Time and Time Again
  1. 704 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Un maestro della fantascienza moderna alle prese con il più amato tema del genere, il viaggio nel tempo. Robert Silverberg ci mostra un matrimonio distrutto da un rivale capace di spostarsi tra le epoche; un essere umano che si risveglia nella mente di un'aragosta; e non può mancare la classica "sbirciatina" al giornale del giorno dopo... sedici immaginifici racconti, tutti arricchiti di nuove introduzioni dell'autore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804752011
eBook ISBN
9788835717034
Argomento
Literature

Ritorno a casa

Ho sempre avuto il desiderio segreto di scrivere il racconto definitivo sulle aragoste giganti. I pionieri della fantascienza avevano già parlato della maggior parte delle altre mostruosità più orrende – comprese le zie giganti di Isaac Asimov nel suo classico racconto “Dreamworld”, che temo di avervi appena rovinato rivelandovi la sua trovata geniale. Ma le aragoste giganti sono sempre rimaste libere. E quando George Scithers, il nuovo caporedattore della venerabile rivista di fantascienza «Amazing Stories» mi ha chiesto, nell’autunno del 1982, un racconto lungo, ho deciso che era venuto infine il momento di rendere omaggio alle aragoste.
La trama più ovvia, in cui orrendi mostri dotati di chele e lunghi sei metri uscivano dall’acqua sulla costa di Malibù e si lanciavano alla conquista di Los Angeles terrorizzando i surfisti sarebbe stata bene in un film di fantascienza di serie B, ma non avrebbe avuto grandi possibilità di essere apprezzato da lettori sofisticati come Scithers. Del resto, non piaceva molto neanche a me come scrittore. Perciò, seguendo il consiglio del geniale e bisbetico caporedattore Horace Gold, uno dei miei primi mentori, ho cercato un’idea per la mia storia rovesciando l’ovvio. Le aragoste sono animali già piuttosto mostruosi, dopotutto. Sono forti, irascibili, pericolose e brutte, di certo il cibo più terribile che l’umanità abbia mai apprezzato. Una creatura così odiosa sotto tanti punti di vista deve avere una caratteristica che la redima (a parte il gusto incredibile della sua carne, certo). Perciò, invece di immaginarle come i mostri orrendi che in realtà sono, perché non farle evolvere per centinaia di milioni di anni, trasformandole in creature sagge, intelligenti e civilizzate, di fatto la specie dominante di una Terra molto cambiata?
Una bella sfida, sì. Resa ancora più difficile, per me, in quel novembre soleggiato e piacevole del 1982, dal fatto che avessi appena compiuto il grande salto dalla macchina da scrivere al computer. “Ritorno a casa” ha segnato la mia iniziazione al mondo dei floppy disk e dei trattini corti, delle copie di backup e dell’impaginazione automatica. Adesso è una seconda natura, per me, certo, ma nel 1982 mi sono trovato timidamente a esplorare un mondo tutto nuovo e davvero strano. Ogni giorno di lavoro era un’avventura terrificante, per me. Le mie parole apparivano in lettere bianche su uno schermo nero, spaventosamente fragili: sarebbe bastato uno starnuto elettronico, e un intero giorno di prosa geniale sarebbe svanito come un viaggiatore del tempo che avesse appena defenestrato suo nonno. La possibilità di fare dei salvataggi non mi tranquillizzava: come potevo essere certo che il semplice atto di salvare il mio lavoro non cancellasse ciò che avevo appena scritto? Premere il pulsante “salva” avrebbe salvato davvero qualcosa? Spegnere il computer, alla fine della giornata, era come saltare in un abisso. La storia sarebbe stata ancora lì, la mattina dopo, quando avessi riacceso la macchina? Con la massima cautela, stampavo ogni giorno il lavoro, una volta finito, prima di salvarlo o toccarlo elettronicamente in altro modo. Volevo prima vederlo davvero sano e salvo sulla carta.
A volte, quando mettevo insieme una scena particolarmente complessa – per esempio, quella al centro della storia che comincia con la frase “Le aragoste cantavano, mentre marciavano” – mi fermavo a stampare tutto prima di procedere, consapevole che se il computer avesse deciso di distruggerla, non sarei mai più riuscito a ricostruirla così bene (è un assioma, tra gli scrittori, che il materiale scritto per sostituire qualcosa che è andato involontariamente perso non sarà mai all’altezza del passaggio perso, che diventa sempre più bello nel ricordo dello scrittore).
