Shaw 150
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Shaw 150

Storie di fabbrica e dintorni

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Shaw 150

Storie di fabbrica e dintorni

Informazioni su questo libro

Operai, capiturno, capireparto, sindacalisti, marescialli con figlie rivoluzionarie, mariti e mogli con storie ordinarie e straordinarie di amori, disamori, corna, ire da aggredirsi e tenerezze da strappare il cuore sono i protagonisti di queste storie: racconti bruschi, irriverenti, che pure, e neanche di rado, si aprono su una nota di vero e proprio strazio.

In questo volume sono raccolti testi come Nodulo cosmico, Marco o Avanti Savoia, vertici della forma narrativa breve che hanno confermato l'originale talento di Antonio Pennacchi: ci sono importanti capitoli dell'epopea delle paludi pontine e delle città della bonifica, che lo scrittore è andato costruendo fin dai suoi esordi e sfocerà poi nel capolavoro Canale Mussolini; e poi storie in cui si agitano manifestanti e cortei e altre che mettono in scena drammi individuali, scoppi di ferocia primitivi, devozioni più forti del tempo.

Una lettura che mette d'accordo il più arcigno teorico del realismo socialista con il più individualista campione del romanzo borghese, perché Pennacchi non perde mai di vista il bosco eppure non sacrifica mai l'albero. Ce li ha sempre tutti e due davanti agli occhi e talvolta entrambi li accarezza, anche se più spesso li frusta con la sferza del suo stile irritato, elettrico, unico.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804721369
eBook ISBN
9788835717515
Appendice

Genesi di “Marco”

