Il segreto dell'alchimista
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Il segreto dell'alchimista

  1. 424 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il segreto dell'alchimista

Informazioni su questo libro

È il 10 settembre 1314, e Bologna freme per il passaggio di una cometa - a detta di alcuni preludio di un luminoso domani, secondo altri il presagio dell'imminente apocalisse. Mondino de' Liuzzi, medico anatomista e accademico, sta per tenere una delicata lezione alla scuola di medicina quando in aula irrompe Rambertuccio, il capitano del popolo: un uomo è stato ucciso, ma prima di morire ha pronunciato il nome del medico, e Rambertuccio è convinto che stesse indicando il suo assassino. Mondino nega ogni coinvolgimento - in passato ha aiutato a risolvere omicidi, non a commetterli - ma Rambertuccio è irremovibile, mosso da un accanimento feroce contro l'accademico, i cui studi sui cadaveri sono ai suoi occhi un abominio. Il mistero è invece molto più fitto, e a Mondino per scioglierlo non basterà l'acume leggendario: sarà indispensabile l'aiuto del figlio Gabardino ma soprattutto di Mina, la giovane moglie che non ci sta a essere solo un bel viso da mostrare ai ricevimenti.

Ispirandosi alla figura realmente esistita di Mondino de' Liuzzi, coroner ante-litteram, Alfredo Colitto entra nel catalogo del Giallo Mondadori con un mistery storico teso e dai personaggi modernissimi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804746591
eBook ISBN
9788835716754

1

Negli ultimi anni Mondino de’ Liuzzi, medico anatomista dello studium di Bologna, era rimasto coinvolto in vari casi di omicidio, che lo avevano portato a sviluppare un sesto senso per i guai in arrivo. Ma stavolta, pensò, l’inquietudine che l’aveva assalito all’improvviso forse era solo un riflesso di quella che turbava l’intera città, da quando era apparsa in cielo la cometa.
Perciò liquidò con un’alzata di spalle il presentimento e si preparò a cominciare la lezione.
Era una giornata particolarmente irritante, per lui: era presente in aula una commissione dello studium, composta di quattro dottori in vesti scarlatte come la sua. Avevano il compito di verificare la correttezza delle sue lezioni e valutare il suo metodo d’insegnamento. Tre di loro avevano rifiutato di sedersi e assistevano alla lezione in piedi, in un angolo dell’aula. Il quarto, il più anziano nonché il capo della commissione, aveva accettato una sedia impagliata e prendeva appunti con uno stilo su una tavoletta incerata. Era il metodo più facile per annotare qualcosa in fretta, senza dover dipendere da penna, carta e calamaio.
Sarebbero venuti tre volte, quella era la seconda. Si trattava di una novità recente, voluta dai due rettori dell’università per offrire un’istruzione in qualche modo uniformata, aumentando quindi il prestigio dello studium della città.
Mondino comprendeva il principio alla base di quella decisione, ma non lo condivideva. Secondo lui il fatto che due medici insegnassero in modo diverso era una ricchezza, non un’anomalia da correggere. Permetteva agli studenti di confrontare i vari metodi, valutarli e scegliere quale seguire o magari crearsene uno proprio. Tuttavia non era lui a decidere, e doveva adeguarsi. La cosa non gli avrebbe dato tanto fastidio se dentro la commissione non ci fosse stato il suo rivale Ardizzone Guaçaloti.
Ardizzone era uno di quei dottori per i quali Avicenna doveva aver coniato la sua famosa frase: “Un medico ignorante è il luogotenente della morte”. Tutte le volte che Mondino aveva parlato con lui aveva ricavato l’impressione che proponesse una scienza imparaticcia, fatta di nozioni apprese a memoria e giustapposte senza un principio informatore. Che una persona del genere dovesse valutare il metodo degli altri era una cosa che non riusciva ad accettare. Ardizzone era un politico, una persona avida di denaro e potere, e la medicina per lui era solo il campo di battaglia in cui lottava per procurarseli.