In qualche modo, fra timori e angosce, sono riuscito a tirare fuori l’intero manoscritto – ottantotto pagine – di “Ritorno a casa” senza chissà quale disastro. Il computer mi ha reso meravigliosamente facile la revisione del racconto man mano che lo producevo. Invece di dover prima battere a macchina una bozza di ottantotto pagine, aggiungendo poi chissà quanti cambiamenti a mano e poi battendo di nuovo il tutto a macchina per poterlo mostrare a un editor, potevo effettuare tutte le mie correzioni con pochi movimenti del cursore sullo schermo. Quando mi sono reso conto di aver scelto un nome sbagliato per un personaggio minore, e ho ordinato al computer di correggere il mio errore, sono rimasto stupito nel vedere che “Eitel” era diventato “Bleier” in tutto il racconto senza dover fare nulla. E poi, alla fine, è arrivato il momento magico in cui ho premuto il pulsante “stampa” – sì, i computer avevano simili pulsanti, in quei giorni pre-Microsoft – e sono iniziate a uscire fuori pagine su pagine di immacolata carta stampata, mentre io mi occupavo di altre cose meno preoccupanti.
Il racconto è stato pubblicato nel numero di novembre 1983 di «Amazing Stories», anche se la sua vera prima pubblicazione fu un piccolo volume in edizione limitata, uscito a luglio di quell’anno con Phantasia Press. Ai lettori è piaciuto ed è arrivato finalista al Premio Nebula di quell’anno, e forse avrebbe perfino potuto vincere, se fosse stato pubblicato in una rivista più conosciuta della cara, vecchia «Amazing», che a quel punto della sua lunga esistenza aveva solo una manciata di lettori. Quello stesso anno, il veterano della fantascienza Donald A. Wollheim lo scelse per la sua antologia annuale World’s Best SF, un onore che mi ha reso particolarmente felice. Avevo immaginato “Ritorno a casa” come una versione moderna e agile di quel genere di storia di fantasia che Wollheim aveva onorato nelle riviste di fantascienza degli anni Trenta, e il fatto che l’abbia scelto per la sua antologia ha confermato la mia sensazione di aver lavorato nel solco di una grande tradizione.
McCulloch stava per fare la muta. Quella sensazione, ineluttabile e inconfondibile, lo terrorizzava – era come se il suo corpo stesse per spaccarsi, cosa che in effetti stava per fare – eppure al tempo stesso era del tutto familiare, attesa e benvenuta. Ondate dopo ondate di sconvolgente dolore lo attraversavano. Affondando nel letto sabbioso, agitò le sue grosse chele, sbattendo la coda piatta contro la sabbia candida, graffiandola frenetico con rapidi e angosciati movimenti delle otto gambe.
Aveva paura. Era calmo. Non aveva idea di quello che gli sarebbe successo. L’aveva fatto già cento volte.
I prodromi della muta avevano un potere sconvolgente. Scacciarono dalla sua mente qualsiasi domanda, e, dopo un attimo, qualsiasi paura. Una linea rovente gli corse lungo la schiena – no, lungo la parte superiore del carapace – da un punto appena dietro la testa fino ai primi segmenti del ventaglio della coda. Immaginò che tutta la forza del sole, concentrata attraverso una lente gigantesca, gli stesse scorrendo in una singola linea lungo il guscio. La parte morbida e interna del suo corpo si stava agitando, distorcendo, espandendo, riempiendo il carapace fino all’estremo. Eppure, il guscio rigido riusciva ancora a contenerlo, rifiutandosi di cedere alla pressione. Per McCulloch era come stare dentro a una muta cinque volte troppo piccola.
Cos’è il sole? Cos’è una lente d’ingrandimento? Cos’è una muta?
Quelle domande gli balzarono in mente di colpo, come tante creaturine piene di zampe che saltavano fuori dalla sabbia. Ma non ebbe il tempo di rispondere. La muta stava procedendo con assurda velocità, portandolo con sé. La tensione stava diventando intollerabile. Pochi istanti e sarebbe sicuramente esploso. Si stava dibattendo in brevi convulsioni angolari. Dentro le chele, i tessuti si stavano riducendo, ritirandosi all’interno dei possenti involucri, ma il resto di lui si stava inesorabilmente allargando.
Doveva uscire dal guscio, o il guscio l’avrebbe ucciso. Doveva liberarsi, in qualche modo, da quel contenitore che lo costringeva sempre di più. Affondando nella sabbia le chele e gran parte delle zampe, si sollevò, si contorse, si allungò, spinse. Si immaginò gravido di se stesso, in travaglio per dare alla luce se stesso.
Ah. Il carapace cominciò di colpo ad aprirsi.
La crepa era piccola, in mezzo alle spalle – spalle? – ma la sostanza imprigionata ne uscì con forza, allargandola e allungandola, e subito dopo il guscio duro e corneo era aperto da un’estremità all’altra. Ah. Ah. Che meraviglia, liberarsi da quella prigione! Ma McCulloch doveva ancora liberarsi del tutto. Con delicatezza, si ritirò all’indietro, sfilando una gamba dopo l’altra dalla copertura con movimenti precisi, quasi pignoli, come se stesse sfilando le braccia dalle maniche di un abito antichissimo e fragilissimo.
