Il mio nome sia Gantenbein
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Il mio nome sia Gantenbein

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mio nome sia Gantenbein

Informazioni su questo libro

Il mio nome sia Gantenbein inizia in un normalissimo bar. Un uomo saluta gli amici, ha fretta di andarsene, non sta molto bene, dice. Poco dopo viene ritrovato morto al volante della sua auto, ancora parcheggiata. Al narratore basta questo esile fatto per comporre - basandosi su poche frasi captate qua e là e sulle sue personali percezioni - la storia di quest'individuo. O meglio, due storie per i due personaggi che ha immaginato. Il primo si chiama Felix Enderlin, dottore in filosofia; l'altro Theo Gantenbein.

Gantenbein porta sempre occhiali scuri e finge di essere cieco, anche se in realtà vede benissimo. Ma grazie a quello stratagemma può scoprire come sono davvero le persone, poiché agiscono credendo di non essere osservate. Prima di tutte la bella moglie Lilla, attrice; e poi Camilla, la manicure, a cui Gantenbein narra le sue storie, storie indossate come abiti. E tra questi racconti c'è anche quello di un cadavere ripescato nel fiume. Un morto senza nome e senza passato, o quasi...

Romanzo della costruzione di un'identità, Il mio nome sia Gantenbein rivela tutto il genio di Max Frisch che, in un mosaico spiazzante di personaggi e situazioni, mostra al lettore i processi della creazione narrativa, il ruolo dell'esperienza, dell'immaginazione, del racconto, e lo spinge a confrontarsi con i grandi interrogativi dell'epoca postmoderna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804746775
eBook ISBN
9788835716877

Il mio nome sia Gantenbein

Quelli che c’erano, gli ultimi, che gli hanno ancora parlato, conoscenti casuali, dicono che quella sera non era diverso dal solito: allegro, ma con misura. La cena fu gradevole, se pure non sontuosa; si parlò molto: chiacchiere, ma non troppo mediocri; e perlomeno al principio, a quanto sembra, non fu meno loquace degli altri. Qualcuno pare si sia stupito del suo sguardo stanco, quando ascoltava; e poi di nuovo eccolo partecipe, per non essere assente, pieno di spirito, dunque non diverso da come lo si conosceva. Più tardi l’intero gruppo entrò ancora in un bar, dove in un primo momento si restò in piedi coi cappotti addosso, quindi ci si sedette con altra gente, che non lo conosceva; forse per questo se ne stette zitto. Si limitò a ordinare un altro caffè. Quando in seguito tornò dalla toilette, dicono, era pallido, ma in realtà ci se ne accorse solo quando, senza tornare a sedersi, si scusò: voleva uscire, improvvisamente non si sentiva troppo bene. Fu sbrigativo, disinvolto, evitò le strette di mano, per non interrompere i loro discorsi. Qualcuno disse ancora: E aspetta un momento, non abbiamo mica intenzione di metter le radici qui dentro! Ma, dicono loro, non ci fu verso, e quando finalmente la guardarobiera portò il suo cappotto, non lo indossò, ma lo prese sul braccio, come se avesse fretta. Tutti dicono che non aveva bevuto molto, e non erano neppure sicuri che si sentisse davvero poco bene, che non si trattasse di un pretesto: ridacchiava. Forse aveva un appuntamento. Le donne lo canzonarono lusingandolo; lui sembrò voler dar corda al sospetto, ma non aggiunse una parola. Bisognò lasciarlo andare. Non era ancora neppure mezzanotte. Quando poi ci si avvide della sua pipa dimenticata sul tavolo, era troppo tardi, per corrergli dietro... La morte doveva essere sopravvenuta poco dopo che si era seduto in macchina; i fanalini erano accesi, e così il motore, la freccia lampeggiava e lampeggiava, come se da un momento all’altro stesse per entrare in corsia. Sedeva eretto, il capo all’indietro, con tutte e due le mani sul colletto che s’era aperto con uno strappo: così lo trovò un poliziotto, che era venuto a indagare, perché quella macchina col motore in moto non partiva. La morte dev’essere stata rapida, e quelli che non c’erano, dicono, una morte facile – non riesco a immaginarmela – una morte come uno se la desidera...