Memoria pronunciata dall’autore
dinanzi ai giudici di Corte d’Assise
nel processo per calunnia e diffamazione
intentatogli su denuncia di terzi
a causa di “Marco”
Se dovessi dire che la morte di Tommaso Emmen e le vicende della sua famiglia sono completamente assenti dal mio immaginario e da tutto ciò che sta dietro la creazione e la composizione di “Marco”, direi una cosa non vera. È più che evidente che, essendo vissuto ad Aprilia, qualunque cosa vi sia accaduta e di cui io sia venuto a conoscenza non può, in un modo o nell’altro, non avere più o meno condizionato il parco delle mie emozioni e la mia cosiddetta creatività artistica. Soprattutto una tragedia come quella di Tommaso Emmen.
Il suicidio di ogni essere umano pone agli altri uomini tutta una serie di riflessioni su sé stessi e sul senso della propria vita, anche il suicidio di gente che non si è mai conosciuta e che avviene dall’altra parte del mondo ma che – per un motivo più o meno spettacolare o mediatico – giunge alla nostra conoscenza. Tanto più quando questo avviene vicino a noi, nel nostro stesso habitat. Non c’è sensibilità umana – quindi anche la mia – che non possa non restarne colpita. Anzi, spesso si ingenera anche un senso di colpa, del tipo: “Se avessi fatto qualcosa, magari solo un gesto”. E così è stato anche per Tommaso Emmen, con cui peraltro – come dichiarato dagli stessi querelanti – non ho mai intrattenuto rapporti di amicizia o frequentazione, ma esclusivamente “di vista”. La conoscenza “di vista” del resto è il carattere distintivo d’ogni piccola comunità di provincia, quale era quella apriliana fino a tutti gli anni Settanta: in una città di trentamila abitanti tutti si conoscono perlomeno “di vista”.
Dire però – come fanno i querelanti – che “Marco” è direttamente ispirato, se non addirittura tratto dalle vicende di Tommaso Emmen e della sua famiglia, è un’altra cosa. Non è così. È sbagliato.
“Marco” non è un reportage di cronaca, non è un pezzo giornalistico e non è nemmeno un racconto-verità. “Marco” è una creazione artistico-letteraria e la letteratura non è la realtà, non è la descrizione del reale. Questa la fa il giornalismo. La letteratura è rappresentazione, non propone le “cose”, propone il sentimento – proprio inteso nel “modo di sentire” – delle cose. Ed è diverso. Il giornale ha per sua funzione raccontare proprio quell’evento precipuo, accaduto a una persona specifica con tanto di nome e cognome, in quel posto certo e in quel giorno determinato: a lui e non ad altri. E sta sul giornale proprio perché è successo a lui, soltanto a lui e in quel modo specifico. Se fosse successo a tutti non starebbe lì, perché il giornale si occupa del “particolare”, del singolo e specifico particolare. La letteratura è il contrario.
La letteratura inventa dei personaggi e ne fa “tipi”, come dice Lukács: non sono quelle persone specifiche, ma siamo tutti. Le situazioni in cui i personaggi vengono implicati fanno emergere – o almeno lo dovrebbero – i tratti psicologici e caratteriali, e soprattutto le emozioni ed i comportamenti che avrebbe ognuno di noi se inserito nella stessa situazione, nello stesso contesto relazionale e con lo stesso background; completamente a prescindere da ogni specificità di luogo, di tempo e di individuo.
La letteratura si occupa “dell’universale”. Il mulino del Po non racconta cose specifiche che possono accadere solo sul Po. Anzi, proprio quando sembra che s’inoltri in dettagli assolutamente particolari e specifici, proprio in quel momento sta facendo altro: è solo un trucco – o meglio, una tékhnē – per rassicurare il lettore, distrarne i livelli liminali di attenzione e, come in una sorta di processo ipnotico, condurlo pian piano all’autoidentificazione psicologica: è il “correlativo oggettivo” di T.S. Eliot, per cui «le emozioni individuali del poeta debbono oggettivarsi in immagini concrete universalmente partecipabili». Il mulino del Po racconta quindi un viluppo di relazioni ed emozioni che danno origine ad azioni e reazioni che possono essere accadute, e potranno ancora accadere, in qualunque parte del mondo e della storia. Il “mulino” ed il “Po” sono soltanto un pretesto e questo è lo specifico letterario e questo – almeno spero – è accaduto anche per “Marco”.
Io non ho scritto la storia di Tommaso Emmen e di suo padre Wilmer – storia che peraltro nemmeno conosco, se non per quel poco che ho letto sui giornali locali e che certamente non darebbe materiale sufficiente ad un intreccio – ma la storia di Marco D’Alessandro e di suo padre Nane, che nulla hanno a che vedere con la storia di Tommaso Emmen e di suo padre Wilmer se non, appunto, nella stessa misura che hanno a che vedere con la storia e la identità psichica di ogni essere umano, sia che abbia vissuto a Aprilia o nell’antica Roma, o che possa vivere un giorno sui pianeti della cintura di Orione.
