Severina
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Severina

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Testimone della morte di un operaio ucciso dalla polizia, suor Severina si rifiuta di deporre il falso e in nome della sua coscienza denuncia la verità, lasciando la Chiesa. Un romanzo "politico" proprio perché attraversato dalla problematica religiosa della redenzione e della conseguente salvezza, non solo individuale, ma collettiva.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
Print ISBN
9788804469070
eBook ISBN
9788852058066

Capitolo 1

In quel tempo il direttore spirituale dell’Istituto Femminile “San Camillo de Lellis”, nell’antico borgo di Civitella, era ancora nominalmente don Gabriele Barbati; ma egli accudiva ai suoi doveri pastorali con sempre minor zelo. Per finire egli non si curava neppure di ritirare quel po’ di corrispondenza che arrivava al suo nome all’indirizzo dell’Istituto e che rimaneva inevasa in portineria. La medesima negligenza d’altronde egli manifestava nelle mansioni parrocchiali.
Nessuno attribuiva quel comportamento alla sua età (non era più giovane, ma neanche vecchio né invalido) bensì a un deterioramento del carattere che non si riusciva con precisione a definire. Presso molti fedeli era perciò invalsa l’abitudine, per le incombenze religiose di una certa importanza, di rivolgersi a lui tramite la vecchia madre, donna Adele; soltanto se essa lo prometteva, c’era qualche probabilità che l’impegno fosse mantenuto.
Perciò, quando donna Adele morì, da molti fu considerata una perdita dell’intera parrocchia. L’assenza del figlio dai funerali fu giustificata dalla voce ch’egli fosse malato, ma pochi vi credettero. La chiesa di San Camillo, il giorno del funerale, era affollata di persone per lo più anziane, le quali, arrivando, cercavano tra i presenti, per prima cosa e inutilmente, il figlio prete. Di notevole in chiesa non c’era che un paio di file di sedie occupate dalle suore del vicino Istituto, con la loro Madre Superiora, che usciva raramente (e infatti era arrivata in chiesa sorretta da una suora giovane). Il suono grave e lento del vecchio organo e la presenza delle suore davano al rito una certa solennità.
La relativa frescura iniziale del tempio fu ben presto annullata dall’assembramento della folla dei fedeli. A causa di ciò, alcuni di essi preferirono rimanere all’ingresso che parzialmente conservava la temperatura esterna. Il servizio funebre fu celebrato da un giovane prete mandato dalla curia diocesana e che nessuno conosceva. Anche questo sembrò a molti una stranezza, che per seppellire una vecchia donna di chiesa si chiamasse un giovane sconosciuto.
Come al solito, le donne stavano sedute o accoccolate per terra attorno al catafalco col feretro, mentre gli uomini erano rimasti in piedi, vicino alla porta tenuta aperta a causa dell’afa. Le donne, specialmente le più vecchie che avevano conosciuto la defunta, ne tessevano l’elogio. Questo non era irriverenza al culto, anzi, secondo la tradizione, ne faceva parte, benché alcune lodi potevano sembrare a doppio taglio. «Quanti sacrifizi ha affrontato la buon’anima in tutta la sua vita» dicevano. «La santa donna ebbe quello che aveva voluto, un prete in famiglia.» «Quanti sacrifizi ha affrontato per avere un prete.» «La vocazione era della madre, non del figlio.» Finché, data la piega che prendevano le lodi, non furono zittite dalla Madre Superiora (che tutte, anche le donne che non la conoscevano personalmente, avevano in gran riverenza). Tra gli uomini invece vi fu soltanto qualche mormorio su una pretesa avversione di don Gabriele contro le funzioni funebri, che non ebbe seguito.
Al termine della liturgia, prima di lasciare la chiesa molte persone, seguendo l’esempio della Madre Superiora, fecero le condoglianze a Maria Filomena, una vecchia domestica della defunta. Si sapeva che da giovanetta aveva vissuto con lei ed era considerata come una persona di famiglia. «La prego di avvertire don Gabriele» le disse la Superiora «che un paio di suore dell’Istituto andranno da lui questo pomeriggio per le condoglianze.» «Non so se saranno ricevute» borbottò Maria Filomena a bassa voce.
Ma in mancanza d’un avviso in senso contrario, subito dopo l’ora del vespro la Madre Superiora incaricò due suore insegnanti dell’Istituto di recarsi per le condoglianze da don Gabriele. «Malgrado tutto» ella disse «egli è ancora il nostro direttore spirituale.» Le due suore, suor Gemma e suor Severina, pur essendo assai diverse, erano molto legate tra loro, senza rendersi conto esattamente del perché. Suor Severina era rimasta orfana di madre in tenera età e quando entrò nel convento suor Gemma sfogò su di lei il suo istinto materno. Suor Gemma, insegnante di musica e religione e segretaria dell’Istituto, era una delle più anziane della casa, molto pia e del tutto indifferente alle questioni materiali e organizzative che ogni grande scuola comporta, ragion per cui la Madre Superiora aveva giudicato opportuno imporle precisamente quel compito. Suor Severina invece era tra le suore più giovani, dall’aspetto quasi adolescente; insegnava latino e letteratura italiana ed era assai rispettata per la sua cultura e la sua disciplina.