Mi immagino:
Questa sarebbe potuta essere la fine di Enderlin.
O di Gantenbein?
Piuttosto di Enderlin.
Sì, dico anch’io, l’ho conosciuto. Cosa significa! Me lo sono immaginato, e ora mi butta dietro le mie fantasie come ciarpame; non ha più bisogno di storie per vestirsi.
Siedo in un bar, pomeriggio, quindi solo col barman, il quale mi racconta la sua vita. Perché poi? Comunque lo fa, e io l’ascolto, mentre bevo e fumo; aspetto qualcuno, leggo un giornale. È andata così! dice lui, mentre sciacqua i bicchieri. Una storia vera dunque. Ci credo! dico io. Asciuga i bicchieri che ha sciacquato. Sì, ripete, è andata proprio così! Io bevo – io penso: un uomo ha avuto una esperienza, ora cerca la storia di questa sua esperienza...
Era un uomo della mia età, l’ho seguito dal momento in cui ha abbandonato la sua macchina, credo, una Citroën, ha sbattuto la porta e si è messo il mazzo delle chiavi in tasca. Mi son posto il problema di come fosse. In realtà, volevo visitare un museo, far prima colazione, poi visitare un museo, dal momento che m’ero liberato dalle seccature professionali, non conoscevo nessuno in questa città, e fu un puro caso, se attirò la mia attenzione, non so come mai, un movimento del capo, come se gli prudesse da qualche parte: si accese una sigaretta. Me ne accorsi nell’attimo in cui intendevo accendermi una sigaretta anch’io; ci rinunciai. Lo seguii, senza averne visto ancora la faccia, a destra, mentre gettavo via la mia sigaretta, senza esitazione e senza premura. Questo accadeva nei pressi della Sorbonne, di mattina. Come se si fosse accorto di qualcosa, era tornato ancora una volta alla macchina, per vedere se aveva davvero chiuso le porte; cercò la chiave nella tasca sbagliata. Nel frattempo io facevo finta di osservare un manifesto e, per distinguermi da lui, mi accesi la pipa. Già temevo che si sarebbe seduto in macchina e sarebbe partito, mentre io fingevo di leggere il manifesto, il programma del TNP. Ma invece udii lo sbattere delle porte della macchina e mi voltai, s’incamminò a piedi, e così mi fu possibile seguirlo. Osservavo il suo modo di camminare, i suoi vestiti, i suoi movimenti. Singolare era solo il modo che aveva di remigare con le braccia. Evidentemente aveva fretta. Lo seguii di blocco in blocco, in direzione della Senna, e sia pure, perché in questa città non avevo proprio altro da fare. Ora portava una cartella di cuoio, dopo che, come ricordavo, la prima volta aveva lasciato la macchina senza cartella. Spinto da parte dalla gente, che mi fiottava incontro sulle zebre, lo persi di vista e già intendevo di nuovo rinunciare, ma altra gente mi spingeva avanti, tutti volevano attraversare prima che il semaforo segnasse rosso. Senza volerlo, fui costretto a procedere. So bene che non se ne cava niente; prima o poi tutti quelli che prendo a osservare scompariranno dentro un portone o faranno improvvisamente cenno a un tassì, e prima che io abbia trovato un tassì libero anch’io, sarà sempre troppo tardi, e l’unica cosa che mi resterà da fare sarà farmi condurre all’hotel, per sdraiarmi vestito e calzato sul letto, sfinito dal mio insensato vagabondare... È una mia mania!... Ma non appena ebbi rinunciato, in realtà soddisfatto di non dover continuare l’inseguimento, lo riconobbi e proprio dal modo come remigava con le braccia. Nonostante fosse mattina, indossava un abito da sera scuro, come se venisse dall’Opera. Forse era questo che mi univa a quello sconosciuto, il ricordo di una mattina in abito scuro, dopo esser uscito dalla casa di una donna. Lui non si era ancora accorto, o non si accorgeva più, del mio inseguimento. Tra l’altro era senza cappello, come me. Per quanto avesse fretta, non riusciva a procedere più rapidamente di me, che