
- 348 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
1984 è il testamento di uno scrittore che ha dedicato la vita alla difesa della libertà e della verità, denunciando tutte le perversioni politiche, dall'imperialismo all'ingiustizia sociale ai totalitarismi di ogni colore.
1984 è un potentissimo monito contro l'odio verso l'altro, contro le false informazioni, contro il "sentire di pancia", contro gli insulti all'immaginazione, contro le parole che non corrispondono a un pensiero.
Letto 1984, chiunque vedrà con chiarezza che l'errore socialmente più grave è il rifiuto dell'intelligenza.
Nicola Gardini
Domande frequenti
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Informazioni
PARTE SECONDA
1
Era metà mattina e Winston aveva lasciato il cubicolo per andare in bagno.
In fondo al lungo corridoio, fin troppo illuminato, gli veniva incontro una figura solitaria. Era la ragazza mora. Erano passati quattro giorni dalla sera in cui si era imbattuto in lei uscendo dalla rigatteria. Appena gli si avvicinò, Winston notò che aveva il braccio destro appeso al collo. In lontananza la benda non si notava perché era dello stesso colore della tuta. Probabilmente si era schiacciata la mano manovrando uno dei grandi caleidoscopi su cui si “sbozzavano” le trame dei romanzi. Di incidenti così, al Dipartimento di Letteratura, ne capitavano spesso.
Erano a circa quattro metri di distanza quando la ragazza inciampò e per poco non finì lunga distesa di faccia. Il dolore le strappò un urlo. Doveva essere caduta proprio sul braccio infortunato. Winston si fermò. La ragazza si era messa sulle ginocchia. La faccia le si era colorata di un giallo latteo, su cui spiccava, più rossa che mai, la bocca. Gli piantò gli occhi negli occhi, con un’espressione affascinante che trasmetteva più paura che dolore.
Nel cuore di Winston si agitò una strana emozione. Davanti a sé aveva un nemico che stava cercando di ucciderlo; davanti a sé aveva pure un essere umano, che provava dolore e forse aveva un osso fratturato. D’istinto aveva già cominciato a soccorrerla. Vedendola cadere sul braccio bendato, si era sentito anche lui invadere dal dolore fisico.
«Ti sei fatta male?» disse.
«Non è niente. Il braccio. Passa subito.»
Sembrava, mentre parlava, in preda a un mancamento. Di certo era diventata molto pallida.
«Niente di rotto?»
«No, sto bene. Solo una fitta momentanea, tutto qua.»
Gli allungò la mano libera, e lui la aiutò a rialzarsi. Le era tornato un po’ di colore, e a vedersi stava decisamente meglio.
«Non è nulla» ripeté sbrigativamente. «Ho solo sbattuto il polso. Grazie, compagno!»
E senza aggiungere altro si avviò prontamente nella direzione di prima, come se davvero non fosse stato nulla. In tutto l’incidente era durato, a dir tanto, mezzo minuto. Cancellare dal volto qualunque sentimento era ormai, più che un’abitudine, un istinto. In ogni caso, durante l’accaduto si trovavano proprio di fronte a un teleschermo. Eppure era stato molto difficile non tradire lo stupore, perché nei due o tre secondi in cui l’aveva aiutata a tirarsi su lei gli aveva messo in mano qualcosa. L’aveva fatto apposta, non c’era dubbio. Era un oggetto piccolo e piatto. Infilando la porta del bagno, Winston se lo cacciò in tasca e lo tastò con la punta delle dita. Era un quadratino di carta ripiegata.
Fermo davanti all’orinatoio, aiutandosi ancora con le dita, riuscì a spiegarlo. Doveva contenere qualche messaggio scritto. Per un attimo fu tentato di chiudersi in uno dei cessi a leggerlo. Ma sarebbe stata una vera pazzia, lo sapeva bene. Non c’era altro posto in cui lo spionaggio dei teleschermi fosse più assiduo, potevi starne certo.
Tornò al cubicolo, si mise a sedere, gettò con disinvoltura il pezzetto di carta sulla scrivania in mezzo ad altre carte, inforcò gli occhiali e si avvicinò il parlascrivi. “Cinque minuti,” disse a se stesso “cinque minuti, come minimo!” Il cuore gli picchiava nel petto con un gran fracasso. Per fortuna il compito che stava svolgendo era solo routine, la rettifica di un lungo elenco di cifre, che non richiedeva particolare attenzione.
