mentre interpretavo il mio ruolo di falsa giornalista.
Arrivai in città senza scambiare una parola con l’autista, rifugiata nella solitudine del sedile posteriore. Decine di immagini del passato recente, con Marcus presente in tutte, cominciarono a tormentarmi a mano a mano che rivedevo angoli, insegne, manifesti e facciate delle case. In qualche momento minacciarono di spuntarmi le lacrime; per fortuna portavo un paio di grandi occhiali da sole per proteggermi sia dalla luce di inizio giugno che da inopportuni attacchi di malinconia. Io e Marcus ce n’eravamo andati da quella città due anni prima, esultanti per avere vinto la guerra, orgogliosi di aver compiuto il nostro dovere e con l’illusione che ci aspettasse un futuro in cui ci saremmo potuti mostrare insieme apertamente, senza sotterfugi e bugie. Adesso tornavo con un bambino che aveva i suoi occhi e il colore della sua pelle, mentre i resti straziati del suo corpo erano rimasti sotto una lastra di marmo alle pendici di un monte della Palestina. Facendo uno sforzo per non lasciarmi prendere dallo sconforto, mi misi a osservare le strade e la gente in cerca di cambiamenti, strizzate d’occhi, tracce di speranza in quel mio povero paese così devastato.
Per prima cosa notai che i tedeschi con le loro reboanti manifestazioni erano scomparsi come se li avesse inghiottiti la terra. Mentre percorrevamo il paseo de la Castellana – a quel tempo si chiamava avenida del Generalísimo –, non vidi più le bandiere rosse, bianche e nere che prima spuntavano a ogni angolo con le loro svastiche.
Nella dépendance di quella che era stata l’ambasciata tedesca, vicinissima a plaza de Colón, non entravano né uscivano innumerevoli funzionari e rappresentanti diplomatici. Al suo interno, con discrezione, il Consiglio di controllo alleato intraprendeva adesso l’operazione Safehaven, che mirava a distruggere qualsiasi traccia di nazismo. A tal fine stavano portando a termine un minuzioso processo di identificazione ed espropriazione di decine di immobili ufficiali, valutando ogni tipo di enti e istituzioni, bloccando centinaia di imprese e immobilizzando capitali e beni, compreso il famoso oro nazista accumulato con i saccheggi in diverse parti dell’Europa.
A mano a mano che l’auto avanzava, continuai a percepire il lampante declino del Terzo Reich in residenze, ville e palazzine. Dietro di noi, simile a un grande guscio vuoto, c’era la Banca Transatlantica tedesca. Un po’ più avanti, al numero 18, la sede della Gestapo era sbarrata, con grosse catene che bloccavano i saliscendi dei portoni. Sul marciapiede di fronte, gli uffici della Sofindus, un tempo così eleganti, avevano le imposte assicurate con chiavistelli, mentre l’ampliamento della Deutsche Schule all’incrocio con calle Zurbarán aveva la cancellata all’ingresso chiusa con un robusto lucchetto. Davanti all’imponente costruzione in cui prima era ospitato l’Istituto di cultura tedesca, che faceva angolo con il paseo del Cisne – ribattezzato in onore di Eduardo Dato – si notava il giardino incolto e pieno di erbacce. Nella glorieta de Castelar, la ruggine cominciava a corrodere l’inferriata dell’Ufficio stampa tedesco.
Anche se non potevo vederli durante il tragitto, immaginai che il degrado avesse colpito allo stesso modo il resto degli edifici, opulenti e bene ubicati, in cui i nazisti avevano trascorso i loro giorni in Spagna; ne avevo frequentati alcuni come invitata a ricevimenti e serate. La residenza dell’ambasciatore in calle Hermanos Bécquer o l’animato club vicino alla chiesa di San Fermín de los Navarros. La sede del partito nazista proprio di fronte, all’angolo con calle Zurbano. L’Ufficio del turismo in calle de Alcalá. La Camera di commercio tedesca in calle Claudio Coello. L’agenzia di stampa Transocean al numero cento e rotti di calle Serrano. Adesso queste proprietà, così come tante altre in tutta la Spagna, erano controllate dagli Alleati e oggetto di trattative con il governo di Franco; entrambe le parti erano impegnate in un duro tira e molla per vedere chi riusciva ad aggiudicarsi la fetta più grossa della torta.