È chiaro, ripeto, che il dramma di Tommaso Emmen non mi è del tutto estraneo, e non lo era nemmeno al momento della creazione di “Marco”. Quando ne venni a conoscenza – circa un anno prima – mi colpì con dolore ed angoscia. Non posso dire, quindi, che quel dramma sia stato del tutto estraneo a “piegare il mio animo” verso questa creazione. Ma il mio animo – che in quanto artista dovrebbe essere il “rispecchiamento” dell’animo collettivo – era già ben piegato per conto suo: quel tipo di tematiche, di drammi e di angosce erano già state, purtroppo, diverse volte vissute, sia dall’animo individuale che da quello collettivo, fino al punto che, più che piegarlo, forse lo avevano proprio piagato.
Nello stesso modo si era difatti ucciso qualche anno addietro Publio Sarti dell’età mia, di cui ero amico e con cui ero uscito assieme per anni, da ragazzo. E poi il povero Bindi, colono vicentino che cantava nel coro di S. Michele assieme a mio padre e di cui ero – e sono tuttora – amico dei figli. E Cristiano Perri, che conoscevo dall’infanzia, con cui ho fatto l’asilo assieme e con cui ho mantenuto frequentazione e affetto negli anni: le mie sorelle erano amiche della sue, mia madre della madre e mio padre del suo. Erano venuti assieme in Agro Pontino e il vecchio Perri, il padre, era un self-made man come il Nane D’Alessandro di “Marco”: venuto come terrazziere s’era fatto, col tempo, imprenditore, fino a far laureare i figli. Alla sua morte l’azienda era passata a Cristiano, ma non è più andata bene e lui è andato ad immolarsi da solo, con una corda, proprio nell’edificio degradato di quello che era una volta il mattatoio della fabbrica di carne in scatola. E questa – anche se è quella che m’è più vicina – non è l’unica storia imprenditoriale che si sia conclusa in modo tragico. C’è stato Federico Stinti imprenditore edile, che conoscevo da bambino perché abitava vicino casa nostra, avevo otto o nove anni, era amico di mio zio e la moglie era amica delle mie sorelle e quando gli è nato il bambino mi facevano andare là a giocarci. E Federico Stinti s’è poi sparato nel suo studio, dieci o quindici anni fa. E poi Monachesi imprenditore nel settore termoidraulica, anche lui di una famiglia di pionieri della bonifica che frequentavano l’oratorio negli anni Cinquanta, e il fratello faceva il vigile ed era il terrore di tutti i ragazzi, perché girava in motocicletta ed era inflessibile ma era anche, quando l’ho conosciuto meglio da grande, un uomo di grande umanità. E anche Monachesi s’è sparato in macchina tre anni fa, perché un grosso cliente non pagava e lui ha visto in grave pericolo l’azienda.
Io non conosco bene – sia in generale che in particolare, sia, quindi, nello sviluppo complessivo che nel dettaglio dei singoli particolari – le storie di Tommaso e di Wilmer Emmen e non posso dire quindi quanto e come siano riconoscibili e artisticamente “rappresentate” nelle storie di Marco e Nane D’Alessandro che ho voluto scrivere. Non escludo – ripeto – che possano avere comunque e in qualche modo influenzato la mia sensibilità e contribuito alla ispirazione e creazione di “Marco” ma, e questo è più che evidente, nello stesso e identico modo in cui hanno eventualmente contribuito le tragiche storie del povero Bindi, di Publio Sarti, di Cristiano Perri, di Federico Stinti, del povero Monachesi e tutte quelle eventualmente lette sui giornali, pure se non accadute ad Aprilia o in Agro Pontino. “Marco” non è ispirato in modo specifico a qualcuno di loro ma è ispirato evidentemente a tutti. È ispirato per certi versi pure a Raul Gardini, la cui ascesa e caduta – soprattutto la caduta – scossero a suo tempo la collettività nazionale. Anche gli stessi giudici che dovranno emettere la sentenza ne restarono sicuramente colpiti. Perché non deve restarne colpito uno scrittore?
A me avevano chiesto un racconto che desse il senso della provincia italiana. Lo stesso invito era stato rivolto da «MicroMega» ad altri dieci autori, da cui poi il numero speciale 3/1997 della rivista suddetta, da cui in effetti trae origine l’odierno processo. A me si erano rivolti dopo l’uscita di Palude, romanzo caratterizzato appunto dalla fortissima ambientazione nell’Agro Redento e nella cosiddetta città nuova di Latina-Littoria. Probabilmente a «MicroMega» pensavano che avrei fatto una cosa dello stesso tipo. Si dà però il caso che io non sia purtroppo – almeno fino a oggi – uno scrittore seriale o “di genere”. Non mi riesce mai di fare un libro uguale all’altro. A volte penso che si farebbe meno fatica, bastando cambiare le apparenze e i particolari e lasciare intatta la macchina narrativa. Così aumenterebbe la produttività e ne scriverei di più. Però non mi riesce. Diventa ogni volta una nuova sfida: c’è già così poco da inventare in letteratura, che fare il “già fatto” non mi soddisfa molto. Per cui – anche nel caso di «MicroMega» – il problema creativo che mi si è posto è stato esattamente questo: non fare un Palude-2 ma fare piuttosto un anti-Palude.