non dovevo dar nell’occhio per la medesima fretta, ma che dovevo procedere col passo di tutti gli altri; così di blocco in blocco guadagnò un piccolo vantaggio, e io ero già pronto ad abbandonare l’inutile inseguimento, ma davanti al semaforo rosso ci capitava ogni volta di finire nello stesso gruppo di persone. La faccia non ero ancora riuscito a vedergliela; non appena io, profittando di un vuoto nella folla, riuscivo ad arrivargli a fianco, guardava dall’altra parte. Una volta si fermò davanti a una vetrina, così che potei vederla riflessa, la sua faccia, ma non gli rivolsi la parola; non era la sua faccia che mi interessava – entrai nel primo bar, per fare finalmente colazione... Il prossimo che mi diede nell’occhio aveva una pelle, come hanno soltanto gli americani, latte e lentiggini, pelle da sapone. Lo seguii ugualmente. Lo stimai, da dietro, sui trentacinque anni, una bella età. Avevo appena prenotato il mio volo di ritorno ed ero sul punto di far passare le ore che mi restavano magari bighellonando per il Central Park. Sorry! disse lui, poiché mi aveva urtato, e io mi voltai, ma feci a tempo a vederlo solo da dietro. Portava un cappotto grigio ardesia, io mi chiedevo dove mi avrebbe portato. A volte sembrava che non lo sapesse neppure lui, esitava e sembrava anche lui un po’ perduto in questa Manhattan. Quanto più procedevamo, tanto più mi riusciva simpatico. Io riflettevo: di cosa vive, cosa fa, dove abita, quali esperienze ha già avuto nella sua vita, e quali no, e cosa pensa, mentre cammina così tra milioni di altra gente, e che opinione ha di sé. Io vedevo la sua testa bionda sopra il cappotto grigio ardesia, e avevamo appena traversata la Trentaquattresima strada, quando improvvisamente si fermò, per accendersi una sigaretta; me ne avvidi troppo tardi, così che, senza accorgermene, l’avevo già sorpassato, mentre stava dando già le prime tirate; altrimenti avrei forse utilizzato l’occasione, per offrirgli gentilmente il mio accendisigari, per attaccar discorso. Quando mi voltai, non vidi più capelli sul suo capo, e naturalmente mi dissi immediatamente che non poteva essere il medesimo uomo, dovevo averlo perduto nella ressa e poi scambiato per un altro, di cappotti grigio ardesia ce ne sono molti. Ciononostante mi spaventai, quando improvvisamente si rivelò un uomo di cinquant’anni. A questo non ero preparato. Can I help you? chiese, e poiché non c’era nulla in cui potermi aiutare, continuò per la sua strada con un fumetto sopra la spalla. Era una giornata azzurra, di sole, ma all’ombra fredda, gelata, ventosa; i grattacieli nel sole si specchiavano all’ombra in pareti di vetro, e nel gelo di queste gole non era possibile star fermi. E perché poi non dovrebbe essere un uomo di cinquant’anni? Adesso mi interessa la sua faccia. E perché non una testa calva? Volentieri l’avrei visto ancora una volta di fronte, ma non mi riuscì più; camminava più tranquillo di quello di prima, di quello più giovane, ma scomparve improvvisamente in un portone, e per quanto l’abbia seguito – non ho esitato neppure due o tre secondi – ho visto soltanto come stesse entrando in un ascensore, le cui porte di bronzo, manovrate da un negro in uniforme, si chiudevano lentamente (come al crematorio), inarrestabili; presi, è vero, subito anch’io, dopo che ebbi schiacciato la mia sigaretta nel secchio con la sabbia come s’usa in quel paese, il prossimo ascensore, ero chiuso nella calca come tutti gli altri che, non appena entrati, dicevano il numero del piano e scendevano, quando veniva chiamato il loro numero; guardavo i numeri che si accendevano rapidi, alla fine solo con il negro, e alzai le spalle, quando questo mi chiese dove volevo andare; l’edificio aveva quarantasette piani...