Il biglietto, qualunque fosse il contenuto, era di certo un messaggio politico. C’erano, per quanto riusciva a vedere, due possibilità. La prima – quella più probabile – era che la ragazza fosse un’agente della Polizia del Pensiero, esattamente come aveva temuto. Non sapeva perché la Polizia del Pensiero dovesse proprio comunicare in quel modo, ma avrà avuto le sue buone ragioni. Il biglietto poteva contenere una minaccia, una convocazione, un ordine di suicidio, una trappola di qualche tipo. Ma c’era anche un’altra possibilità, più pazzesca, che continuava ad affacciarglisi alla mente, per quanto provasse a reprimerla: che il messaggio non venisse affatto dalla Polizia del Pensiero, ma da qualche organizzazione segreta. Forse la Fratellanza esisteva davvero! Forse la ragazza ne faceva parte! L’idea era assurda, senza dubbio, ma gli era venuta non appena aveva sentito nella mano il pezzetto di carta. La spiegazione più probabile si era fatta strada solo un paio di minuti più tardi. E anche adesso, nonostante l’intelligenza gli suggerisse che il messaggio doveva significare morte, comunque non voleva crederci, e l’irragionevole speranza permaneva, e il cuore gli batteva contro il petto, ed ebbe qualche difficoltà a sussurrare con voce ferma le cifre al parlascrivi.
Arrotolò il plico del lavoro compiuto e lo spinse nel tubo pneumatico. Erano passati otto minuti. Si sistemò gli occhiali sul naso, sospirò e si avvicinò il mucchio di carte successivo, su cui era posato il biglietto. Lo stirò. A mano, in caratteri grandi e incerti, c’era scritto:
TI AMO
Rimase stordito per parecchi secondi, incapace di buttare nel buco della memoria quel capo d’accusa. Poi si decise a farlo e, pur sapendo che mostrarsi troppo interessato era pericoloso, non poté resistere alla tentazione di leggere il biglietto una seconda volta, giusto per assicurarsi che le parole fossero davvero lì.
Per il resto della mattinata gli risultò molto difficile lavorare. Non mostrarsi agitato davanti al teleschermo era assai più faticoso che mantenere viva l’attenzione passando da un lavoro da nulla a un altro. Nella pancia era come se gli fosse scoppiato un incendio. La mensa gremita, rumorosa e calda fu una tortura. A pranzo aveva sperato di starsene da solo per un po’, ma la sfortuna volle che gli si spaparanzasse accanto quell’imbecille di Parsons, il cui tanfo riuscì a coprire perfino gli effluvi metallici dello stufato. Non la smetteva di parlare dei preparativi per la Settimana dell’Odio. Lo entusiasmava in modo particolare il testone in cartapesta del Grande Fratello, largo due metri, che stavano montando per l’occasione la figlia e la sua squadra di Spie. Nel vociare generale Winston sentiva a malapena le parole di Parsons e doveva continuamente chiedergli di ripetere le sue scemenze. Davvero irritante. Solo una volta riuscì a vedere la ragazza, che sedeva a un tavolo con altre due ragazze, all’altro capo della sala. Non pareva averlo notato, e lui non guardò più nella sua direzione.
Il pomeriggio fu più sopportabile. Subito dopo il pranzo arrivò un lavoro difficile, delicato, che richiedeva parecchie ore e costringeva a mettere da parte qualunque altra occupazione. Si doveva falsificare una serie di rapporti sulla produzione di due anni prima al fine di screditare un importante membro del Partito Interno, finito nel mirino. Winston era bravo in questo genere di operazioni, e per oltre due ore riuscì a togliersi la ragazza dalla testa. Poi il ricordo del suo viso tornò, e con quel ricordo la voglia rabbiosa, dolorosa di stare da solo. Finché non si fosse trovato da solo, non sarebbe riuscito a dare un’interpretazione dell’evento. Stasera gli toccava andare al Centro Sociale. Trangugiò un altro insipido pasto in mensa, si precipitò al Centro, partecipò a quella solenne pagliacciata che era la “discussione di gruppo”, fece due partite di ping-pong, si scolò parecchi bicchieri di gin e ascoltò per mezz’ora una conferenza che si intitolava “Rapporti tra Socing e scacchi”. Le budella gli si torcevano dalla noia, ma per una volta non aveva avuto l’impulso di saltare la serata al Centro. Lette le parole TI AMO, in lui era rinato il desiderio di rimanere vivo. All’improvviso gli sembrava che fosse da stupidi correre rischi inutili. Alle ventitré rientrò a casa e solo allora, a letto – al buio, dove eri al sicuro anche dal teleschermo, se stavi zitto –, poté seguire il filo dei propri pensieri senza interruzioni.