Intanto il tempo minacciava di cambiare; si era levato un vento di scirocco che sollevava bianche nuvole di polvere dalle strade.
L’abitazione di don Gabriele si trovava a breve distanza dall’Istituto, in una casetta decorosa a un solo piano, con un giardinetto di pochi fiori, però ben coltivati. Fu lo stesso prete che aprì la porta alle visitatrici e le invitò a entrare, rispondendo appena al saluto.
Il prete appariva invecchiato, forse perché aveva la barba incolta di alcuni giorni e indossava una zimarra gualcita. Egli condusse le ospiti attraverso la stanza di soggiorno, che fino al giorno prima era stata camera ardente per la defunta, nel proprio studiolo e le fece accomodare vicino alla finestra. Mentre suor Gemma prese a dire le parole di circostanza in cui era molto esperta, don Gabriele sembrava preoccupato di trovare un posto al riparo dalle correnti d’aria per suor Severina. Per riguardo alla suora più anziana, questa cercava di ricusarsi, trovando fuor di tempo e di luogo ogni attenzione particolare per sé.
Ma quando suor Gemma fece allusione al seguito delle preghiere funebri doverose per la buon’anima di donna Adele, a cui le suore si sarebbero associate, don Gabriele si volse verso di lei e domandò:
«Ah, vi sarà un seguito?»
Suor Gemma tacque un momento imbarazzata, guardò la consorella e poi aggiunse con voce incerta:
«Penso alle preghiere di rito per abbreviare il suo soggiorno tra le anime del Purgatorio. L’insegnamento della Chiesa non lascia dubbi in proposito.»
Don Gabriele rimase silenzioso e assorto, a testa china, e quel suo atteggiamento poteva attribuirsi all’emozione del recente lutto. Suor Gemma ritenne perciò suo dovere continuare con voce più dolce e persuasiva sullo stesso tema, citando l’opinione d’un famoso teologo gesuita, secondo il quale, prima di comparire davanti al trono di Dio, fosse logicamente necessario che ogni anima, anche la più santa, dovesse subire un profondo lavacro purificatore.
«Ah, se è per questo, i teologi gesuiti sanno tutto» sfuggì detto a don Gabriele. «Sopratutto San Roberto Bellarmino, al quale forse lei allude, e che difatti fu esperto del Purgatorio. Alcuni secoli fa, però. Ogni tanto la Chiesa riesce a modificare qualche suo insegnamento che non fu di Cristo. È già da tempo, per esempio, che è stato ufficialmente abolito il Limbo.»
A questo punto suor Severina, interpretando a modo suo le parole del prete, rivolse alla collega più anziana uno sguardo che la supplicava di affrettare la fine della visita; ma suor Gemma con benevola pazienza volle insistere:
«D’altronde, lei può insegnarci che non si tratta solo di opinioni teologiche, dal momento che sul Purgatorio vi sono prove materiali inoppugnabili della sua esistenza.»
Don Gabriele parve scosso nella sua apatia e chiese:
«Allude al cosidetto Museo del Purgatorio che si trova in una chiesa di Roma? Ebbene, non è più un vero museo, è ridotto a un paio di bacheche con qualche oggetto bruciacchiato, indumenti con impronte di mani di fuoco, di cui, come dire? la Chiesa ora preferisce non parlare.»
Suor Gemma guardò perplessa suor Severina. La Chiesa aveva vergogna della verità? Suor Severina finse di non vederla.
«Scusatemi» si affrettò a dire don Gabriele, «dimenticavo di parlare a delle suore. Discorriamo d’altro.»
«Perché? Le suore vanno trattate come bambine?» esclamò suor Severina che non temeva i discorsi temerari. «Perché non si parla di questo Museo? Perché non è mèta di studi, di pellegrinaggi? Oppure perché non viene chiuso, liquidato, abolito?»
Suor Gemma invece era rossa di confusione: doveva difendere la propria tesi, ma con quali argomenti? Quelli della Chiesa? Ma se ne serviva il prete per dubitare? D’altra parte, don Gabriele capì in ritardo di essere caduto in un discorso scabroso, dal quale difficilmente poteva tirarsi indietro.
«Visitai la chiesa, quel cosidetto museo» egli si mise a spiegare con qualche incertezza «in occasione del mio ultimo viaggio a Roma. Il sacerdote che ne ha la custodia mi mostrò le bacheche in questione e, dopo molte esitazioni, mi disse di averle trovate lì dove erano. La devozione di cui erano state oggetto nel passato le aveva rese in qualche modo sacre.»
«In quale modo?» domandò suor Severina che ora sembrava decisa a proseguire la conversazione. Ma in quel punto entrò nella stanza la perpetua Maria Filomena che, fatte le dovute cerimonie, servì il caffè. Invitata da don Gabriele a rimanere, ella cominciò a parlare del tempo.
«Un’afa simile non si era avuta da prima della guerra.»
Intanto lo scirocco si era fatto più violento e le due suore, per sfuggire al temporale che sembrava imminente, affrettarono la partenza.
«Riprenderemo con più calma la nostra conversazione sul Purgatorio» disse suor Gemma a don Gabriele, congedandosi.
Al momento d’andare via suor Severina ottenne in prestito da don Gabriele alcuni libri che arrivando aveva adocchiato sulla scrivania.
La visita aveva profondamente turbato suor Gemma.
«Hai avuto anche tu un’impressione di desolazione?» ella chiese alla consorella, una volta per strada.
«Egli soffre molto» rispose suor Severina. «Ha più che mai bisogno del nostro affetto.»

