«E ora che cosa faccio?» chiesi all’oscurità. Non avevo molte possibilità: ero intrappolato e c’era solo una manciata di terra a dividermi da un cadavere ringhiante.
Per un po’ tentai di concentrarmi sulla respirazione, per sgombrare la mente e rinfrescare le idee. Ironia della sorte, la prima idea che mi colse riguardò proprio il respiro e l’ossigeno che stavo consumando.
Quanto ne avevo a disposizione? Stavo già soffocando? Che cosa si provava nel soffocare? Tentai di percepire un qualsiasi cambiamento nel mio corpo, qualcosa di diverso dal solito. In quel momento mi accorsi che il dolore causato dalle ferite era sparito. La testa e la caviglia sembravano in perfetta salute. D’altro lato, il mio stomaco era completamente vuoto. Mangiai un’altra mela, cercando di ragionare su quello che mi stava succedendo.
“È il mio cervello che è in carenza di ossigeno o sono guarito molto in fretta, come un supereroe?” Quel pensiero instillò in me un barlume di speranza.
Lo zombi gemette.
«È così?» chiesi al non-morto. «È questo mondo a concedermi il potere della guarigione istantanea? Le mele, o il cibo, c’entrano qualcosa?»
Udii un altro lamento privo di significato.
«Non stare a rispondermi» dissi. «Capirò tutto da solo, perché è così che si sopravvive qui, giusto? Sono finito in un mondo completamente nuovo, con una serie di regole tutte particolari. Posso sferrare pugni a distanza, o infilare una marea di cose dentro una tasca minuscola.»
Un respiro profondo mi calmò ulteriormente, e riuscii a pensare più lucidamente. «Devo solo capire come funziona» dissi con fare pragmatico, «e non appena avrò messo piede fuori di qui, ci riuscirò!»
Lo zombi gemette ancora.
«Ma tu sarai lì fuori ad aspettarmi, quindi è meglio che mi procuri un’arma con cui difendermi. Una clava, magari, o una lancia…»
Lo zombi rispose con un ringhio breve e acuto che non avevo mai sentito prima.
«Ehi» dissi appoggiando l’orecchio contro il muro, «che succede?»
Mi aveva sentito? La nostra era una vera conversazione?
Il ringhio, ruvido e tagliente, non accennava a esaurirsi, come se la creatura stesse reagendo a qualcosa di doloroso.
«Stai bene?» chiesi di riflesso. «Ehi, scusa se tutto questo parlare di armi ha ferito i tuoi sentimenti, ma hai cominciato tu…» Mentre blateravo, i lamenti cessarono.
«Ehi, c’è nessuno?»
Mi sembrava che dalla terra filtrasse un odore. Fumo, forse?
Che lo zombi stesse preparando un falò nel tentativo di affumicarmi? Ne sarebbe stato capace?
Dovevo scoprirlo. Se starmene ad aspettare significava morire soffocato dal fumo, dovevo correre il rischio e uscire allo scoperto. Col cuore in tumulto, spaccai il blocco di terra all’altezza del mio viso e strizzai gli occhi alla luce del sole quadrato del mattino.
Non vedevo lo zombi: nell’aria avvertivo ancora il suo tanfo, ma adesso era misto a un forte odore di fumo. Distrussi il secondo blocco e con circospezione andai verso la spiaggia. Guardai a destra, a sinistra, in basso. Arricciai il naso. Una poltiglia di carne putrescente fluttuava ai miei piedi. La afferrai, un po’ inquieto, e un profondo disgusto mi fece trasalire.
I bordi erano carbonizzati come quelli di un hamburger bruciato. Ora sapevo da dove veniva la puzza di fumo.
Scattai sulla sabbia, pensando si trattasse di una trappola e che lo zombi se ne stesse in agguato in cima alla collina. Non era così. La costa era deserta. «Ehi, tizio morto!» gridai sventolando la carne marcia. «Hai dimenticato una fettina di te stesso!»
Attesi per un lungo minuto, sperando che il proprietario di quella braciola non ridiscendesse dalla collina barcollando. Non accadde. Quel disgustoso campione di frattaglie doveva essere tutto ciò che ne era rimasto.
Ma perché?
Guardai il sole. Non uccideva solo i vampiri? Forse nel mio mondo. «Ma» dissi guardando il pezzo di carne, «non siamo nel mio mondo, e quindi non posso dare nulla per scontato.» Feci appena in tempo a dirlo, che lo sguardo mi cadde sul piccolo rifugio che avevo scavato nella rupe. Per la precisione, notai il soffitto lungo due blocchi e largo uno. Come mai non mi era franato addosso? Che cosa lo sosteneva?
Tornai nel buco e presi a pugni i due blocchi nel soffitto fino a farli uscire. Poi, pronto ad allontanarmi perché non mi cadessero in testa, li rimisi al loro posto. E rimasero lì!
«Fico!» Sorrisi, nuovamente fiducioso. Non solo questo mondo mi aveva dato il potere della super-guarigione, ma anche l’abilità di unire i blocchi di terra tra loro. Quindi potevo costruire un rifugio senza usare chiodi, cemento né qualsiasi altra cosa che tenga su le case.
Questo, ovviamente, supponendo che da qualche parte non ci fosse un riparo naturale ad attendermi. Tornai in cima alla collina e scrutai l’isola in lungo e in largo. Sospirai, deluso. Non c’erano grotte né spelonche o altri tipi di fortezze pronte all’uso.
Vidi la mucca, anzi, le due mucche, pascolare ai piedi del pendio occidentale, intente a ruminare e muggire.
«Bene» dissi con gli occhi puntati sugli alberi. «Almeno avevo ragione sul sole che respinge i mostri.»