A un tratto, dalla strada giunsero rumori di passi affrettati, voci concitate, urla. Le teste degli studenti e dei commissari si voltarono all’unisono verso la finestra, chiusa da un’impannata di tela leggera, che permetteva alla luce di entrare ma non consentiva di vedere fuori, per evitare distrazioni. Mondino aveva pensato più volte di far mettere dei vetri alle finestre, per isolare l’aula anche dal rumore, oltre che dal freddo delle giornate invernali. Il motivo per cui non l’aveva fatto non era tanto il costo esagerato delle lastre di vetro, che comunque avrebbe potuto permettersi, ma perché suo zio Liuzzo, con il quale gestiva la scuola, diceva che si sarebbero attirati troppe critiche. «La gente è ignorante, pensa che i vetri debbano stare solo nelle chiese» gli aveva detto. «O nei palazzi dei nobili. Metterli in un’aula d’insegnamento ci farebbe apparire stravaganti. E nessuno si fida delle persone stravaganti.»
Mondino non condivideva la tendenza di Liuzzo a seguire sempre le convenzioni, ma doveva ammettere che lo zio ci sapeva fare di più con la gente, e aveva seguito il consiglio di lasciare la finestra solo con le imposte di legno e l’impannata di tela.
Ma in giorni come quello, quando i rumori esterni distraevano i suoi studenti e creavano difficoltà nello svolgimento della lezione, se ne pentiva.
«Oggi parleremo del rapporto tra ossa, nervi e tendini nel corpo umano» disse, alzando la voce, ritto sul podio nella sua veste rossa. «Qualunque cosa stia accadendo là fuori non ci riguarda.»
«Invece riguarda proprio voi» disse una voce profonda.
Mondino alzò gli occhi dal Canone di Avicenna aperto sul leggio. Nel vano della finestra era inquadrato un uomo alto e robusto, con occhi accesi, capelli e barba crespi e neri. In testa aveva un berretto bruno, ricamato in oro. Indossava una giubba leggera viola, con aperture ai gomiti e alle spalle, dalle quali spuntava la camicia, e calzoni rossi a liste arancio. Una doppia cintura di cuoio, con fibbia e ornamenti dorati, sosteneva daga e pugnale. Con la mano sinistra teneva sollevata l’impannata, la destra era sul pomo della daga.
Mondino riconobbe Pellaio dei Pellai, il capitano del popolo in carica, e comprese che i guai erano arrivati.
«Cosa vi spinge a irrompere così nella mia scuola, capitano?»
Pellaio non rispose. Se ne stava muto, gli occhi inchiodati sul piano in marmo del tavolo anatomico. Mondino sospirò. Era abituato a quel tipo di reazioni. Il cadavere esposto sul tavolo da dissezione in marmo bianco era quello di un condannato a morte che le leggi del Comune gli permettevano di richiedere per i suoi esperimenti scientifici. Ma era in condizioni tali da evocare nella mente di un profano chissà quali immagini diaboliche. Era privo di pelle, muscoli e di tutte le parti molli, ridotto a uno scheletro tenuto insieme da fasci di tendini, con i nervi che uscivano a coppie dai forami delle vertebre come tentacoli giallastri.
«Chi ha potuto ridurre un uomo in quello stato?» chiese Pellaio, quasi tra sé.
«L’acqua corrente» rispose Mondino, secco. «Ora, per favore, volete...»
«Che cosa?» Il capitano era incredulo. «Vi burlate di me?»
«Se si pone un corpo a macerare nell’acqua di un torrente, le parti molli, i muscoli e la pelle si decompongono per primi. Ossa, nervi e tendini, che sono più duri, impiegano del tempo. Basta estrarre il cadavere dall’acqua al momento giusto ed è pronto per essere utile alla società, cosa che non ha fatto da vivo.»
«Come potete parlare in questo modo di un essere umano?» ruggì quasi il capitano.
