
eBook - ePub
Sognavo l'Africa
- 384 pagine
- Italian
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Sognavo l'Africa
Informazioni su questo libro
Da bambina, a Venezia, Kuki Gallmann sognava l'Africa. Riesce ad andarci da adulta. E con Paolo, il secondo marito, costruisce la sua famiglia e la sua casa in un grande ranch vicino a Nairobi. Quando la morte le strappa Paolo, Kuki resta sola con un figlio quattordicenne e una bambina in arrivo. Poi il morso di un serpente le porta via anche il ragazzo. Ma Kuki ha ancora la forza di lottare per creare la Gallmann Memorial Foundation per la salvaguardia della natura, in nome del marito, del figlio, del comune grande amore per la terra africana. Sembra un romanzo, ma è la storia vera di una donna eccezionale. Un racconto esemplare di amore immenso e di straordinario coraggio.
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Informazioni
Print ISBN
9788804670094eBook ISBN
9788852081590Parte III
EMANUELE
XXIII
Il tempo dell’attesa
Je me souviens des jours anciens, et je pleure.a
CHARLES BAUDELAIRE, Les violons de l’automne
Il pomeriggio dopo il funerale, Emanuele montò sul suo cavallo e andò alla capanna sul Mukutan. Tornò prima del previsto, e venne nella mia camera. Aveva portato il quaderno dove, a richiesta di Paolo, aveva registrato gli animali avvistati mentre andavano a leccare il sale.
«Ho visto Bianco e un gruppo di dodici eland; poi sono arrivati due bufali maschi. C’erano elefanti che schiantavano gli alberi sulla collina dietro a Marati Ine. Ho trovato fra le fronde del tetto un white lips (serpente-dalle-labbra-bianche). E questo. Era nel quaderno.» Mi porse un fragile foglio di carta piegato in quattro.
Ebbi la sensazione che il vento del ricordo lo avesse soffiato dal passato. Era la scrittura di Paolo. Non c’era data.
«Caro Emanuele,» diceva il biglietto «senza di te questo posto è diverso. Quando non ci sarò più, abbine cura per me. Ricorda. Vola per me, uccello del sole. Vola alto. Io ti vedo, Ema. Paolo.»
Ci guardammo. I suoi occhi smarriti mi fissarono, offuscati dal dolore. Lo abbracciai stringendo il foglietto. Mi arrivava appena alla spalla con la testa. Aveva quattordici anni.
«Sì, Ema. Tu avrai cura di tutti noi.» La sua voce stava cambiando. «La mia vita, sai, la mia vita non merita più di essere vissuta.»
Ero troppo esausta per fare commenti. Emanuele non diceva mai niente che non pensasse veramente.
Da quel giorno si inserì nel nuovo ruolo di uomo di casa. Adesso sedeva a capotavola e si assumeva la responsabilità dei problemi quotidiani. I dipendenti cominciarono a rivolgersi a lui per le questioni di manutenzione che erano state competenza di Paolo. Tagliava l’arrosto. Serviva i drink la sera. Imparava a guidare con Arap Rhono, Karanja o Colin. Da bambino era sempre stato responsabile. Da uomo sapeva essere in controllo delle situazioni.
La sua presenza e la sua saggezza mi davano un grande conforto.
Qualche volta lo sorprendevo immobile, a guardare lontano, con un’espressione vulnerabile e allo stesso tempo remota, inaccessibile in un suo mondo solitario, dove sapevo che c’era posto solo per i rimpianti. Allora mi ritiravo in silenzio, senza disturbarlo.
Gli amici facevano a turno a tenermi compagnia, ma la casa e il giardino, le colline e le gole echeggiavano dell’assenza di Paolo.
«… e l’Amore è immortale e la morte è solo un orizzonte, e l’orizzonte è il limite dei nostri occhi», aveva citato Jack Block nella sua lettera di condoglianze. Cercavo di non dimenticarlo.
La presenza di Paolo era stata così vibrante che ora il mondo sembrava improvvisamente silenzioso.
I giorni passavano in una foschia di solitudine e di attesa. Trovavo rifugio nelle mie poesie e nel diario che scrivevo ogni giorno, come se gli parlassi ancora.
Presi l’abitudine di uscire la sera a camminare con i cani.
A Laikipia il mio momento preferito è quello che precede il tramonto, quando tutto sembra ricoperto di un pulviscolo dorato e una luce soffusa delinea i profili delle colline. Il verde argenteo dei leleshwa si mescola con il colore scuro e lucente dell’euclea, come in un mezzopunto di sfumati verdi salvia. L’acqua delle dighe riflette il cielo, famiglie di oche egiziane nuotano tranquille disegnando increspature nere sulla superficie specchiata e i pellicani pescano in piccoli gruppi coordinati, come ballerine.