La luce aveva scacciato qualsiasi cosa stesse strisciando nei boschi durante la notte. Ma dove erano finiti? E, giusto per capire, da dove erano venuti fuori? Emergevano dal mare al tramonto, o sbucavano dal terreno come in un film horror di pessima categoria?
Probabilmente l’avrei scoperto prima di quanto desiderassi. Erano passati pochi minuti dall’alba, e il sole era già a metà strada per il mezzogiorno.
«Quanto sono corti i giorni qui?» chiesi alle mucche. Se avessero potuto parlare, probabilmente mi avrebbero risposto: «Abbastanza da smetterla di perdere tempo».
«Grazie» dissi sarcasticamente, quindi ridiscesi da quello che avevo ormai ribattezzato Colle Sconforto. Esitai, chiedendomi se fosse il caso di accendere un falò di segnalazione. Non è quello che fanno tutti i naufraghi? Forse sì, ma non avevo idea di come fare.
La cosa che sapevo fare bene, invece, era scavare. A mani nude estrassi blocchi a sufficienza da formare la scritta «SOS». “Forse un aeroplano che vola a bassa quota o un satellite nello spazio lo vedrà” pensai. “Qualcuno verrà.”
Mi aggrappavo ancora all’idea che, prima o poi, qualcuno si sarebbe fatto vivo e mi avrebbe salvato, e che mi sarebbe bastato tenere duro per una notte o due. Avevo accettato l’idea di essere in un mondo nuovo, ma continuavo ad arrovellarmi su che cosa significasse davvero. Almeno, lo feci quando mi ritrovai disperso in mare… un’altra volta.
Ma sto correndo troppo.
Tenendo d’occhio il cammino del sole, ridiscesi lungo il pendio orientale. Pensai di costruire una capanna di terra attorno al buco scavato nella rupe. Ma, osservando la fenditura, immaginai che sarebbe stato molto più sicuro scavare più a fondo. In quel modo ci sarebbe stata un’intera collina a frapporsi tra me e il pericolo, invece che delle fragili pareti di terra. Ma come potevo fare?
Non potevo certo scavare la roccia a mani nude. O forse sì? “Non dare nulla per scontato” mi ripetei, sollevando il pugno verso la liscia parete grigia. “Hai già il superpotere del pugno a distanza. Forse puoi anche distruggere la roccia.”
Non potevo.
«Ahi ahi ahi!» gridai a ogni colpo. Sì, in questo mondo la carne può danneggiare la dura roccia, e sì, dopo un continuo picchiare sembrava che stessi facendo qualche progresso. Ma il cubo grigio non si frantumava, non come avrebbe fatto nel mio mondo. Vidi invece dei minuscoli blocchi multicolore che si spargevano attorno a dove colpivo ma, nel momento in cui lasciavo riposare le mie mani illividite e doloranti, la roccia tornava integra.
«E dai!» gridai. Con veemenza colpii di nuovo la roccia, finendo per ululare ancora di dolore. «OWWWW!»
A quanto pare non ero l’unico beneficiario della super-guarigione.
«Che cosa mi serve per distruggerti?» chiesi alla roccia, che se ne stava lì, immobile e beffarda.
Certo, un utensile, come insegnavano tutte le storie di naufraghi. Ma loro solitamente avevano a disposizione il carico di una nave affondata, o un’accetta. Se proprio gli andava male, un pallone da volley con cui scambiare due chiacchiere.
E io che cosa avevo? Solo ricordi confusi e uno zaino pieno di nulla.
Quasi nulla.
Colpii la pietra con gli oggetti che avevo raccolto: arboscelli, cubi di terra. Provai persino con la carne di zombi. Non funzionarono, ma l’arboscello mi diede un’idea: potevo cercare un legno più solido tra gli alberi spogli dietro di me.
Mi avvicinai a un tronco e distrussi la parte inferiore.
«Caaadeee!» esultai, ma al grido entusiasta seguì un sospiro di spaesamento.
Non solo l’albero era ancora in piedi, ma non poggiava più sul terreno. Era sospeso nell’aria.
«D’accordo, blocchi e zombi posso ancora tollerarli, ma che ne è della gravità?» dissi rivolgendomi a quella colonna fluttuante.
Il tronco non si mosse.
«Va bene» annuii, alzando al cielo le mie mani cubiche. «Tuo il mondo, tue le regole.»
Qualche secondo dopo, mi resi conto di quanto fossero veritiere quelle parole.
Tentai di picchiare il cubo di legno contro la rupe, ma finii solo per intorpidirmi la mano.
Sbattei le palpebre. Senza pensare, per far riposare la mia mano destra passai il legno a quella di sinistra.
«Ma che…?» Sgranai i miei occhi quadrati: il mio pugno sinistro si era aperto, rivelando una griglia luminosa. Due linee dividevano il palmo in quattro sezioni. Il legno cadde nella sezione in basso a sinistra, e in quel momento nella mia mano destra si materializzò l’immagine fluttuante di quattro blocchi di assi di legno.
«Va tutto bene» dissi nervosamente. Non sapevo ancora se quanto stava accadendo fosse positivo o negativo. Lentamente, chiusi le dita. Le assi divennero solide, mentre il legno nella mia mano sinistra sparì.
«Grande!» dissi con maggiore convinzione.
Non solo potevo guarire in un baleno, tirare pugni da lontano e assemblare blocchi a piacimento, ma questo mondo mi permetteva anche di trasformare le materie prime in prodotti finiti, nel giro di pochi secondi. Quanto ci avrei messo, nel mondo reale? Quante ore passate ad abbattere, misurare, tagliare e levigare? Sempre ammesso che sapessi già farlo. In questo mondo, invece, per essere un mastro artigiano mi bastava spostare le cose da una man...