«Proprio perché non è più un essere umano» ribatté Mondino, sentendo il fuoco del suo carattere collerico salirgli alle guance. «Quell’uomo era un ladro e un assassino. Ora è un ammasso di carne e ossa da cui l’anima immortale si è già separata. Sepolto in una fossa servirebbe soltanto ai vermi, così invece aiuta la scienza a progredire.»
Il bidello Ungarello, brutto, piccolo e scuro di pelle, entrò in aula a controllare il motivo di quel vociare. Vedendo di chi si trattava fece due passi indietro e scomparve in silenzio nel corridoio. Mondino gettò un’occhiata alla commissione. Tre dei quattro medici mantenevano un’espressione impassibile, come era giusto davanti a una discussione che non li riguardava. Il quarto, Ardizzone, aveva negli occhi la gioia maligna di chi vede un nemico in difficoltà e pregusta una facile vittoria.
«Dio non può volere questo» disse il capitano, ancora scosso.
«Siete libero di pensarlo. Comunque, ora devo cominciare la mia lezione, se avete bisogno di parlarmi tornate dopo. Ma posso anticiparvi che, qualsiasi cosa intendiate chiedermi, la risposta è no.»
«State tranquillo» rispose Pellaio, in un tono calmo che preannunciava tempesta. «Non intendo chiedervi nulla. Sono venuto per accusarvi di omicidio.»
Il silenzio che già regnava nell’aula si fece ancora più profondo. I commissari, ritti nelle loro vesti rosse che li qualificavano come medici laureati, si misero a bisbigliare tra loro. Gli studenti restarono immobili nei loro banchi di legno come statue di cera. Per loro Mondino, alto, magro, con gli occhi verdi e la fronte spaziosa contornata di lunghi capelli castani e ondulati, era l’immagine stessa dell’autorità, incompatibile con un’accusa del genere. I loro sguardi esprimevano insofferenza, rabbia e paura.
Poi Mondino sbottò: «Farete meglio a spiegarvi» disse, a denti stretti.
Il capitano del popolo lo fissò con i suoi occhi neri. «In piazza Maggiore un uomo all’improvviso ha dato in escandescenze» disse. «Si è messo a urlare in mezzo alla strada, ha rovesciato un carretto e ha aggredito alcuni passanti che hanno provato a fermarlo. Sempre urlando si è messo a correre. A un certo punto è stato pugnalato, ma ha avuto la forza di fare ancora alcuni passi ed è crollato morto nella piazzetta qui fuori, quasi davanti alla vostra porta.»
«Questo cosa...»
«Non ho finito. Con le ultime forze, prima di spirare, ha accusato voi.»
«Posso assicurarvi che mi trovo qui da ore e che non sono uscito per pugnalare nessuno» disse Mondino, sarcastico.
Pellaio scosse la testa. Sembrava esasperato, ma non si capiva da cosa. «La coltellata non era mortale» spiegò. «Probabilmente qualcuno ha visto in lui una preda facile e l’ha aggredito per derubarlo. Ma il cadavere di quell’uomo mostra segni di avvelenamento. E prima di spirare ha detto che siete stato voi.»
Mondino sapeva di essere innocente e credeva di poterlo provare senza ombra di dubbio, ma, per averli subiti più volte sulla propria pelle, conosceva anche le storture e i cavilli della legge. Perciò scelse un approccio prudente.
«Chi è il morto?» chiese. «Vorrei almeno sapere se lo conosco, visto che mi si accusa di averlo ammazzato.»
«Chi è dovrete dircelo voi. Venite a vederlo, è proprio qui fuori.»
Il capitano sembrava aver già emesso il suo verdetto. Mondino capì che avrebbe avuto bisogno dell’assistenza dei migliori avvocati dello studium per uscire salvo da quel pasticcio. Ma intanto conoscere l’identità della persona che era accusato di aver ucciso era indispensabile.
«Va bene, andiamo pure» disse.
