Era una calda sera di fine luglio del 2001 e a Genova c’era stato un weekend di guerriglia: barricate, cariche della polizia e buona parte della città asserragliata e a fuoco e fiamme per il G8.
Ma anche nello studio di registrazione della mia trasmissione televisiva, a Roma, quel giorno pareva fosse scoppiata una bomba.
Dalla mattina non era stato altro che un susseguirsi di notizie, numeri e immagini disperanti: gas lacrimogeni, corpi distesi o trascinati sull’asfalto, pallottole, feriti, un ragazzo morto.
E a sera, eccomi lì in cabina di regia, con i miei quarantasette anni e come di consueto in gabardine avana e camicia Brooks Brothers. Scorro le immagini violente dei vari spezzoni girati, e lo confesso: sono elettrizzato. Contento. Perché mi sento vivo solo fiancheggiando un campo di battaglia o accendendo una miccia accanto alla sostanza infiammabile.
Secondo il paziente analista che mi ha ascoltato per una manciata di anni, l’origine di questo insano piacere risiederebbe nel mancato confronto con mio padre, il fulgido Golia ricercatore e conoscitore della psiche, sotto la cui ombra protettiva mi sarei accucciato invece di tendere il sasso nella fionda come fece David. Per un’altra persona invece, il motivo è molto più bieco: amo contemplare e fiancheggiare gli scontri invece di viverli, perché sono un coniglio. Quella persona è una donna. Ma grazie al cielo io e quella donna non ci frequentiamo da decenni e dunque le sue affermazioni non possono più graffiarmi. Scaccio così al volo l’eco della sua voce dentro di me. Ci vuole meno di un attimo. Sono abituato.
Vorrei accendermi una sigaretta, ma ovviamente non posso, qui in studio il fumo è interdetto. Così mastico liquirizia e soppeso le immagini dei servizi finiti o in fase di montaggio, do una scorsa ai messaggi che si succedono a cascata sul display del mio cellulare e con poca pazienza ascolto, rimbrotto e mando al macero buona parte di ciò che mi viene proposto e mostrato. La frenesia del momento e la stanchezza pesano e i redattori, gli assistenti e i tecnici entrano ed escono dai diversi ambienti sempre sul punto di irritarsi e becchettarsi; perfino Lorenza, che mi fa da segretaria da più di cinque anni e che ho assunto soprattutto per la robusta capacità di incassare emergenze e fuori orario, dopo dieci ore di lavoro quasi ininterrotto, pur mantenendo il passo sicuro nell’avvicinarsi, appare provata. «Tua moglie dice che la cena è alle ventuno e trenta: ho prenotato per sei, solito tavolo fuori a destra; il direttore di rete ti può vedere domani a colazione. E ha richiamato Andrea Grassi, sempre per quella tua lezione su Televisione, Cinema e Linguaggio: dice che ci terrebbe molto, così ho pensato che...» mormora a raffica, per non spazientirmi. Ma è proprio quel suo tono fin troppo compito a farmi montare l’irritazione; così l’apostrofo prima che possa concludere: «Tu non pensi, metti solo in chiaro. Al direttore dici che lo vedo alle dodici, ma in azienda. Quanto a Grassi! Ma ti sembra il caso?». Lorenza vacilla impercettibilmente, ma non si scompone: «Gli avevi promesso di tenere quella lezione per il saggio di fine anno...».
«Due ospiti ci hanno dato buca e tu mi fai perdere tempo con le smanie di uno sceneggiatore per la sua cavolo di scuola! E il collegamento con la questura? E la liberatoria del minorenne black bloc? Chi ce li procura?, la scuola di Grassi?»
Lorenza sbatte le palpebre e fila via. Io scarto un’altra liquirizia e riprendo a guardare i filmati. Il montatore se ne sta curvo davanti a me, lanciandomi sguardi di sottecchi come se attendesse di essere impallinato.
Tutti hanno un tale timore, nelle emergenze. Io invece, mi placo. È ciò che accade adesso: nello schermo le immagini guizzano di sghimbescio, sfocate per le riprese di fortuna; e io mi sento a casa. Più il fumo sale offuscando le strade di Genova, più io comprendo, nel pulsare dello strazio, dove uno spettatore potrà piangere o infiammarsi. Reggere l’attenzione: io ormai lo so, anzi lo sento, come funziona. E se non mi stacco io, non si stacca neppure chi sta a casa.