La macchina continuò il suo percorso fino al Circolo della stampa, un posto che non conoscevo e nel quale era previsto che alloggiassi. Passammo anche davanti alla residenza di sir Samuel Hoare, l’ex ambasciatore britannico; mi domandai da quale delle sue finestre spalancate avesse visto passare il corteo funebre del suo omologo Hans-Adolf von Moltke, morto a Madrid tre mesi dopo la nomina a capo della legazione tedesca. Dall’interno della sua casa ma in vista, rigorosamente in tight, sir Sam si era tolto il cilindro al passaggio del feretro e aveva chinato solennemente la testa in segno di lutto: impeccabile etichetta diplomatica verso il nemico, persino in piena guerra.
Un po’ più avanti, ormai vicino agli Altos del Hipódromo, l’auto svoltò a destra, imboccammo la stretta calle del Pinar e ci fermammo davanti al numero 5, un edificio a metà fra un grande chalet e un palazzetto. L’autista annunciò: siamo arrivati, signora. Quando scesi dalla macchina e vidi l’ingresso, mi sentii torcere lo stomaco. Conoscevo quel posto, c’ero stata almeno un paio di volte. E no, a quel tempo non era la sede di qualcosa che somigliasse a un Circolo della stampa. Nemmeno lontanamente.
Appena entrai, mi accorsi che odorava ancora di pittura fresca. Nel salone a destra, dove un tempo la mia antica cliente Helga Henke esponeva i suoi mediocri quadri floreali, vidi che adesso c’erano vari gruppi di poltrone, intorno a una grossa radio. Nel vano delle scale, dove prima erano appesi in cordiale armonia un ritratto di Hitler e uno di Franco, faceva bella mostra di sé un grande olio con una scena di caccia. Venne ad accogliermi una donna matura abbigliata con austera irreprensibilità, una figura a metà fra un’istitutrice e una governante. Si presentò con il cognome, Cortés: mi diede il benvenuto e mi mostrò le zone comuni: la biblioteca e la sala di lettura, le cabine telefoniche, la sala da pranzo con le finestre affacciate sul giardino del retro e un ambiente contiguo con un piccolo bancone da bar e un assortimento di bottiglie di liquori.
Ogni cosa aveva cambiato posto, ma le stanze erano identiche a quando Serrano Suñer, nel suo indomito fervore filotedesco del periodo successivo alla fine della guerra civile, aveva deciso di affittare l’immobile a Daniel de Araoz y Aréjula, barone di Sacro Lirio, per creare con lui la nuovissima Associazione ispano-germanica. A tal fine avevano acquistato mobili e suppellettili, allestito una nutrita biblioteca con libri in tedesco o sulla Germania, e ampliato la zona della cucina installando elettrodomestici moderni, dono di imprese tedesche; qualcuno aveva regalato persino un servizio da tavola completo con svastica, giogo e frecce, tutti insieme. Durante il conflitto mondiale si erano tenuti qui concerti e conferenze rigonfi di patriottismo, mostre e sproloqui a maggior gloria del Terzo Reich e delle sue armoniose relazioni con la Spagna.
Adesso, due anni dopo la caduta del nazismo, di tutti quei relatori, artisti e invitati non rimaneva neppure l’ombra. Dopo aver lavato la faccia agli edifici ed estirpato con cura ogni sentore di nazismo alla vigilia della prima visita ufficiale nella Spagna di Franco da parte di una personalità straniera, avevano riconvertito al volo quell’istituzione culturale in un club elegante per accogliere i giornalisti stranieri. Mi tornarono in mente il Press Centre che gli inglesi del Mandato avevano aperto a Gerusalemme per comodità degli inviati internazionali, il bar in cui avevo preso il primo aperitivo con Fran Nash e avevo scoperto che lei e Nick Soutter erano amici. Soddisfare i professionisti della stampa sembrava essere un impegno tenace che non conosceva frontiere.
La severa signora Cortés finì di mostrarmi le strutture del piano principale, dove non avevo ancora visto traccia di altri residenti. A quel punto tese la mano verso le scale.
«Mi permetta di accompagnarla fino alla sua stanza; qui alloggeranno solo le giornaliste. Gli uomini sono stati sistemati negli alberghi, anche se questo sarà il punto d’incontro per tutti.»
Qualcuno si era occupato di portare su il mio bagaglio. Quando entrai in camera, era già appoggiato alla parete di fondo. I mobili erano attuali, quasi moderni. Scrittoio con la sua sedia, poltrona in tessuto accanto alla finestra, armadio a muro, piccolo bagno e letto da una piazza e mezza con un crocifisso appeso sopra la testiera. Sul comodino trovai un bouquet di fiori bianchi e un biglietto da visita. Diego Tovar, direttore dell’Ufficio informazioni diplomatiche, dava il benvenuto in Spagna a Livia Nash, inviata della BBC. Accanto, un programma per l’indomani. Eravamo convocati il mattino alle dieci nella sala riunioni, dove avremmo ricevuto le informazioni relative alla prima giornata.