Un uomo ha avuto una esperienza, ora cerca la storia che le si attaglia – non si può vivere con una esperienza, che rimanga senza storia, così pare, e certe volte m’immagino che un altro possieda proprio la storia che s’attaglia alla mia esperienza...
(Ma non è il barman.)
Il crepuscolo nella finestra aperta poco dopo le sei apparve come una parete di roccia, grigia e senza crepe, granito: – da questo granito scoppia un grido, ma senza suono, improvvisamente una testa di cavallo con gli occhi sbarrati, schiuma tra le fauci, annitrente, ma senza suono, un essere vivente, ha cercato di saltar fuori dal granito, al primo tentativo non gli è riuscito e, lo vedo, non gli riuscirà mai, mai, solo la testa con la criniera al vento è uscita dal granito, selvaggia, una testa piena di paura della morte, il corpo resta dentro, senza speranza, gli occhi bianchi, folli, mi guardano, cercando pietà –
Accendo la luce.
Giacevo sveglio.
Ho visto:
– improvvisamente irrigidita, una criniera di terracotta rossa, priva di vita, terracotta o legno con una dentatura bianco gesso e con le froge nere lucenti, tutto dipinto con arte, senza un suono lentamente la testa di cavallo si ritrae nella roccia, che senza suono si chiude, senza crepe come il crepuscolo nella finestra, grigio, granito come sul Gottardo; nella pianura, molto sotto, una strada lontana, curve piene di automobili variopinte, che vanno tutte verso Gerusalemme (io non so come faccia a saperlo!), una colonna di piccole auto variopinte, simili a giocattoli.
Ho suonato.
Fuori pioveva.
Giacevo con gli occhi aperti.
Quando giunse finalmente l’infermiera e chiese cosa accadeva, domandai di fare un bagno, il che tuttavia, senza il permesso del medico, a quell’ora non era possibile; invece del bagno mi diede un succo di frutta e mi invitò a essere ragionevole; dovevo dormire, mi disse, perché l’indomani l’esame riuscisse bene, in modo da poter essere dimesso il sabato, e spense la luce...