Capitolo 2

Appoggiandosi al suo bastoncino nero e claudicante per l’infermità che l’angustiava da vari anni, la Madre Superiora raggiunse a fatica il suo posto dietro lo scrittoio del suo studio e con un cenno della mano invitò suor Severina a sedersi di fronte a lei. La stanzetta era scarsamente illuminata da una lampada col paralume verde posato sul tavolo accanto a un crocefisso d’avorio. La Superiora aveva l’aspetto d’una vecchia contadina grassa ed energica. La giovane suora appariva più magra e pallida del solito.
«Come ti senti oggi? Ti sei misurata la febbre?» le chiese con premura la Superiora.
«Sto bene, grazie» rispose la giovane in tono piuttosto evasivo.
«Ne riparleremo» disse la Superiora. «Intanto dobbiamo concludere la nostra conversazione sull’inchiesta giudiziaria per il fattaccio accaduto nella nostra piazzetta. Non sto a ricordare la mia fosca previsione di quello che ora è accaduto. Parliamo dell’inchiesta. Dunque, che tu fossi per caso presente alla zuffa era già noto alla polizia e agli avvocati, e che tu sia quindi l’unico testimone oculare estraneo ai fatti a cui il tribunale non possa rinunziare, ci è stato detto e ripetuto da varie parti.»
«Don Gabriele invece è dell’opinione contraria» cercò timidamente di obiettare la giovane suora. «Lui dice che…»
«Se n’è già parlato abbastanza» ribadì con impazienza la Superiora. «Se non ti presenterai spontaneamente in giudizio, vi sarai condotta dai carabinieri. Questa è l’opinione di persone che conoscono la legge meglio di noi due e di don Gabriele.»
Suor Severina fece un leggero inchino in segno di docile ubbidienza. «Non ho paura» aggiunse con voce sicura e un lieve sorriso. Un’improvvisa tenerezza per la giovane prese la Superiora.
«Chi potrebbe immaginare» ella disse «che a cuore leggero io possa esporre a una prova tanto difficile una figlia così cara come tu sei sempre stata per me?»
«Non ho mai osato dubitarne» quella rispose con un fil di voce. Ella sapeva di essere considerata da tutto l’Istituto come la suora preferita dalla Superiora. La sua rinunzia alle vacanze estive per rimanerle accanto ne era stata una recente conferma.
Dopo una breve pausa la Superiora riprese a dire: «Intanto stanno per sorgere nuove difficoltà tra l’Istituto e le autorità scolastiche. Poiché si tratta di scuola, devo parlartene. Credevo che la parificazione con le scuole statali fosse ormai una conquista definitiva per il nostro Istituto. Tanto più che tra le insegnanti ora abbiamo te che hai una laurea di Stato. Ebbene, pare che non basti più».
Era una notizia terribile per la Madre Superiora; l’Istituto era il suo orgoglio, l’opera per la quale non avrebbe esitato a sacrificare la vita.
«Ne ha parlato con don Gabriele?» domandò suor Severina.
«Don Gabriele» riprese infastidita la Superiora «è malvisto al Provveditorato, è considerato un anarchico, o qualcosa di simile, non so. Il vescovado ha perciò incaricato della faccenda don Antonio.»
A questo nome suor Severina non riuscì a trattenere un’esclamazion...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Presentazione. di Geno Pampaloni
  4. Premessa. di Darina Silone
  5. LA SPERANZA DI SUOR SEVERINA
  6. Capitolo 1
  7. Capitolo 2
  8. Capitolo 3
  9. Capitolo 4
  10. Capitolo 5
  11. Capitolo 6
  12. Capitolo 7
  13. Capitolo 8
  14. Capitolo 9
  15. Capitolo 10
  16. Capitolo 11
  17. Capitolo 12
  18. Storia di un manoscritto. di Darina Silone
  19. et in hora mortis nostrae. di Ignazio Silone
  20. et in hora mortis nostrae
  21. Le ultime ore di Ignazio Silone. di Darina Silone
  22. Testamento
  23. Ai piedi di un mandorlo. di Ignazio Silone
  24. Nota dell’Editore
  25. Copyright