La voce della governante risuonò alle mie spalle.
«Serviremo la cena a partire dalle otto e mezzo.»
Senza aggiungere altro, chiuse silenziosamente la porta e mi lasciò sola nella mia stanza. Controllai l’ora, erano le sette e venti. Ebbi qualche attimo di esitazione, il cuore mi diceva di scendere di corsa le scale, infilarmi in una cabina telefonica e chiamare mio padre. Volevo sapere come stava mio figlio, come reagiva alla mia assenza. Ma mi trattenni: no, non avrei fatto telefonate da quel Circolo della stampa. Per togliermi di mente la preoccupazione, cominciai a disfare le valigie.
Quando, un’ora e un quarto più tardi, scesi in sala da pranzo, vidi che solo due tavoli erano occupati. A uno di questi sedeva una donna di una certa età, dal fisico robusto, con i capelli corti e occhiali dalle lenti spesse appesi al collo con una catenina d’argento. Leggeva una rivista mentre nell’altra mano teneva la forchetta; quando feci un cenno di saluto, alzò appena la testa. Era chiaro che non le interessava affatto conoscermi; tantomeno invitarmi a cenare con lei. All’altro tavolo, di spalle all’entrata e con lo sguardo rivolto al giardino, c’era un’altra donna di cui non riuscii a vedere la faccia. Sembrava magra, immaginai che fosse giovane dal tono naturale dei capelli castani, non troppo in ordine. Anche lei ignorò il mio saluto, come se non mi avesse sentita. Vista l’indifferenza generale, decisi di sedermi da sola in un angolo.
Mi servì un cameriere silenzioso con una giacca bianca abbottonata fino al collo. Stavo per finire l’antipasto, quando la più giovane si alzò e augurò la buonanotte in un inglese con accento americano, senza nemmeno guardarci. «Good night, sweet pie» rispose quella con gli occhiali appesi alla catenella, nella stessa lingua, con lo stesso accento e senza distogliere lo sguardo dalla rivista. Mi avevano appena portato il merluzzo con la maionese quando anche lei salutò, altrettanto stringata.
In confronto all’austerità che regnava in casa di mia suocera, il sapore di quei piatti mi sarebbe dovuto sembrare celestiale. Eppure li lasciai a metà. Non avrei mai immaginato che mi sarebbero mancati The Boltons, Londra, persino Olivia. Eppure rimpiansi la sua vicinanza, la fiducia e la solidità che irradiavano lei e le sue connazionali; il paese intero che lottava per la propria ricostruzione, tutti insieme, austeri, coraggiosi e con uno stoicismo ammirevole; gente che affrontava le sofferenze unita e sopportava i sacrifici in uno sforzo comune. Invece la Spagna, la mia povera patria, affrontava la ricostruzione divisa da una frattura sinistra.
Dopo aver rifiutato il budino del dessert, uscii in giardino e mi sedetti su una sedia di ferro dipinta di bianco; si sentivano solo grilli e cicale, in quella zona lontana dal centro di Madrid e dalla sua confusione. L’oscurità non era ancora calata del tutto, c’era odore di gelsomino, la temperatura era deliziosa: tutti gli ingredienti per una serata perfetta. Ma io ero lì, immersa in una solitudine profonda come un baratro, senza mio figlio, ignorata da quelle americane altezzose, a chiedermi per l’ennesima volta perché mai avessi accettato un altro impegno assurdo.
Rinchiusa nella mia stanza, per allontanare i fantasmi tirai fuori una delle cartelle che a tempo debito mi aveva dato Kavannagh e cominciai a ripassare un contenuto che conoscevo già quasi a memoria. Oltre alla first lady argentina, protagonista del viaggio, avevano insistito perché carpissi il maggior numero di informazioni possibile ai suoi accompagnatori; lasciavano al mio giudizio distinguere i membri utili da quelli marginali, separare il grano dal loglio.
Lillian Lagomarsino de Guardo, lessi di nuovo. Trentacinque anni. Sorella di uno dei più importanti imprenditori argentini nonché ministro dell’Industria, Rolando Lagomarsino, e moglie di Ricardo Guardo, presidente della Camera dei deputati. Madre di quattro figli, accompagnatrice personale, consulente in questioni di protocollo ed etichetta. Juan Duarte, fratello, trentatré anni, scapolo, segretario privato del presidente, ex rappresentante di sapon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il ritorno di Sira
  4. Prima parte. PALESTINA
  5. Seconda parte. GRAN BRETAGNA
  6. Terza parte. SPAGNA
  7. Quarta parte. MAROCCO
  8. Epilogo
  9. Nota dell’autrice
  10. Copyright