Io immagino:
Quando la giovane infermiera notturna finalmente arriva, una lettone (Elke si chiamava), trova un letto vuoto; il degente si è riempito la vasca da sé. Ha sudato, e poiché ha intenzione di fare il bagno, è lì nudo tra nubi di vapore acqueo, mentre ascolta i suoi rimproveri, ancora senza vederla, Elke, che si scandalizza e afferma che lui non sa quello che fa. Solo dopo che ha chiuso la finestra e il vapore grigio, che ha appannato anche lo specchio, scompare gradatamente, il malato si rende improvvisamente conto della propria nudità: ridacchia. A letto deve mettersi, dice lei, e chiudere immediatamente il rubinetto, e poiché lui non lo fa, lo vuole fare lei; ma ecco che l’uomo nudo le sbarra la strada, e poiché in quel momento non ha nient’altro a portata di mano, per coprirsi davanti alla ragazza, ricorre a una battuta: Io sono Adamo! Lei non ci trova nulla da ridere. Lui non sa, perché ride. Perché mai vuole fare un bagno a quell’ora, chiede lei con tono professionale, e per giunta senza il permesso del medico? Quindi trae lesta un accappatoio dall’armadio, per porre fine a quella storia sciocca; glielo porge, perché non si raffreddi, senza una parola, mentre lui la guarda, come se vedesse Elke per la prima volta. Una ragazza con gli occhi grigio acqua o verdognoli. La afferra per le spalle. Una ragazza coi capelli fulvi e grandi denti. Ma cosa gli prende! dice lei, mentre lui, tutte e due le mani sulle spalle di lei, si ascolta mentre dice: Io sono Adamo e tu sei Eva! Ha ancora il tono di uno scherzo; lei non osa chiamare aiuto nella clinica di notte e si limita a premere il campanello, mentre con l’altra mano sferra pugni contro il folle, improvvisamente piena di paura, da quando lui le ha tolto dal capo la cuffietta, la cuffietta blu con la croce rossa, delicatamente. Conosce quella faccia da intere settimane, ma nuovi sono i suoi capelli, i suoi capelli fulvi, ora sciolti e scarmigliati. Non vuole far male a Elke, solo dire: Io sono Adamo e tu sei Eva!, ma intanto la tiene per i capelli, così che non può più muovere il capo. Mi senti? le chiede. E basterebbe che lei sorridesse, Eva infermiera notturna, una contadina del Baltico venuta a studiare con gli occhi verdi e una dentatura cavallina; basterebbe soltanto che sorridesse, per riportare tutto sullo scherzo. Ma lo guarda con gli occhi sbarrati. Lui non sembra sapere che è nudo. Lei ha smesso di dar pugni, tanto lui neppure se ne accorge; si difende soltanto, per riavere la cuffietta blu, ma invano, anche se nel frattempo è apparso nel corridoio un medico del turno di notte. Lui lo ripete – naturalmente il medico non capisce affatto cosa sta accadendo – come un insegnante di lingue che a furia di ribattere vuole imprimere qualcosa nella mente dell’allievo: Io sono Adamo e tu sei Eva, io sono Adamo e tu sei Eva!, mentre Elke, inerme come davanti a un ubriaco, non grida contro di lui, ma contro il medico: perché se ne sta lì fermo e non l’aiuta. Eppure non succede nulla. Il medico, con tutte e due le mani nelle tasche del camice bianco, non si muove, sogghigna, non sapendo bene se tra loro non sia lui l’indecente, un voyeur, anche se involontario. Cosa dovrebbe fare? Solo quando l’uomo nudo si accorge che loro due, nonostante siano Adamo ed Eva, non sono soli in questo corridoio, e quando si accosta al medico, muore a quest’ultimo il ghigno sulle labbra; ma anche adesso non toglie le mani dalle tasche del suo camice bianco. Lei chi è? chiede l’uomo nudo, come se questo medico non fosse mai esistito. Con le mani nelle tasche del suo camice bianco, che lo distingue dall’uomo nudo, fa qualcosa che è peggio del sogghignare: si rivolge all’uomo nudo interpellandolo con il suo nome. Amichevolmente. Ma da questo momento è finita. Irrimediabilmente. Elke, non più minacciata, raccoglie i capelli in crocchio. Lei è il demonio! dice lui, finché finalmente il medico cava le mani dalle tasche del suo camice bianco, per afferrarsi alla ringhiera delle scale e indietreggiare passo per passo. Lei è il diavolo! dice l’uomo nudo, senza gridare, ma con decisione, non appena l’uomo in bianco si ferma di nuovo e vuole parlare: Lei è il diavolo, lei è il diavolo!, mentre Elke, adesso di nuovo con la stupida cuffietta sui capelli fulvi, cerca di far da paciera, ma invano. Non ci pensa neppure l’uomo nudo a tornare nella sua stanza. Vuole entrare nell’ascensore, che però non è a questo piano, e poiché non può attendere a lungo, scende le scale – pa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il mio nome sia Gantenbein
  4. Copyright