Ma ecco che ora, all’improvviso, io mi stacco. Che succede? Qualcosa si è insinuato in quel ristretto spazio subliminale che fa allertare i sensi agli animali; e anche a me. Così, senza nemmeno sapere perché mi volto verso uno dei tanti monitor su cui scorrono in contemporanea le immagini di altri canali e programmi... Ed eccola, l’immagine che il mio istinto ha percepito solo sotto forma di brivido: un volto di donna; in una di quelle foto da documento, con posa innaturale ed espressione priva di profondità. L’immagine è scadente e l’ingrandimento ne esalta le imperfezioni, ma io m’incanto come davanti a un quadro del Louvre: perché conosco e riconosco senza ombra di dubbio quella bocca piena con gli angoli in giù; quel naso dritto e antico. E quegli occhi infossati verde cupo, severi, infantili, ma tanto intensi da sfocare le rughe d’espressione e la corona dei capelli fulvi: quella donna, io la conosco bene. Di quella donna ho scacciato la voce dentro di me, poco fa.
È Sara Rocchi.
La “mia” Sara.
Con la stessa illogica rapidità con cui mi sono voltato verso quel monitor, precipito nel ricordo del nostro ultimo e casuale incontro.
Fu due anni fa, a fine autunno del 1999.
Eravamo in metropolitana e io mi accorsi di lei solo poco prima di scendere. Se ne stava seduta lì con aria stanca, parlava a una donna molto anziana che aveva accanto, compitamente intenta a mangiare un dolce di pasta sfoglia, e le spazzava via le briciole con gesti leggeri, come si fa con i bambini; per questo non si accorse di me altro che da ultimo. Alzò gli occhi e quando scoprì che ero io ad aver pronunciato il suo nome, sorrise; era magra, sciupata e con indosso un cappotto di tessuto acrilico. Aveva i capelli tagliati cortissimi, ombre viola sotto gli occhi e il viso nudo e pallido: sembrava una Giovanna d’Arco in procinto di salire al rogo; ma il sorriso che spalancò su di me, fu come una manciata di coriandoli; poi mise a fuoco un pensiero, e il suo sguardo si rabbuiò. Ci dicemmo poco: le chiesi come stesse, e rispose «lo vedi»; domandai cosa facesse, e accennò alla donna anziana: «Anche questo lo vedi: faccio compagnia a Lisa e ad altri come lei»; allora allusi alla sua insolita magrezza e al pallore; e un po’ bruscamente domandai se per caso non stesse prendendo “roba” pericolosa; non avevo motivi per questo genere di insinuazioni perché neanche da ragazzi l’avevo vista fumare spinelli, bere, o altro; ma mi venne voglia di aggredirla, così: forse perché il suo aspetto trascurato mi faceva male; lei trasecolò, e scoppiò in una risata non allegra: «Basta e avanza la povertà, per stordirmi». Poi scosse la testa: «Povero Nicola».
«Perché?» chiesi indispettito.
Lei socchiuse gli occhi, mi scrutò e fece per rispondere, ma la donna anziana si intromise indicandomi col mento senza smettere di masticare: «Chi è? Il tuo pischello?».
Sara si strinse nelle spalle con aria divertita.
Il treno si stava fermando. Realizzai che dovevo scendere e mi abbassai a darle un frettoloso bacio sulla guancia. «Ti chiamo!» dissi mentre già ero sul marciapiede. Annuì, con l’aria di non crederci affatto.
Restai a guardarla fra la gente che mi camminava accanto mentre il treno riprendeva la sua corsa.
Il suo viso, bianco nella luce bianca del neon. Il suo sguardo dolente, eloquente, chiuso.
E poi, più niente. Solo lo schermo di un monitor: quello davanti a cui mi trovo oggi; dove continuano a scorrere immagini, informazioni e commenti di cui la mia mente si ostina a rifiutare il senso, come accade con le notizie che fanno troppo male.
