London
  1. 1,008 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Dalla conquista romana a oggi sulle rive silenziose del Tamigi si intrecciano le storie avventurose di decine di personaggi indimenticabili, dal falsario Julius agli attori di Shakespeare.
Dopo i successi internazionali di Sarum e Russka, Edward Rutherfurd dà vita a un nuovo affascinante romanzo nel quale, ancora una volta, la precisione storica si unisce alla grande tradizione narrativa anglosassone.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804468776
eBook ISBN
9788852046865

1

Il fiume

Da quando la Terra aveva conosciuto la sua giovinezza, quel luogo era stato più volte sommerso dal mare.
Quattrocento milioni di anni fa, quando la configurazione dei continenti era assai diversa da quella attuale, l’isola era parte integrante di un piccolo promontorio sul bordo nordoccidentale di una vasta e informe massa continentale.
Il promontorio, che si protendeva solitario nel grande oceano del mondo, era desolato. Nessun occhio, tranne quello di Dio, l’osservava. Nessuna creatura si muoveva sulla terra, nessun uccello si librava nel cielo, né pesci abitavano le acque.
In quel tempo remoto, nell’angolo sudorientale del promontorio, la scomparsa di un mare si lasciò dietro una nuda distesa di spessa, scura ardesia. Giaceva silenziosa e deserta, simile alla superficie di un pianeta non ancora scoperto, la grigia roccia interrotta qua e là soltanto da basse pozze d’acqua.
Sotto lo strato di ardesia, nelle profondità della Terra, spinte e forze ancora più antiche avevano sollevato una giogaia digradante, alta circa seicento metri, che solcava il paesaggio simile a un’enorme diga.
E quel luogo rimase a lungo così, grigio e silenzioso, sconosciuto come il vuoto infinito prima della nascita.
Negli otto periodi geologici che seguirono, durante i quali i continenti si spostarono e si formò gran parte delle catene montane mentre la vita gradualmente si evolveva, nessun sommovimento della Terra turbò il luogo in cui si stendeva la giogaia di ardesia. Più volte nuovi mari vennero a lambirlo e se ne allontanarono, alcuni freddi, altri caldi. Ciascuno di essi vi rimase per molti milioni di anni, depositando sedimenti spessi decine e decine di metri, tanto che alla fine la giogaia di ardesia, per quanto alta, ne fu ricoperta, spianata e sepolta in profondità, senza quasi lasciare traccia della sua esistenza.
Mentre la vita cominciava a svilupparsi sulla Terra, la vegetazione ne ricopriva la superficie e le acque si popolavano di creature, altri strati si aggiunsero, formati da questa nuova vita organica a cui il pianeta aveva dato origine. Un grande mare che si ritrasse più o meno al tempo dell’estinzione dei dinosauri, lasciando una così prodigiosa quantità di sostanze organiche e plancton che il calcare derivatone finì col coprire di uno strato alto una novantina di metri gran parte dell’Inghilterra meridionale e della Francia settentrionale.
E fu così che, dove giaceva sepolta l’antica giogaia, apparve un nuovo paesaggio.
Aveva una forma completamente diversa. Via via che altri mari avanzavano e si ritiravano ed enormi sistemi fluviali dilagavano dall’interno in quell’angolo del promontorio, la crosta di calcare prese la forma di un’ampia e bassa valle larga una trentina di chilometri, bordata di creste a nord e a sud, e aperta in un’enorme V verso est. Svariate inondazioni fecero sedimentare ulteriori depositi di ghiaia e sabbia, e una di esse lasciò al centro della valle uno spesso strato di materiale morbido che un giorno sarebbe stato conosciuto col nome di argilla londinese. Inondazioni e periodi siccitosi fecero anche sì che quei depositi più recenti dessero origine a nuove, meno imponenti giogaie all’interno della grande V di calcare.
Tale era il luogo destinato a diventare Londra, circa un milione di anni fa.
Dell’uomo ancora nessuna traccia. Un milione di anni fa, benché avesse già acquisito la posizione eretta, il suo cranio era ancora simile a quello di una scimmia. E prima che facesse la sua comparsa, doveva avere inizio un grande fenomeno naturale.
L’era glaciale.
Non fu la formazione di strati ghiacciati sulla Terra ad alterare il paesaggio, bensì la loro scomparsa. Quando il ghiaccio cominciò a sciogliersi, infatti, i fiumi gelati presero a ribollire e i formidabili ghiacciai, simili a lente scavatrici geologiche, scalpellarono vallate, misero a nudo alture e trascinarono via la ghiaia che riempiva il letto dei fiumi creati dalle loro acque.
