Zazà dopo la morte di Annalisa era cambiato. Ancora carcere. Poi la semilibertà. In uno dei suoi permessi aveva preso una piccola casa colonica di pietra rossa e calce viva nel ventre di un prospero vigneto nella Valle d’Itria. Il più lontano possibile dalla 167 dove aveva vissuto sino ad allora. Iniziò a fare lavoretti nelle campagne. Aveva piantato alcuni ortaggi e manteneva due filari di viti che aveva ereditato dal vecchio proprietario. In carcere aveva imparato a intrecciare le paglie di vimini e fare cesti. Costruiva nasse di giunco, corbeille di rafia e panieri di paglia che vendeva sottobanco nelle fiere di paese. Non è difficile iniziare a lavorare in campagna. Il vero miracolo è viverla e mantenerla. Zazà acquisì tutte le qualità per farlo. La pazienza, dunque il senso del tempo. La tolleranza, dunque il senso della propria energia. L’istinto, dunque il senso del cielo e della terra.
L’estate del 2006 segnò una serie di eventi che con prepotenza entrarono nelle nostre vite in cerca di consolazione. L’Italia vinse i mondiali, quella generazione di calciatori che apparteneva alla nostra generazione, Materazzi, stopper pugliese che Zazà dribblava nei pomeriggi gelidi di un quindicennio prima, alzava la coppa del mondo. È un particolare di poco conto all’interno di questo mosaico in costante ricerca di rasserenamento, eppure mi emozionò. Migliaia di trentenni italiani con in testa il vecchio sogno cullato da ragazzi assistevano al trionfo di chi lo aveva realizzato. Forse bastava un po’ di determinazione, l’avviso dell’ineluttabile, l’incoscienza dei giorni a venire. Migliaia di menti si sintonizzarono all’indietro e scavarono nello scrigno dei desideri irrealizzati.
Domenico Zazà, sempre più Domenico, sempre meno Zazà, diventava finalmente un uomo libero grazie a una criticata legge sull’indulto e poté constatare di persona che la bilancia del talento non è la stessa della giustizia. Lui, il più forte incantatore di palloni e portieri (e continuava a incantare ancora fuori dal campo un portiere malandato come me), partecipava al rito calcistico come inutile spettatore. Il talento non serviva quanto la determinazione per realizzare i sogni più impossibili.
La morte di Annalisa lo aveva prostrato, ma questo non lo ammetteva con nessuno, neanche a se stesso.
Nella sua ultima esperienza carceraria aveva incontrato Giancarlo Cito, si erano incrociati nell’ora d’aria. Domenico lo aveva a pochi metri, un niente dall’ideologo dei suoi primi aggressori, tanti anni prima. Eppure non venne sfigurato dal demone della vendetta e gli porse un pietoso sorriso, quello che si regala a chi è caduto da molto in alto. Ma Zazà andò oltre e un giorno gli donò della carta, un bene prezioso dentro il carcere («A me non serviva»).
Dopo l’indulto non lo avevo più visto, ci eravamo scritti alcune lettere come due antichi signori primonovecenteschi, un esule e un prigioniero. Poi le lettere erano diventate sempre più rade, sino a trasformarsi in sporadiche cartoline. Chissà, Zazà, anzi Domenico, aveva saputo di Annalisa, della vera ragione della sua fine? Aveva avuto idea di quale brevissima ma fulminante agonia l’aveva colpita?
Appena ripresa la vita da uomo libero, oltre alla cura della vigna, Domenico Copertino iniziò a collezionare pietre.
Un pomeriggio con il sole che aveva infuocato le colline sassose della campagna, un’ombra sbilenca e incomprensibile aveva iniziato a portare selci, ciottoli e rocce nel suo orto. I vicini raccontano che da un certo periodo per tutti i giorni «U Zazà apprisse a na bici e nu carrettidde sceve alla cave e turnava chieno di pische e mazzacani e a faccia gnura di terra.»
Lo si vedeva quotidianamente affaticato contro il profilo tondo e coriaceo delle dune terrose. E non cessava mai di compiere quel rito misterioso. Si svegliava all’alba e terminava solo quando il buio si era mangiato ogni forma della rada. Col sole rotondo e rosso di un tramonto primaverile, con il cielo basso e opaco dell’estate, con i pomeriggi gialli d’inverno. Con la campagna che cambiava colori e odori, non cessava mai quell’andirivieni.
Le pietre erano servite a Zazà per alzare piccole montagne. I cumuli crescevano e si disseminavano per la vigna assumendo la forma delle specchie e dei basamenti dei trulli.