In Palude la “età dell’oro” – quel periodo mitico che ogni comunità ritiene di avere a proprio fondamento, posto a livello inconscio in un tempo astorico (senza storia) ed oggettivamente irreale, in cui tutto era buono e santo e che ha originato il presente, presente che però avrebbe perso tutte le valenze e le capacità positive di quel periodo, conservandone solo le negative – la “età dell’oro” delle città nuove (Latina, Aprilia, Pomezia, Pontinia, Sabaudia) era collocata esattamente nel periodo della fondazione e nei tempi della bonifica. Quella era l’età mitica ed astorica in cui tutto era bene e i fiumi e la terra davano solo lac et mel. Il presente – con il bene e con il male, ma più male che bene – comincia subito dopo, dalla guerra e dalla ricostruzione, ed è il vero mondo del “reale”.
In questa semplificazione – che sarà pure antistorica, ma che pure serve alla costruzione di un romanzo epico-storico e al funzionamento di un marchingegno artistico complessivamente mitopoietico – i “buoni” erano le classi popolari subalterne, che hanno fatto la bonifica, e i gruppi politici che le rappresentavano, o che ne hanno più o meno rappresentato gli interessi e i valori: i comunisti da un lato (i “buoni in assoluto”) e i fascisti dall’altro, che erano partiti come “buoni” ma poi si erano persi purtroppo per strada dichiarando le guerre mondiali e perdendole pure. Il “cattivo in assoluto” era però la Democrazia cristiana e tutto ciò che è successo dal dopoguerra ad oggi: la crescita a dismisura, lo stravolgimento urbanistico e la perdita dei “valori”.
Queste naturalmente non sono “verità assolute”, ma solo la schematizzazione di un pensiero di massa più o meno diffuso e condiviso nella comunità; schematizzazione che però denuncia immediatamente lo “schierarsi” dell’io-narrante e tende, con questo, a far “schierare” automaticamente il lettore e a favorirne il processo di identificazione: è una tékhnē pure questa.
In Palude, quindi, i “buoni” sono quelli che hanno costruito la città nuova, che avrebbero voluto lasciarla intatta in ogni sua pietra e che non fanno che rimpiangere ogni assetto delle origini, a partire dalle Case del fascio o del contadino. I “cattivi” invece sono quelli che nel dopoguerra hanno costruito i palazzi moderni distruggendo gli assetti antichi (“antichi” di soli otto o al massimo quindici anni naturalmente, non secoli, ma per gli “immaginari inconsci” è la stessa cosa), quelli che hanno demolito la Casa del contadino per farne un grattacielo: «Ma come si fa ad essere così? Non avevano animo umano?», denuncia Palude. E “Marco” gli risponde.
“Marco” in particolare viene stimolato, oltre che dalla richiesta di «MicroMega», da una contemporanea conversazione accesasi a cena a casa d’amici, una sera, con vecchi esponenti politici locali del Pci e soprattutto della Dc (omissis per i nomi), che prospettano un punto di vista assolutamente opposto a quello del sottoscritto, tanto opposto ed “altro” da stimolare l’idea di un nuovo romanzo, di cui il racconto non è che la traccia, il primo semilavorato da cui avrebbe dovuto svilupparsi l’intero lavoro (progetto che viene poi abbandonato proprio a causa di questa azione legale).
In “Marco” la prospettiva di Palude viene interamente ribaltata: la “età dell’oro” non è più quella della fondazione ma, al contrario, proprio quella del dopoguerra, della ricostruzione e dello sviluppo, sia pure disorganico e disordinato come è ogni sviluppo che si dia nella realtà. È questa la “età dell’oro” che costruisce il benessere. E la fonte e la base della comunità non sta più nel fascio o nella fondazione, ma nell’asilo delle monache, nella squadra di calcio e nell’oratorio dei preti: «Altro che mostri», dice “Marco”: «Questi sono stati dei benefattori e la Casa del contadino l’abbiamo buttata giù tutti insieme, per fare posto alla ricchezza». «Nane era tutti noi», si dice testualmente.