Quando diverse ore dopo raggiungo la piazzetta del centro storico con la fontana, mia moglie Livia e la coppia di amici sono già seduti da tempo al tavolo all’aperto prenotato da Lorenza. Non ho bisogno di parcheggiare, perché sono arrivato fin qui con Franco, l’autista fornito dalla rete televisiva assieme alla berlina blu. Sia Livia che gli altri sono abituati ai miei ritardi, dunque hanno già ordinato prosciutto, mozzarella di bufala e Sauvignon. Livia mi stringe la mano e si fa baciare sui capelli continuando a parlare con gli altri; l’argomento che tanto li infervora, è il mare: com’era un tempo e com’è oggi; cambiamenti, rimpianti, amenità e un cicaleccio di ricordi che si accavallano. Livia tiene banco in modo brillante ma discreto, punteggiando il parlare con la sua erre blesa che rende chic anche la frase più banale; io mi distraggo, perché i suoi ricordi mi sono estranei: lei ha trent’anni, io quarantasette e l’accelerato modificarsi di usi e costumi fa sì che a dividerci pare ci sia un secolo. Butto giù il Sauvignon gelato, guardo la tavolata e isolo le immagini dalle voci: mi riesce bene; scomporre l’attenzione, per un multitasking come me è la condicio sine qua non. Così, quando infine mi intrometto non ho la minima idea di dove sia arrivata la conversazione: «È scomparsa una donna» dico. «Sparita. Da un mese nessuno ha suoi segni di vita o sa di lei.»
Nella tavolata si fa silenzio. Rodolfo, direttore di un importante quotidiano e uomo di spirito, è il primo a interloquire: «Ci dispiace... Ma la notizia? Dov’è?».
«Ne spariscono talmente tanti!» esclama sua moglie Monica sgranocchiando un grissino.
«Ma soprattutto, cosa c’entra questo con il mare di tanto tempo fa? Con le palline clic-clac e Giuni Russo?» sorride briosa Livia, che pare avere questo scopo nella vita: smorzare, alleggerire e sciogliere attriti trasformando tutto in gioco e complicità. Per questo ora vorrebbe che agganciassi al suo amo, che facessi un sorriso brioso anch’io e mi buttassi a rievocare, bevendoci su, i tormentoni, i balli e le canzoni. Invece resto serio e dico: «Indirettamente. Ma sì, c’entra». E mi accendo una sigaretta. Tiro una boccata, aspiro profondamente e poi lo svelo: che io e Sara siamo coetanei. E che abbiamo fatto amicizia proprio in quel mare “com’era”. Com’era nei nostri lontani anni Sessanta.
Tanto, tanto tempo fa...
... Sara alla rovescia. Ha meno di dieci anni, un costumino di filanca rossa, le ginocchia sbucciate, il naso coperto di efelidi e mi guarda dondolandosi a testa in giù dal trapezio, le braccia che oscillano nel vuoto e gli occhi che luccicano come se avessero preso il sole anche loro: «È facile!» esclama piena di entusiasmo; e per spiegarmi si issa su con agilità, si siede di nuovo sul trapezio, scivola all’indietro mostrandomi come serrare le gambe alla barra, come lasciare le mani e poi le braccia, prima una, poi l’altra, oplà. «Dai, prova!» Fa un’aggraziata capriola per cedermi il posto e si lascia cadere giù nella sabbia sottile e calda; ci si rotola dentro con voluttà, mentre io salgo sul trapezio con molta, molta, moltissima prudenza; seguo traballando e tremando le sue indicazioni e mi lascio andare poco poco a testa in giù; guardandomi bene, ovviamente, dal mollare le corde: anzi, le serro talmente, da scorticarmi. «Ora, lascia!» grida lei allegramente da sotto, sepolta sotto una montagna di sabbia da cui sbucano solo i suoi piedi, di cui agita le dita come una scimmietta. «Lascia, Nicola! Dai: uno, due, tre... via!» Io lascio. Ma una mano sola; e per di più sudatissima; così resto spenzolato di sghimbescio, col batticuore e una paura tremenda. Nonostante questo, mi pare di aver fatto chissà che: «Hai visto? Va bene così?» chiedo. Lei si scuote tutta la sabbia di dosso, si alza ed esclama: «Puah! Sei un coniglio! Anzi, un Ni-coniglio».