Bisognava anzitutto risolvere un problema di ordine pratico: come contattare la ragazza e come fissare un appuntamento. Non pensava più che lei gli stesse tendendo una trappola. Sapeva che non era così; lo rivelava l’indubbia agitazione con cui gli aveva passato il biglietto. Era chiaramente fuori di sé dalla paura. Né lo sfiorò minimamente l’idea di respingere le sue avances. Solo cinque sere prima aveva desiderato di fracassarle la testa con un sasso, ma ormai che importava? Pensò al suo corpo giovane, nudo, come l’aveva visto in sogno. L’aveva creduta una stupida come tutti gli altri, con la testa infarcita di bugie e di odio, e il ventre ghiacciato. Si sentì prendere da una sorta di febbre al pensiero di perderla – al pensiero che quel corpo candido e giovane gli sfuggisse! Più di ogni altra cosa temeva che lei potesse semplicemente cambiare idea nel caso non si fosse fatto vivo al più presto. Ma entrare in contatto con lei era difficilissimo. Era come pretendere di muovere una pedina dopo aver subito scacco matto. Ovunque ti voltassi ti ritrovavi davanti un teleschermo. A dire il vero, nei cinque minuti che seguirono la lettura del biglietto gli erano venuti in mente tutti i mezzi possibili per comunicare con lei. Adesso, avendo più tempo per pensare, li prese in esame uno a uno, come una serie di strumenti da allineare sul tavolo.
Di certo, il tipo di incontro che era avvenuto quella mattina era irripetibile. Se la ragazza avesse lavorato ai Registri, sarebbe stato tutto relativamente più semplice, ma lui ignorava dove si trovasse per l’esattezza il Dipartimento di Letteratura, né aveva una buona scusa per recarvisi. Se avesse saputo il suo indirizzo e i suoi orari, avrebbe potuto cercare di incontrarla all’uscita dal lavoro, sulla via di casa. Ma qualunque tentativo di pedinamento lo avrebbe messo in pericolo, perché gli imponeva di aggirarsi al di fuori del Ministero, il che avrebbe dato nell’occhio. Inviarle una lettera per posta, no, era fuori discussione. Di norma tutte le lettere venivano aperte prima della consegna, e la cosa non era un segreto. Pochi, in effetti, scrivevano lettere. Per i messaggi che di tanto in tanto occorreva spedire esistevano le cartoline preconfezionate: bastava cancellare le espressioni che non servivano. In ogni caso, Winston ignorava il nome della ragazza, e pure l’indirizzo. Finalmente stabilì che il posto più sicuro per un incontro fosse la mensa. Se fosse riuscito a trovarla sola al tavolo, nel mezzo della sala, non troppo vicino ai teleschermi, avvolta da un sufficiente brusio, e se queste condizioni si fossero mantenute, diciamo, per una trentina di secondi, forse avrebbe avuto modo di scambiare qualche parola con lei.
La settimana seguente la vita si ridusse a un sogno inquieto. Il giorno dopo lei si presentò in mensa proprio mentre lui se ne stava andando, dopo il fischio. Forse le avevano spostato il turno. Si incrociarono senza scambiarsi neppure uno sguardo. Il giorno dopo ancora la ragazza arrivò in mensa al solito orario, ma con altre tre ragazze, e si sedettero sotto un teleschermo. Poi per tre orribili giorni non si fece vedere. Gli opprimeva la mente e il corpo un’ipersensibilità morbosa, una sorta di permeabilità, che rendeva un’agonia ogni movimento, ogni suono, ogni contatto, ogni parola che pronunciasse o ascoltasse. Neppure nel sonno riusciva a sfuggire del tutto all’immagine di lei. In quei giorni non toccò il diario. Un po’ di sollievo, per così dire, glielo dava il lavoro, in cui poteva perdersi talvolta per dieci minuti di fila. Nemmeno riusciva a immaginare che cosa le fosse successo. Impensabile far ricerche. Potevano averla vaporizzata, indotta al suicidio, o trasferita ai margini dell’Oceania: o semplicemente – la cosa peggiore e la più probabile – la ragazza aveva cambiato idea e deciso di evitarlo.
Il giorno dopo ricomparve. Il braccio non le pendeva più dal collo. Aveva il polso ingessato. Nel rivederla provò un sollievo così grande che non poté non fissarla per lunghi secondi. L’indomani quasi riuscì a rivolgerle la parola. Quando entrò in mensa, lei sedeva a un tavolo molto distante dalla parete, e non aveva gente intorno. Era presto, e la sala non si era ancora riempita. La coda avanzava, e Winston era quasi arrivato al bancone, ma poi si bloccò per due minuti perché quello che gli stava davanti cominciò a protestare non avendo ricevuto la sua tavoletta di saccarina. La ragazza, però, era ancora sola quando Winston prese un vassoio e si avviò verso il suo tavolo. Procedeva nella sua direzione come per caso, cercando con gli occhi un posto più in là di lei. Distava da lui circa tre metri. Ancora due secondi ed era fatta. E proprio allora qualcuno lo chiamò da dietro: «Smith!». Finse di non aver sentito. «Smith!» ripeté quello, alzando la voce. Pazienza. Si voltò. Un giovanotto con i capelli biondi e la faccia da scemo, tale Wilsher, che Winston conosceva a malapena, con un sorriso lo stava invitando al suo tavolo dove c’era un posto libero. Un no sarebbe stato poco prudente. Come faceva a sedersi al tavolo di una ragazza sola ora che l’avevano riconosciuto? Uno sproposito. Accettò l’invito di Wilsher con un sorriso amichevole. La faccia da scemo del biondo si illuminò. In un’improvvisa allucinazione Winston si vide piantare una scure proprio nel mezzo di quella faccia. Due minuti dopo al tavolo della ragazza non avanzava un posto.