Finché non avesse liberato le enormi chele, però, sapeva di non potersi sfilare dal guscio aperto. E liberare le chele richiedeva estrema attenzione. Gli arti frontali si stavano ancora ritirando, e le giunture calcificate del guscio sembravano dissolversi e ammorbidirsi, ma comunque doveva sfilare le chele da un passaggio molto più stretto di loro. Era facile capire che un movimento troppo affrettato avrebbe potuto strappargli via un arto.
Si concentrò sul compito. Era un po’ come imporre ai propri polsi di rimpicciolirsi per farli passare attraverso un paio di manette.
Polsi? Manette? Cosa sono?
McCulloch non prestò attenzione a quella sconcertante voce interiore. Piano, piano, ecco… ah, sì, così! Una chela era libera. Poi l’altra, con lentezza e cautela. Fatto. Entrambe erano state ritratte. Il resto fu semplice: un po’ di contorsioni, stancanti ma non troppo complicate, e finalmente estese la spaccatura del carapace abbastanza da poterne strisciare fuori all’indietro. Poi rimase disteso sulla sabbia, lì accanto, esausto, privo di forze, nudo, molle e terribilmente vulnerabile. Avrebbe voluto solo scivolare di nuovo nel sonno da cui era emerso con quell’incubo del carapace che si apriva.
Ma una forza dentro di lui gli impedì di riposare. Aveva un momento per riprendersi, solo uno. Guardò alla propria sinistra, verso il guscio abbandonato. La vista era difficile – c’erano strani effetti di rifrazione che dividevano ogni immagine in migliaia di minuscoli frammenti – ma comunque, e nonostante la luce fioca, riuscì a vedere che il guscio, dorato e con ampi motivi rossi a forma di freccia, sembrava quello di un’aragosta, ma anche più intricato e bizzarro. McCulloch non capiva perché fosse dentro al guscio di un’aragosta. Perché era un’aragosta, certo; ma in realtà lui non era un’aragosta. Giusto? Eppure, era sott’acqua. Era disteso su uno strato di fine sabbia bianca, a profondità tali da non riuscire a vedere neanche un minimo di luce solare sopra di sé. L’acqua era tiepida, gentile, ricca di piccole creature gustose e di dati sensoriali che passavano sui suoi recettori in sconvolgente abbondanza.
Voleva saperne di più. Ma non aveva tempo di riposare e pensare, ora. Era vulnerabile. Qualsiasi nemico di passaggio avrebbe potuto distruggerlo, adesso. Doveva salire, salire in alto e cercare un nascondiglio: questa era la missione da compiere, adesso.
Prima, però, si prese il tempo di divorare il vecchio carapace. Anche quella sembrava una cosa fondamentale da fare subito, perciò lo raggiunse, determinato, afferrandolo con le chele, goffe all’aspetto ma curiosamente versatili, attirandolo verso le sue mobili ed efficienti mandibole. Quando ebbe finito di divorarlo, di sicuro per riciclare il calcare che conteneva, necessario per farsi crescere il nuovo guscio, si sollevò e cominciò a muoversi, sapendo in qualche modo che la direzione in cui si era avviato era quella giusta.
Ben presto avvertì le vibrazioni di qualcosa di grosso e solido con i suoi sensori: una parete, un ammasso di roccia che si sollevava davanti a lui. Subito dopo, mentre procedeva, riuscì a scorgere con la sua vista annebbiata il fianco ripido di un’ampia scogliera nera che si sollevava in verticale dal fondo dell’oceano. Nastri ondeggianti di alghe rossastre e gialle vi si aggrappavano, oltre a densi ammassi di spugne gommose a forma di dita, e gruppi striscianti di granchi, molluschi e vermi, che stimolarono parecchio l’appetito di McCulloch. Ma non era questo il momento di fermarsi a mangiare, a meno che non volesse a sua volta essere mangiato. Due...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Time and Time Again
  4. Introduzione
  5. Assolutamente inflessibile
  6. L’ago nel pagliaio temporale
  7. Viaggi
  8. Le molte case
  9. Ritorno a casa
  10. Cosa abbiamo scoperto dal giornale di oggi
  11. Cacciatori nella foresta
  12. L’amante di Jennifer
  13. Verso Bisanzio
  14. Breckenridge e il continuum
  15. L’uomo che fluttuava nel tempo
  16. Gianni
  17. L’altra estremità della curva a campana
  18. Danzando nel flusso del tempo
  19. Stazione Hawksbill
  20. Contro corrente
  21. Copyright