«Non è vero! Se ora mi aiuti a...»
Il fatto è che con una mano nel vuoto non so più tirarmi su. Ho una paura boia. Ma lei, figurarsi: è già due metri più avanti, piegata e con le dita puntate a terra come ai blocchi di partenza: «A chi arriva prima al patino! Scendi Niconiglio, che conto fino a tre: uno... due...». L’orgoglio maschio mi induce a fare un avvitamento che però non so gestire; così barcollo, agito le braccia... e cado rovinosamente sulla sabbia. Mi rialzo e corro a raggiungerla, proprio mentre grida: «...e tre! Via!». Partiamo, ma anche qui lei mi frega: ha queste cosciotte tornite, il sedere pieno, una piccola curvatura di pancina sotto le costole, ma per il resto è una gazzella carica di adrenalina. La raggiungo, l’affianco, lei ride, io rido, cerchiamo di superarci, ma niente, arriviamo assieme ridendo, e ridendo ci tuffiamo nell’acqua increspata...
Il sole delle due. I capelli di Sara, tanti e ondulati, si arricciano e si striano di rame chiaro mentre tiriamo le biglie dei ciclisti in una pista di rena umida, a riva; il ghiacciolo al lampone che stinge, lei che mi mostra la lingua di un rosa acceso ridendo, «guarda!». Le sue dita che intrecciano con destrezza lo scoubidou; le bubble-gum rosa e lunghe con dentro la decalcomania per tatuarsi, lei che si sputa sul braccio e poi c’incolla sopra Batman, porgendo a me il marchio di Robin. Io che protesto dicendo che non può prendere lei Batman, perché è una femmina!, e lei che mi pianta quello sguardo forte addosso: «E allora?!». L’ultimo bagno del pomeriggio con il sole già per metà sotto l’orizzonte, il materassino trascinato e poi issato sulla testa, Petula Clark che cinguetta «Tutti quelli che hanno un cuore sanno amar...», i nostri costumini zuppi e intrisi di rena bagnata e alghe, il legno caldo dell’impiantito mentre corriamo lungo le cabine, la chiave di ferro col numero appeso, le sue dita che la fanno girare nella toppa, e poi noi due che entriamo nella penombra con l’odore di salmastro, di Ambra Solare, di sabbia bagnata, di gomma dei canotti...
«Gliela spino io, dotto’?»
Mi riscuoto. Il cameriere se ne sta in piedi al mio fianco con la nostra bella spigola al sale, e attende; e anche gli altri attendono. «S’incanta, gli capita...» spiega con tono rassicurante Livia a Monica.
«Magari potesse capitare anche a me...» esclama Rodolfo facendomi l’occhiolino mentre estrae abilmente la polpa dell’astice, «...di godermi un po’ d’incanto!»
Livia esce dalla doccia avvolta nell’accappatoio giallo. Io sono già a letto, intento a scorrere sul cellulare i messaggi ricevuti. Livia si strofina i capelli con una salvietta e chiede: «Era una tua ex?».
«Chi?»
«La tipa che è scomparsa. Quella... Sara.»
Sara.
Deposito il cellulare sul comodino, mi sfilo l’orologio e rispondo, ancora rivolto alla parete: «No. Solo una vecchia amica». Quando mi giro, Livia lascia cadere l’accappatoio. Il suo corpo nudo, è abbronzato; è snello; è slanciato. È perfetto.
Eppure, proprio quel suo gesto mi riporta ancora una volta indietro e in dentro.
Dentro una cabina in penombra con l’odore di salmastro; con me e Sara che ci voltiamo le spalle: ci siamo tolti i costumi bagnati e ora stiamo per infilare quelli asciutti. Ma la sua voce ordina: «Voltati».
Mi volto. Percepisco che lei è nuda e allora guardo in su, verso le feritoie della porta da cui arrivano lame di luce e la voce smorzata di Petula Clark. Ma Sara ordina ancora: «Guardami!». Il cuore mi batte così forte da rimbombarmi in gola.
E ...