Scese dal podio e passò brevemente nella stanza sul retro. Era importante calmarsi, prima di affrontare la situazione. Quando si lasciava dominare dal suo carattere irascibile finiva sempre per dire o fare qualcosa di cui poi doveva pentirsi. Respirò a fondo diverse volte, si lavò le mani in una bacinella e si spruzzò dell’acqua fresca sul viso. Poi si diresse verso l’uscita della scuola, seguito da tutti i presenti. Il cadavere, abbandonato sul tavolo anatomico, non sembrava più terrificante, ma triste e patetico.
Aspettando che Mondino uscisse dalla scuola, Pellaio si concesse un lieve sorriso. Aveva preso servizio a Bologna soltanto da un mese, e già aveva l’opportunità di vendicarsi di Mondino de’ Liuzzi. Ma non c’era di che stupirsi, pensò. Quel medico empio probabilmente si macchiava di qualche delitto ogni settimana, se non addirittura ogni giorno. Lo stupiva il fatto che invece di marcire in qualche segreta fosse famoso, onorato e rispettato. Ma la sua epoca d’oro era finita. Ci avrebbe pensato lui.
Lo vide uscire, preceduto da quattro medici vestiti di rosso e seguito da un codazzo di studenti. Lo affiancò. La piccola folla si aprì al loro passaggio. Pellaio riconobbe un viso che aveva già visto: padre Antonio Scoto, l’arcidiacono della cattedrale di San Pietro. Il prelato, fisico snello, grandi occhi azzurri e capelli bianchi corti, se ne stava immobile tra i curiosi. Aveva un’espressione strana, come se fosse in attesa di qualcosa. A un tratto notò che lo guardava e gli rivolse un cenno di saluto. Il capitano del popolo ricambiò e proseguì.
Davanti alla scuola di medicina la via che dal palazzo del Comune conduceva fino a Porta Nova si allargava in una piccola piazza pavimentata con ciottoli irregolari, dall’altro lato della quale sorgeva la chiesa di Sant’Antonino. Al centro dello slargo, alcuni berrovieri del podestà, che tutti chiamavano semplicemente birri, con la daga al fianco e il bastone in mano tenevano lontani i curiosi da un corpo steso a terra.
Raggiunsero il cadavere. Il sole alto, che riduceva le ombre a sottili strisce scure ai piedi dei muri, lo illuminava in pieno.
«Perché l’avete girato?» chiese subito Mondino. «Sarebbe stato meglio che lo vedessi nella stessa posizione in cui era caduto.»
«Come sapete che...» ribatté Pellaio, sorpreso. «Ah, capisco. Le escoriazioni.»
Il cadavere aveva la fronte graffiata e insanguinata, perché era caduto a faccia in giù sui ciottoli; a metterlo di schiena dovevano essere stati i birri accorsi sul posto o qualche passante, probabilmente nel tentativo di riconoscerlo. Si trattava di un uomo sui trent’anni, grande e grosso, con folti capelli neri e grandi occhi castani ancora aperti e fissi nel vuoto. Indossava una veste di tela gialla, con inserti in seta verde che formavano un motivo decorativo sul petto e sulle maniche, ed era a capo scoperto. La bocca era circondata da una spuma biancastra, e i ciottoli accanto a lui erano sporchi di vomito. Da sotto il plesso solare sporgeva il manico di un pugnale, in osso lucidato. Intorno al punto in cui era penetrato, sulla veste si allargava una macchia di sangue scuro. Dall’angolazione del colpo si intuiva che l’assassino intendeva arrivare al cuore, ma per la fretta o per qualche altro motivo aveva colpito troppo in basso.
Un particolare strano era che, tra le escoriazioni e il sangue, si distingueva una H corsiva tatuata in inchiostro nero al centro della fronte.
«La spuma intorno alla bocca e il vomito sono segni di avvelenamento» disse Mondino a bassa voce. «Avete ragione, non credo sia morto per la coltellata. Dalla posizione del pugnale di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL SEGRETO DELL’ALCHIMISTA
  4. Prologo
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. Epilogo
  30. Nota dell’autore
  31. Ringraziamenti
  32. Copyright