«Vuole alzare i muri a secco» spiegò qualcuno, per altri «Sono gli argini dei canali.» Ma forse era solo uscito pazzo. «Ricordate Cenzoum, che raccoglieva sempre cicche e cartacce, questo raccoglie pietre…»
Le pietre aumentavano, i mucchi diventarono recinti, i recinti diventavano muri, i muri vennero traforati e lavorati. Crescevano circolari e verso il cielo. Poi vennero le arcate regolari. Pareva l’immagine di un minuscolo anfiteatro romano.
Per fare questo Zazà aveva smesso di dormire e aveva consacrato la sua vita a quella inspiegabile opera. Lavorava l’intera notte, prima stava ai campi, poi andava a occuparsi delle vigne dove veniva chiamato a ore e poi, con una lucerna elettrica che spaccava il silenzio delle ore notturne con un ronzio assordante, si dedicava al suo misterioso progetto.
Dopo alcuni mesi, alla fine dell’inverno la gente tornò nella contrada per vedere i danni delle gelate nei fondi.
Ma una volta lì, furono sorpresi da questo strano dente grigio che sorgeva nel centro della tenuta di Zazà. Era l’esatta riproduzione del Colosseo e accanto vi era una struttura simile, lievemente più piccola, e poi dietro, sulla collina, dominante, una torre curva, appena piegata, che svettava davanti all’orizzonte bronzeo delle albe murgesi. Poco sotto si allungava tra due cumuli di terra rossa un ponticello di pietra con il sussiego di fregi. Erano la Torre di Pisa e il Ponte Vecchio. Perfette riproduzioni anche queste.
«U Zazà iè assott pacce! Si è messo a fare la piccola Italia.»
Ma la commiserazione non lo toccava mai. Anzi, l’attenzione lo spingeva a continuare nell’opera di manutenzione e costruzione di quei grandi e misteriosi manufatti. Due impalcature erano ancora appoggiate alla torre di Pisa. Nessuno aveva il coraggio di chiedergli conto di quell’impresa. Un’impresa senza ragioni è, come tutte le imprese senza ragioni, un segno ulteriore del mistero. Il mistero che si poteva avvertire solo in quelle ferite al cervello che Cenzoum riteneva necessarie per vivere. Si sa, senza ferita non si può vivere. Solo i bambini della contrada avevano il coraggio e la coscienza sana di andarlo a vedere e chiedergli “cos’erano” quelle costruzioni. Domenico non rispondeva e preferiva aggirare le loro scomode domande. Raccontava fiabe, s’era messo a cavar fuori tutti i “cunti” della tradizione, delle megere diventate cavalle, dei monachicchi, dei lasciti, dei fantasmi. Che razza di uomo era diventato! Quei bambini restavano ore a guardarlo nella frattaglie colorate della campagna. Restavano rapiti dalle sue parole, e dalle sue mani imbiancate e piagate che alzavano i monumenti. Qualcuno più intraprendente gli passava qualche pietra. Com’erano diversi quei bambini da noi, che si sapevano stupire ancora di un folle, che non avevano ancora bisogno di prendersi a cartoni in faccia, di far saltare in aria le santabarbare pulsanti sotto i loro piedi. Poi calava la sera martinese, i primi grilli ronzavano come cortocircuiti e i bambini sciamavano. Domenico rimaneva solo con quei mausolei.
E su questo sfondo di enigma, di ferite al cervello, di Zazà come solo Zazà poteva, si dipinse l’evento che mi aveva riportato a casa. Quell’evento definito “mostruoso” da mio padre aveva come protagonista colei che si era stampata nella mia anima e, da provetta jeure, non mi avrebbe mollato più.
Ogni anno la prima settimana di gennaio venivano riesumate le salme di coloro che erano morti da cinque anni. Quel gennaio toccava ad Annalisa.
Erano le cappelle comunali dove venivano tumulati i corpi di chi non aveva congrega e a Martina quasi nessuno era senza congrega. Annalisa era lì, in mezzo ai figli di nessuno, agli atei e alle salme degli emigrati che erano tornati e non avevano trovato più i loro padri. Era lì, di fronte a grandi lecci ingialliti dalla brutta stagione. Annalisa riposava nell’angolo eretico e più isolato del camposanto.
Un inquietante capannello di curiosi contemplava la scena della riesumazione. Il lugubre spettacolo richiamava gran parte del popolo del cimitero, i vedovi, gli orfani, i beccamorti. La nebbia dicembrina è una fuliggine che si posa sugli abiti, quei lugubri curiosi si riparavano sotto gli archi e con le mani aperte si scrollavano dai cappotti l’acqua condensata.