Nel corso dei vari avanzamenti della calotta artica, il piccolo promontorio nordoccidentale della grande massa continentale eurasiatica era stato solo parzialmente coperto dal ghiaccio. Al massimo della sua estensione, il muro di ghiaccio si trovò in corrispondenza del bordo settentrionale della lunga V di calcare. Giunto a questo punto, circa mezzo milione di anni fa, avviò un processo gravido di conseguenze.
A quel tempo, un grande corso d’acqua scorreva verso est dal centro del promontorio e curvava a nord della lunga V. Quando il progredire del ghiaccio ne bloccò la corrente, il fiume deviò. Le sue fredde acque vorticose cercarono un altro sbocco, e circa sessantacinque chilometri a ovest della giogaia di ardesia fuoriuscirono da un punto debole della cresta di calcare, creando quell’angusta gola chiamata oggi Goring Gap, e fluirono verso est lungo il centro della V, pronta ad accoglierle.
Fu così che ebbe origine il fiume.
Durante questi continui movimenti dei ghiacci, a un certo punto fece la sua comparsa l’uomo. Difficile stabilire una data. Quando il fiume irruppe attraverso il Goring Gap, l’uomo di Neanderthal non era ancora presente. Soltanto in concomitanza con l’ultima glaciazione, poco più di centomila anni fa, si è avuta l’evoluzione dell’uomo quale lo conosciamo. A un certo punto, durante l’arretramento del muro di ghiaccio, mise piede nella valle.
Infine, poco meno di diecimila anni fa, le acque prodotte dallo scioglimento della calotta artica inondarono la pianura sul lato orientale del promontorio e, irrompendo attraverso le creste di calcare fino a formare una grande J, si riversarono attorno alla sua base creando uno stretto canale che fluiva verso ovest, fino all’Atlantico.
Come un’Arca di Noè dopo il diluvio, il piccolo promontorio divenne un’isola, libera ma per sempre ancorata, appena al largo del grande continente di cui aveva fatto parte. A ovest, l’oceano Atlantico; a est, il gelido Mare del Nord; lungo il bordo meridionale, dove gli alti dirupi di calcare si affacciavano sul vicino continente, lo stretto canale della Manica. Fu così che, circondata dai mari settentrionali, ebbe origine l’isola di Britannia.
La grande V di calcare non portava più a una pianura, ma direttamente al mare. Il suo lungo imbuto divenne un estuario, sul cui lato orientale le creste di calcare virarono verso nord, lasciando sul loro fianco una distesa di basse foreste e di paludi. Sul lato meridionale, una lunga penisola con alte giogaie di calcare e fertili vallate si protendeva per oltre cento chilometri a formare la punta sudorientale dell’isola.
L’estuario aveva una particolare caratteristica: al sopraggiungere della marea, non solo controllava lo straripamento del fiume, ma addirittura ne invertiva il corso. Con l’alta marea le acque risalivano l’imbuto sempre più stretto dell’estuario e proseguivano lungo il fiume, mentre col riflusso defluivano rapidamente in mare. Ne risultava una forte corrente nel tratto inferiore del corso d’acqua, con una differenza di oltre tre metri fra i livelli raggiunti dall’alta e dalla bassa marea.
L’uomo era già presente quando si verificò la separazione dell’isola dal continente. Nei millenni che seguirono, altri uomini attraversarono l’angusto anche se pericoloso braccio di mare che isolava la Britannia. In questo periodo ebbe inizio la Storia.
54 a.C.
Cinquantaquattro anni prima della nascita di Cristo, sul finire di una fredda notte di primavera trapunta di stelle, duecento persone si erano radunate a semicerchio in riva al fiume, in attesa dell’alba.
Dieci giorni erano trascorsi dall’arrivo dell’infausta notizia.
Di fronte a loro, ai bordi dell’acqua, si stagliava un gruppetto di cinque figure. Silenti e immobili, nelle lunghe tuniche grigie, erano simili ad altrettante pietre erette. Erano i druidi in procinto di celebrare un rito che, si sperava, avrebbe salvato l’isola e il loro mondo.
Tra coloro che si erano radunati in riva al fiume c’erano tre persone, ciascuna delle quali, indipendentemente dalle speranze o dai timori che potevano aver nutrito riguardo alla minaccia che si prospettava, custodiva un terribile segreto.
Erano un ragazzo, una donna e un vecchio.