Mi piaceva camminare con i cani. Li chiamavo per nome e accorrevano, mi premevano i musi caldi contro le gambe per chiedere una carezza, e io li grattavo sul naso o dietro le orecchie. A volte incontravamo qualche bufalo, e più spesso elefanti che mangiavano senza rumore dai rami più alti di un’acacia, traditi solo dallo schianto improvviso di legno spezzato. Allora dovevo restare immobile e augurarmi che i cani resistessero all’impulso di abbaiare o di lanciarsi in un attacco giocoso che risultava sempre in una finta carica da parte dell’elefante che mi agghiacciava il sangue per qualche attimo. Tornavo quando le ultime ombre, prima di notte, creavano sagome nuove nella boscaglia, e sembravano tutte bufali.
Emanuele era più taciturno del solito. Aveva preparato per la sua stanza un grande poster con le istantanee di giorni felici, e si impegnava a portare a termine un progetto, Studio dei pesci spada del Kenya, a cui aveva lavorato in segreto al tempo della morte di Paolo, e che aveva avuto intenzione di regalargli per il compleanno.
Quando lo ebbe finito, scrisse nella prima pagina:
«For my father, Paolo, who taught me to appreciate the skills and crafts of Deep Sea Fishing, and the challenge that this magnificent, yet unpredictable sport presents. Emanuele 28.3.1980.» (A mio padre, Paolo, che m’insegnò ad apprezzare l’arte della pesca d’altura, e le sfide che questo magnifico ma imprevedibile sport rappresenta. Emanuele.)
Intanto la mia pancia cresceva, e la nascita del bambino si avvicinava. Ogni giorno andavo a curare la tomba di Paolo, al margine del giardino. Un grande masso di pietra era stato portato da uno dei luoghi preferiti di Paolo, all’ombra di una gigantesca euforbia che lui aveva amato usare come punto d’incontro, e che, per questa ragione, era stata chiamata «Bobonghi ya Paulo». Era la sua pietra tombale, e pesava più di due tonnellate. Con l’aiuto di Emanuele, Colin vi aveva scolpito semplicemente il nome, PAOLO, e la data della morte: 19.3.1980.
Un giorno ero seduta a gambe incrociate, con la schiena contro la pietra e strappavo le erbacce cresciute tra le portulache che avevo piantato. Ero perduta nei miei pensieri e in un monologo rivolto a lui che non aveva bisogno di parole. Cercavo di comunicare con lui, e pensavo che ci sono cose, come la musica, i profumi o la luce, capaci di evocare stati d’animo, luoghi e persone e che, non avendo forma, sono al di fuori del tempo. Riflettevo sulla frase che i cattolici spesso usano per i santi, «morì in odore di santità », e ricordavo storie che avevo sentito a proposito di gente che moriva e di fragranze misteriose che saturavano l’aria. C’era il racconto della morte di mia nonna: era una donna molto religiosa, ed era anche una medium. Quando mia madre era entrata nella camera dove era stata composta prima del funerale, era stata colpita da un profumo intensissimo di gardenie, i suoi fiori preferiti: eppure nella stanza non c’erano fiori.
Mi concentrai su questo pensiero e chiesi un segno, un segno qualunque. Non c’era un profumo particolare che potessi associare a Paolo: non aveva mai usato lozioni o dopobarba. Ma all’improvviso l’aria si riempì di un fortissimo odore. Non era un profumo, ma un disinfettante o un deodorante, dolciastro e vagamente medicinale, piuttosto sgradevole e senza dubbio artificiale, ed esalava dalle dita che avevo usato per strappare le erbacce.
Fu così forte e improvviso, e così riconoscibile, che la bocca mi si inaridì per l’emozione: era lo stesso odore che dominava nell’obitorio il giorno in cui ero andata a vedere Paolo per l’ultima volta, prima di portarlo a Laikipia per seppellirlo.
Osservai le mie dita con stupore e reverenza, e, socchiudendole come a proteggerle, me ne andai a cercare mia madre, che era venuta dall’Italia per il parto. Volevo un testimone a quello strano avvenimento.
«Senti niente?» chiesi speranzosa, incerta come se si fosse trattato di uno scherzo della mia immaginazione. Mia madre arricciò il naso. «Sì, è molto forte… un disinfettante o qualcosa del genere… che cos’è?»
Quando le spiegai cos’era accaduto e l’unica associazione esistente con quell’odore, non si mostrò sorpresa. «Ho sempre saputo che sei un po’ strana, Kuki» disse con calma. «Come la nonna. Non c’è niente in te che possa sorprendermi.» Fu tutto.