I due addetti erano ben avvinazzati, si camminavano addosso sorreggendosi con le vanghe. Posarono la scala, salirono e iniziarono a rompere l’intonaco e scavare la membrana di pietra. Estrassero la bara dal muro di cemento dove erano infilati a scacchiera i feretri dei morti. I becchini quando tirarono fuori la cassa si scambiarono subito uno sguardo interdetto e persero il colore rossiccio del viso. Quella cassa da morto era troppo leggera. Sembrava che il corpo di Annalisa si fosse polverizzato. A volte capitava. Ma erano passati solo cinque anni… quando il catafalco fu scoperchiato la gente addossata sui parapetti che davano sulla piccola piana delle riesumazioni iniziò a segnarsi e sospirare di stupore. Uno dei due beccamorti si mise le mani in testa e fece uno strillo alto nella nebbia.
La bara era vuota.
Fu avvertita la polizia e poi il caso arrivò in procura. Nei mesi precedenti erano stati ritrovati dei bivacchi di sospetti satanisti nelle campagne tra Ostuni e Martina. In contrada Galante una chiesa rupestre era stata sfregiata e la croce capovolta. Ma la pista satanica fu archiviata non appena si trovarono i balordi artefici di questi vandalismi.
L’inchiesta allora seguì un’altra pista, quella dell’“occultamento di cadavere”. Ma chi poteva aver compiuto una simile insensatezza?
Ecco finalmente la ragione della mia convocazione, il motivo che mi sradicava così urgentemente da Torino, che mi salvava dall’eleonorite e mi spingeva in un altro morbo funesto, quello dei ricordi rimossi.
Eravamo stati chiamati Zazà e io. In fin dei conti gli unici uomini di Annalisa, Zazà il suo grande amore non corrisposto, e io, il suo più grande amante meno corrisposto. Ero sgomento: essere in un’aula giudiziaria a rispondere dei miei sentimenti verso qualcuno che agli occhi di tutti era un cumulo di ossa polverose.
Eccomi catapultato nel tribunale di Martina, sezione distaccata della sede di Taranto. Veleno, aka Francesco Rasoschi, Zazà, aka Domenico Copertino. Un abbindolatore e un seduttore. Dopo tanto tempo eravamo insieme, uno accanto all’altro.
Silenzioso, guardavo controluce la sua barba malfatta e dura; chiacchierammo con ostentata disinvoltura, come per dimostrare di non avere nulla da temere. Gli guardavo le mani, gonfie e callose, con le aureole delle unghie ingiallite dalla terra. Erano le mani di uno scultore per i bozzi, ma anche le mani di un contadino per il colore d’orbace. Mi accorsi che era gonfio e spento e decisi in quell’istante di non vedere più chi avevo visto bambino. Zazà l’ingovernabile, l’indomabile capobranco delle santabarbare abbandonate, dei giochi estremi d’infanzia, delle partite sepolte nell’adolescenza e di quei momenti acuti con la nostra Annalisa, Zazà, non c’era più.
La panchina dove eravamo seduti era abbastanza grande per accogliere altra gente. Ma nonostante fossero molti gli avvocati, i funzionari e gli imputati che passeggiavano per quel corridoio su e giù, nessuno voleva sedersi con noi. Il particolare ci fece sorridere, dentro il mio cuore pensai che in quel posto vuoto doveva esserci Annalisa, ma non c’era più tempo per le nostalgie.
Avanti Veleno! Mi chiamava la voce della coscienza e poi fui chiamato anche da quella della giustizia «Francesco Rasoschi!»: era un commesso dal viso grande e minuscoli tratti, ingrigito dall’acne. Avanzai con addosso le facce di giovani procuratori, avvocati e praticanti che mi osservavano con falsa noncuranza. La notizia di Annalisa aveva fatto il giro del paese.
Entrai e vidi il profilo chino di un uomo con i contorni sghembi, gli stessi di un risveglio. Era il giudice. Non alzò la testa dal tavolo, «Buongiorno, Francesco Rasoschi», scrisse a penna su un quaderno il mio nome in una calligrafia minuscola, ma piena di svolazzi, poi ripeté lo stesso gesto su un registro. Continuava a non alzare la testa mentre la stanza squallida, da segreteria scolastica, con le pareti di faldoni e cartelle, sembrava chiudersi su di me come una pianta carnivora.
Il giudice era giovane, aveva un volto abbronzato, il viso sprizzava benessere. Mi mise a conoscenza di una scena che si era verificata in mattinata. Quel racconto mi sembrò ammantato di un sottile velo ricattatorio.