In quel punto mare e fiume s’incontravano. Più a valle, in una serie di vaste anse, il corso d’acqua sempre più ampio attraversava un’aperta distesa paludosa finché, una quindicina di chilometri più in là, sfociava nel lungo imbuto rivolto a oriente dell’estuario per poi raggiungere il gelido Mare del Nord. Più a monte, il fiume serpeggiava tra boschi e rigogliose praterie pianeggianti. E qui, tra due grandi anse del fiume, c’era un bellissimo tratto, lungo circa sei chilometri, dove il fiume si dirigeva verso est con un’uniforme, maestosa corrente.
Era determinata dalla marea. Con l’alta marea, che invertiva la corrente nell’estuario, questa via d’acqua raggiungeva una larghezza di un chilometro; con la bassa marea, di soli trecento metri. Al centro, a metà strada lungo la sponda meridionale acquitrinosa, un’isolata lingua di ghiaia si protendeva nella corrente, formando un promontorio durante la bassa marea e tramutandosi in un’isola quando c’era quella alta. Era sulla sommità di questa lingua di terra che se ne stava la piccola folla. Sulla sponda opposta, quella settentrionale, si trovava il luogo, ora deserto, che aveva nome Londinos.
Londinos. Anche in quel momento, nella luce dell’alba, si scorgeva chiaramente al di là dell’acqua il profilo dell’antico insediamento: due basse colline di ghiaia dalle sommità pianeggianti che si ergevano l’una accanto all’altra per circa venticinque metri sul livello dell’acqua, simili a un paio di gonfie mammelle che con la maturità si erano un po’ appiattite. Tra le due colline scorreva un torrentello. A sinistra, sul fianco occidentale, un corso d’acqua più grosso scendeva verso una larga insenatura che interrompeva la sponda settentrionale.
Sul fianco orientale delle due colline c’era stato un tempo un piccolo fortino il cui basso terrapieno, ora deserto, poteva servire come postazione di avvistamento delle imbarcazioni in arrivo dall’estuario. La collina occidentale era a volte usata dai druidi quando sacrificavano i buoi.
Non c’era altro. Un insediamento abbandonato. Un luogo sacro. I centri tribali erano situati più a nord e più a sud. Le tribù sulle quali esercitava il suo dominio il grande capo Cassivellauno erano stanziate nelle immense distese orientali oltre l’estuario e la tribù dei Cantii, che aveva già conferito alla regione il nome di Kent, nella lunga penisola a sud. Il fiume segnava il confine tra di loro, e Londinos era una sorta di terra di nessuno.
Il suo stesso nome era oscuro. Qualcuno diceva che lì avesse vissuto un certo Londinos; altri ipotizzavano che potesse riferirsi al piccolo terrapieno sulla collina orientale. Ma nessuno lo sapeva per certo. Chissà come, nell’ultimo millennio, il luogo aveva assunto quel nome.
La brezza fredda risaliva il fiume dall’estuario. Aleggiava un pungente sentore di fango e di erbe palustri. In alto, la lucente stella del mattino cominciava a sbiadire via via che il cielo sereno diventava di un azzurro più chiaro.
Il ragazzo rabbrividì. Se ne stava lì da un’ora e aveva freddo. Come la maggior parte della gente lì radunata, indossava una semplice tunica di lana lunga fino alle ginocchia e stretta in vita da una cintura di cuoio. Accanto a lui si trovava sua madre con il suo fratellino in braccio. Il ragazzo teneva per mano la sorella minore, la piccola Branwen, ché era suo compito, in occasioni del genere, tenerla d’occhio.
Era un ragazzino sveglio, coraggioso, bruno di capelli e con gli occhi azzurri, come la maggior parte della gente celtica. Si chiamava Segovax e aveva nove anni. Da un esame più attento, però, nel suo aspetto si sarebbero notati due tratti piuttosto insoliti. Sulla parte anteriore del capo, nel ciuffo sulla fronte, cresceva una ciocca di capelli candidi, come se qualcuno vi avesse passato un pennello intinto nella pittura bianca. Si trattava di un marchio ereditario diffuso in parecchie famiglie che abitavano nei villaggi disseminati in quella regione del fiume. «Non devi preoccuparti» gli aveva detto sua madre. «Moltissime donne lo trovano attraente.»
La seconda caratteristica era assai più strana. Quando il ragazzo allargava le dita, si vedeva che tra esse, per tutta la prima falange, c’era un sottile strato di pelle, come sulle zampe palmate di un’anitra. Anche questo era un marchio ereditario, sebbene non comparisse in ogni generazione. Era come se, in un remoto tempo primordiale, nell’immenso oceano dal quale si erano evolute tutte le creature, un qualche gene di un prototipo ittico dell’uomo si fosse testardamente rifiutato di mutare completamente il proprio carattere acquatico trasmettendo quel vestigio delle sue origini. In effetti, con quel suo volto dai grandi occhi e il corpo scattante, in qualche modo il ragazzino faceva pensare a un girino o a qualche altra creaturina delle acque, a un guizzante superstite negli infiniti eoni del tempo.