Non è con questo che io sia diventato democristiano. Io non faccio politica, o meglio: io non faccio politica nel senso che non mi presento alle elezioni. Che poi i miei scritti – o la mia presunta arte – abbiano un qualche influsso sulla polis è un altro paio di maniche, e mi dispiacerebbe pure se non fosse così. Ma io faccio lo scrittore. E quando a Gustave Flaubert chiedono chi sia, in realtà, M.me Bovary, Flaubert risponde: «Madame Bovary c’est moi» (M.me Bovary sono io). Lo scrittore, se è tale, deve mettersi fino in fondo nei panni dei suoi personaggi. Deve ragionare come loro. Deve agire, amare ed odiare come loro, sennò non gli vengono credibili, gli vengono fantocci, stereotipi, non “tipi” universali ed universalistici. E come in Palude m’ero messo nei panni sia degli operai comunisti che dei nostalgici fascisti, così in “Marco” mi sono messo in quelli di chi ha fatto la ricostruzione, di chi ha creato lo sviluppo e di chi ha votato – in decine e decine di migliaia – per la Democrazia cristiana e magari ancora la rimpiange. Si chiama empatia. Senza quella non si può scrivere, soprattutto una cosa come “Marco” che ha assunto per proprio tema: «Rendere ragione dei processi dello sviluppo e della democristianità».
Anche l’io-narrante è un personaggio come tutti gli altri. Non è l’autore e nemmeno è detto che rispecchi sempre il pensiero dell’autore. È solo un punto di vista, una prospettiva inventata ad arte dall’autore stesso: «C’est un personnage qui s’appelle Je» (È un personaggio che si chiama Io; cfr. Bourneuf e Ouellet, 1976), un personaggio come tutti gli altri, un artifizio. E qui svolge esattamente una funzione antagonistica: è il contraltare di Marco e di Nane.
La realtà è fatta sia di bianco che di nero, non è monocromatica. Se io descrivo un universo ad un solo colore non è credibile, il lettore lo riconosce come irreale e lo rifiuta, non facendo scattare il meccanismo di identificazione. Perché il processo scatti – perché la macchina funzioni – è necessario che alle luci si aggiungano le ombre, che al protagonista faccia riscontro un antagonista. E questo antagonista particolare – l’io-narrante di “Marco” – è costruito con la miscela più classica di tutti gli artifici retorici atti a giustificare, risaltare e condividere tutte le ragioni dei protagonisti. Quando lui dice: «Odio i ricchi», non lo fa perché questo è davvero il pensiero dell’autore, ma è l’autore che glielo fa dire esattamente come Shakespeare fa dire ad Antonio, e ripetutamente: «Bruto è un uomo d’onore». Affermare una cosa per negarla è l’Abc della retorica, la base della suasoria, perché alla fine – quando poi affermerà che invece Bruto è un figlio di puttana – tutti quelli che stanno radunati davanti alla Curia di Pompeo non potranno non assentire: «Ma se lo dice proprio Antonio – che pure non ha fatto altro che dire che Bruto è un uomo d’onore – allora deve essere per forza vero». E questo è lo stesso meccanismo di “Marco” (che poi funzioni davvero come quello di Shakespeare è un altro paio di maniche, ma questo attiene eventualmente alle mere differenze di talento, non di dolo). Quelle prese di distanza e quelle dichiarazioni ostativo-negative servono solo ad avvalorare le identificazioni e le positività: lo scopo è quello, alla fine, di far dire al lettore come nella Curia di Pompeo: «Ma se gli vuole bene lui, che pure non li può vedere, come posso non volergli bene io?».
Non è che in letteratura, sul piano delle tecniche, ci sia ogni giorno una scoperta nuova: le tecniche sono quelle, scoperte già nell’antichità. Può sembrare strano, ma restano ancora quelle inventate da Omero e catalogate da Aristotele. Mi duole per certi versi dover confessare quindi che non ho inventato nulla: ho fatto e faccio quello che si fa da allora e anche nel romanzo storico non ho potuto non attenermi – lo so che è una delusione, ma soprattutto per me: io muoio d’invidia nei confronti di Omero – alle tecniche in uso da secoli. Se vuoi rappresentare il “sentimento” complessivo di un periodo, il modo migliore è raccontare quello di un piccolissimo gruppo di persone, meglio ancora se di una singola famiglia. E questa è l’Odissea in fin dei conti, le traversie di Ulisse e della sua famiglia: lui, il padre, la moglie, il figlio, le amanti. Lo stesso fa Virgilio nell’Eneide: Enea parte col padre sulle spalle e col figlioletto a fianco, partono dalla sventura in cerca di fortuna.
Se invece vuoi raccontare più dettagliata...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. SHAW 150
  4. Nodulo cosmico
  5. Manara
  6. Occhi verdi
  7. Il paraurti
  8. Tùmparos
  9. Teresa la parrucchiera
  10. La sinagoga
  11. La Centrale del latte
  12. Marco
  13. Mescole gomma
  14. Il telefonino
  15. Sabaudia
  16. L’architetto
  17. Avanti Savoia
  18. Pomezia, per la via di Roma
  19. Ilena
  20. Il Presidente
  21. Le Quattro Strade
  22. Nonnunquam redeunt
  23. Buffalo Bill e i butteri delle Pontine
  24. Nemo propheta Cisternae
  25. Il caporeparto
  26. Appendice. Genesi di “Marco”
  27. Copyright