La sorella di Annalisa era tornata dalla Svizzera dove era emigrata anni prima. Era piombata nella procura come bufera. Aveva iniziato a mettere sottosopra i corridoi gremiti urlando «Anche da morta non l’hanno lasciata in pace! Anche da morta!» e poi ruggì «Vi odio tutti! I morti si lasciano in pace, non ve lo hanno mai detto in questa città?». Fu portata via di peso dal cancelliere e un inserviente delle pulizie. «Lasciate i morti! Lasciate i morti!» gridava nelle scale che piombavano nell’androne del tribunale.
«Lei conosceva la D’Efebo?» Fu la prima, retorica, domanda di quell’interrogatorio. Si aprì nella mia mente una ferita oscura. Forse era dovuta alla scansione del cognome, quelle tre sillabe espulse da labbra che reputavo ostili, inquisitorie. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia. Le domande del giudice più insidiose erano quelle oblique. Dove non si parlava di me e Annalisa, ma di Annalisa e il mondo. Mi obbligavano a non omettere nulla. Chi la frequentava, con chi la vedevo uscire, se avevo mai sentito voci bizzarre su di lei. Figurarsi. Voci bizzarre su Annalisa…
Quando l’avevo vista l’ultima volta, se avevo mai litigato, se ero mai stato geloso di lei. Volevo protestare, mi sembrò che mi trattasse come un assassino.
Non avevo nulla da nascondere, eppure quella percezione angosciosa che avevo avuto sin dall’inizio, si tramutò in balbuzie, in un tono sbagliato, in frasi e parole compromettenti. «Ho un alibi» mi sembra di ricordare d’aver detto a un certo punto.
Era una sensazione di colpevolezza acuita, per giunta, dal fantasma della mia fedina penale e del suo elenco di truffe tutte abbastanza ingegnose, dunque all’altezza del delitto.
Il giudice era perfetto, quando dispiegò finalmente il suo sguardo nel mio, e i suoi occhi, lunghi e fermi, mi filarono dentro il cuore, vacillai. Divenni colpevole, ero stato io. Annalisa l’avevo sottratta furtivamente nel tragitto che la portava alle cappelle municipali. Davanti a quegli occhi saldi, quella postura autorevole, quel chiaroscuro che modellava la stanza e alla sua imponenza e alla mia piccolezza, volli confessare quello che non avevo fatto. Fu allora che lo stesso giudice mi trasse d’impaccio chiedendomi di Zazà e Annalisa.
In quali reconditi sepolcri stavo andando a raccogliere le reliquie opache della mia memoria. E allora ecco le reliquie, eccole giudice, le vuole? Sono tutte qui, sul suo tavolo gremito di queste scartoffie adesso ci metto anche le mie… di scartoffie… pratiche di inadeguatezza e infelicità.
È forse per questa ragione che non ero mai andato al camposanto, mi ero sempre rifiutato di andarla a trovare come invece tante volte in passato avevo fatto con Natuccio. Scacciavo dalla mia mente l’immagine più dolorosa della mia vita, quel viso latteo, i mugolii del nostro ultimo incontro. Scacciavo i racconti del suo funerale, della chiesa vuota, di un sacerdote che si era rifiutato di celebrare quel rito. Scacciavo cinque anni di mie ricerche morbose. Come l’avevano vestita l’ultima volta, il colore dei suoi abiti, l’acconciatura della sua parrucca, la forma delle sue scarpe, lo spessore dei suoi collant, chi era passato per ultimo sul suo viso. L’opera di chi l’aveva resa bella per l’ultima volta era diventata per me oscura ossessione.
Annalisa era oltre. Annalisa era un’ombra in questo deserto… la vita è desertica. Sentivo che se avessi continuato a parlare avrei detto solo cose insensate, avevo una voce rotta come non l’avevo mai avuta. «Ormai sono solo Francesco, Zazà è diventato Domenico, Annalisa è un nome da ricordare nelle mie preghiere… sono solo… sono un pazzo che ha mitizzato l’anima di una persona che non esiste più.»
Il magistrato si fece più condiscendente, toccato dal mio turbamento, intrecciò le mani con gli indici uno contro l’altro. Chiuse le labbra come per contenere un sentimento di misericordia o semplicemente di pena, poi sospirò: «Il suo interrogatorio è un atto dovuto, vorrei andare in fondo a questa faccenda prima che la famiglia di Annalisa torni in Svizzera».
«Scusi, quale famiglia?» domandai succhiando col naso una poltiglia salata che sapeva di lacrime e sudore.
«La sorella… il cognato, e poi i genitori.»
«Ma la madre è morta…»
«Morta? Ma chi glielo ha detto?»...