Anche suo nonno aveva presentato la stessa caratteristica. «Ma gli hanno tagliato via la pelle in più quando era in fasce» aveva detto il padre di Segovax a sua moglie. Lei, però, non sopportava l’idea del coltello, sicché non se n’era fatto nulla. La cosa non preoccupava il ragazzo.
Segovax lasciò vagare lo sguardo sui membri della sua famiglia: la piccola Branwen, col suo carattere affettuoso e i capricci incontrollabili; il piccolo in braccio a sua madre, che a malapena camminava e parlava; la mamma, negli ultimi tempi pallida e stranamente assente. Quanto bene voleva loro. Mentre fissava lo sguardo al di là dei druidi, le labbra di Segovax si schiusero in un piccolo sorriso. La cosa più bella, ai bordi dell’acqua, era una modesta zattera con accanto due uomini in piedi, uno dei quali era suo padre.
Avevano tante cose in comune, padre e figlio. Il ciuffetto di capelli bianchi, gli occhi grandi. Il volto di suo padre, solcato da rughe simili a squame, faceva pensare a una solenne creatura acquatica. Era talmente dedito alla sua famigliola, un così profondo conoscitore del fiume, così esperto con le reti, che la gente del posto lo chiamava semplicemente il Pescatore. E benché altri uomini, si era reso conto Segovax, fossero fisicamente più forti di quel tranquillo individuo con le spalle curve e le braccia lunghe, nessuno era più gentile o più quietamente risoluto di lui. «Può darsi che non sia un granché di aspetto» dicevano gli uomini del villaggio, «però è uno che non si tira mai indietro.» Sua madre, Segovax lo sapeva, adorava suo padre. E lui la ricambiava.
E questo era il motivo per cui, il giorno prima, lui aveva concepito un piano audace che, se fosse riuscito a mettere in atto, con tutta probabilità gli sarebbe costato la vita.
Ora il bagliore lungo l’orizzonte, a oriente, accennava a tremolare. Di lì a qualche minuto sarebbe spuntato il sole, e un raggio di luce sfolgorante sarebbe sceso da est danzando sul filo della corrente. I cinque druidi che fronteggiavano la folla in ascolto intonarono una bassa cantilena.
A un segnale convenuto, un uomo si fece avanti. Era possente e il suo fastoso manto verde, gli ornamenti d’oro e il fiero portamento ne rivelavano l’origine aristocratica. Reggeva nelle mani un oggetto piatto e rettangolare di metallo, la cui superficie brunita luccicava debolmente alla luce sempre più intensa. Lo porse al druido alto e con la barba bianca, che stava ritto al centro del cerchio.
I druidi si volsero in direzione dell’orizzonte illuminato e l’anziano al centro fece un passo avanti e montò sulla zattera. Nello stesso istante i due uomini in attesa, uno dei quali era il padre di Segovax, salirono dietro a lui e manovrando lunghi remi condussero il natante al largo, in mezzo al fiume.
Gli altri quattro druidi cantilenavano, un suono monotono che crebbe misteriosamente, spandendosi sull’acqua mentre la zattera si allontanava. Cento metri. Duecento.
Il sole apparve, immensa curva rossa sull’acqua. Crebbe, e il suo globo formidabile inondò il fiume di luce dorata. I quattro druidi rimasti a terra, stagliati controluce, d’un tratto parvero giganti le cui lunghe ombre si proiettavano sulla foll...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Edward Rutherfurd
  3. London
  4. Prefazione
  5. 1. Il fiume
  6. 2. Londinium
  7. 3. La croce
  8. 4. Il Conquistatore
  9. 5. La Torre
  10. 6. Il santo
  11. 7. Il sindaco
  12. 8. Il bordello
  13. 9. Il Ponte di Londra
  14. 10. Hampton Court
  15. 11. Il Globe
  16. 12. Il fuoco di Dio
  17. 13. L’incendio di Londra
  18. 14. St Paul
  19. 15. Gin Lane
  20. 16. Lavender Hill
  21. 17. Il Crystal Palace
  22. 18. Il Cutty Sark
  23. 19. La Suffragetta
  24. 20. Il Blitz
  25. 21. Il fiume
  26. Ringraziamenti
  27. Copyright