Ma doveva aver notato che andava verso di lei, e forse aveva colto il segnale. L’indomani Winston fece in modo di arrivare presto. E, guarda caso, lei aveva preso posto più o meno nella medesima posizione, e di nuovo era sola al tavolo. Quello che lo precedeva nella coda era un tipo piccolo, rapido, una specie di insetto, con la faccia piatta e due occhi minuti e sospettosi. Allontanandosi dal bancone con il vassoio, Winston notò che il piccoletto puntava dritto verso il tavolo della ragazza. Di nuovo le sue speranze naufragarono. C’era ancora un posto a un tavolo più distante, ma osservando l’uomo si poteva star certi che per amore della comodità avrebbe scelto il tavolo più vuoto. Winston procedeva dietro di lui, sfiduciato. A che serviva, se non trovava sola la ragazza? In quel momento si udì un frastuono tremendo. Il piccoletto era finito a faccia in giù: il vassoio era volato via, e la zuppa e il caffè formavano due rigagnoli sul pavimento. Si rialzò e lanciò uno sguardo malvagio a Winston; sospettava evidentemente che lui gli avesse fatto lo sgambetto. Poco male. Cinque secondi dopo, con il cuore in gola, Winston si mise a sedere al tavolo della ragazza.
Non la guardò. Tolse il piatto dal vassoio e cominciò a mangiare. Bisognava parlare all’istante, prima che arrivasse qualcuno, ma adesso una gran paura si era impossessata di lui. Era passata una settimana dal giorno in cui lei lo aveva avvicinato. Intanto avrà cambiato idea, per forza! Questa storia non poteva finir bene; cose così non succedevano nella vita reale. Avrebbe evitato di dire anche solo una parola se in quel momento non avesse visto zoppicare per la sala, reggendo il vassoio, Ampleforth, il poeta con le orecchie pelose, alla ricerca di un posto. Ampleforth era abbastanza legato a Winston, e di sicuro si sarebbe seduto al suo tavolo se si fosse accorto di lui. C’era solo un minuto per agire. Sia Winston sia la ragazza stavano mangiando d’impegno. La pietanza era un molle stufato di fagioli, anzi una vera e propria zuppa. Winston cominciò con un sussurro. Nessuno dei due alzò la testa; d’impegno si cacciavano in bocca cucchiaiate di quella sbobba, e tra un boccone e l’altro si scambiarono con voce inespressiva, bassissima, le poche parole che servivano.
«A che ora stacchi?»
«Diciotto e trenta.»
«Dove possiamo incontrarci?»
«Piazza della Vittoria, vicino al monumento.»
«È pieno di teleschermi.»
«Non importa, se c’è folla.»
«Qualche segnale?»
«No. Non avvicinarti finché non mi vedi in mezzo a tanta gente. E non guardarmi. Basta che resti nei paraggi.»
«A che ora?»
«Diciannove.»
«Bene.»
Ampleforth non vide Winston e si sedette a un altro tavolo. Winston e la ragazza non si riparlarono, e, per quanto potessero due che sedevano di fronte allo stesso tavolo, non si guardarono. Lei finì in fretta di pranzare e se ne andò, mentre Winston rimase a fumare una sigaretta.
Winston arrivò in Piazza della Vittoria prima dell’ora concordata. Passeggiò intorno alla base dell’enorme colonna scanalata: in cima, la statua del Grande Fratello contemplava, in direzione sud, i cieli dove aveva vinto gli aerei eurasiatici (quelli estasiatici, invece, li aveva vinti alcuni anni addietro) nella battaglia di Pista d’Atterraggio Uno. Nella strada di fronte si trovava la statua di un uomo a cavallo che doveva rappresentare Oliver Cromwell. Alle diciannove e cinque la ragazza non era ancora arrivata. Di nuovo una gran paura assalì Winston. Non sarebbe venuta, aveva cambiato idea! Si diresse a passi lenti verso il lato nord della piazza e provò un’ombra di piacere riconoscendo San Martino, le cui campane, quando ancora le aveva, cantavano “Mi devi un bel soldino”. Poi la vide. Era ferma alla base del monumento e leggeva o fingeva di leggere un poster che avvolge...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- 1984
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Appendice. I principi della Novalingua
- Postfazione. Il canto che vive. di Nicola Gardini
- Copyright