L’odore persistette a lungo prima di affievolirsi. Soltanto un’altra volta, tre anni più tardi, ritornò, e in modo tale da farmi comprendere che quella prima volta non poteva essere stata soltanto una coincidenza.
a. «Mi ricordo dei giorni passati e piango.»
XXIV
Sveva
A little while, a moment of rest upon the wind, and another woman shall bear me.a
KAHLIL GIBRAN, The Prophet
«Ha mai visto due occhi così blu?» Il dottore mi porgeva la neonata perché la vedessi. «Una bellissima bambina. Brava.»
Avevo atteso per lunghi mesi quel momento. Avevo ascoltato quell’essere invisibile che scalciava nel mio ventre, avevo riposato nei lunghi pomeriggi e avevo ricamato un cuscino con la scritta FOR PAOLO’S BABY. Avevo seguito una dieta appropriata, avevo fatto ginnastica, subito visite e accertamenti: niente doveva andar male per la nascita del figlio di Paolo. Ascoltavo sempre la musica di Boccherini che aveva un effetto rasserenante su di me.
Tenendo conto dei problemi che avevo incontrato e della mia non più giovane età , il dottore suggerì il parto pilotato, e avevo scelto una data possibile che mi sembrava di buon auspicio: il 18.8.80.
Ma non ce ne fu bisogno, perché in quella data mia figlia nacque in modo naturale. Erano le 4 e 35 del mattino, pesava 4 chili ed era lunga 51 centimetri.
Quando ero arrivata all’ospedale mi sentivo bene, con una grande curiosità , e senso d’attesa. L’infermiera che veniva a controllare aveva un’aria perplessa. Ero in travaglio. Dalla cuffia che portavo alle orecchie e dai microfoni fissati intorno al mio ventre, la musica fluiva e cancellava i dolori sommergendo entrambe in ondate di pura armonia. La musica che Paolo aveva amato e scelto per il suo funerale doveva anche essere la musica della sua rinascita. La bambina nacque con la musica come unica medicina. E non piangeva.
È un momento unico, il primo incontro tra una madre e suo figlio, la prima occhiata alla creatura misteriosa che per mesi è stata portata e nutrita nel segreto del grembo ed ora è un essere umano e diverso e per sempre indipendente, con lineamenti ereditati da generazioni di antenati. Tesi le mani. Testa perfetta, carnagione dorata, una lanugine di capelli d’oro scuro e, straordinari in una neonata, aperti, franchi e intensi occhi azzurri.
«Un segno, dammi un segno.»
Lentamente, quasi deliberatamente, mentre gli occhi blu non si distoglievano dai miei, incurvò strettamente l’indice della manina sinistra e mi afferrò la mano con le altre dita. Sollievo, debolezza, gioia, mi attanagliarono lo stomaco.
«Bentornato» mormorai prima di addormentarmi.
Avevo avuto la certezza che sarebbe stata una copia di Paolo, quindi un maschio. Ma Paolo sapeva più di me.
La chiamai Sveva, il nome che lui aveva scelto, e Paola come secondo nome. Gli Svevi erano stati un nobile popolo che aveva invaso l’Italia venendo dal nord all’inizio del decimo secolo, e si era insediato in Sicilia. I loro capelli biondi e gli occhi azzurri si incontrano ancora oggi in alcuni siciliani che di regola hanno carnagione, occhi e capelli molto scuri. Era un bel nome poco comune che si addiceva perfettamente al suo aspetto.
In un giorno la mia camera all’ospedale divenne una serra traboccante di fiori e di piante che riempirono ogni vaso, ogni mensola, e dilagarono persino nel corridoio. Molta gente veniva a trovarmi, gli amici portavano champagne, e da ogni parte arrivavano lettere e telegrammi. Avevo assunto una bambinaia, una kikuyu che si chiamava Wanjiru, intelligente, simpatica ed istruita, assennata, imponente e spiritosa, che aveva già avuto sei figli suoi. Venne in ospedale con Emanuele, entrò nella mia camera e si accostò subito alla culla. Prese in braccio la bambina e la sollevò esclamando con entusiasmo: «A musijana! (Una femmina!) Mtoto yangu! (La mia bambina!)». Sveva sorrise con la piccola bocca sdentata. «Makena! (Allegra)» esclamò Wanjiru in kikuyu. Fin da quel primo momento compresi che il loro rapporto sarebbe stato di grande affetto: divenne infatti un legame...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- SOGNAVO L’AFRICA
- Ringraziamenti
- Introduzione all’edizione italiana
- Prologo
- Parte I. PRIMA
- Parte II. PAOLO
- Parte III. EMANUELE
- Parte IV. DOPO
- Epilogo
- Resurrezione
- Glossario
- Copyright