In un mondo di maschi
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In un mondo di maschi

La doppia vita di Emile Griffith

  1. 492 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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In un mondo di maschi

La doppia vita di Emile Griffith

Informazioni su questo libro

Il 24 marzo 1962 Emile Griffith salì sul ring al Madison Square Garden per difendere il titolo mondiale dei pesi welter contro Benny Paret. Era pieno di rabbia. Prima del match, lo sfidante cubano aveva apostrofato Griffith come un "frocio". Nel mondo maschilista della boxe non esiste insulto più grande. In un momento in cui l'omosessualità era illegale e ufficialmente classificata come una grave malattia mentale, l'insinuazione di Paret avrebbe potuto avere conseguenze pericolose per Griffith. Il combattimento fu feroce e Griffith sferrò il colpo del KO così duramente che Paret perse i sensi. Il pugile cubano non si riprese più e purtroppo morì poco dopo, lasciando Griffith ossessionato dalla sua morte. Ciononostante il grande pugile non si ritirò dal mondo della boxe e nel corso della sua ventennale carriera conquistò altre cinque volte il titolo di campione del mondo. I suoi suoi tre incontri con Nino Benvenuti hanno un posto d'onore nella storia leggendaria di questo sport.

Scritto in una prosa elegante e avvincente da Donald McRae, In un mondo di maschi racconta la storia indimenticabile e profondamente commovente di Emile Griffith dentro e fuori dal ring. Una storia vera resa edificante dal suo coraggio sul ring, dal suo umorismo e dalla sua audacia nella vita quotidiana. Sportivo di giorno e frequentatore di bar gay di notte, moralmente condannato dalla società dell'epoca, quello di Griffith è il racconto di uno sportivo che rifiuta di nascondersi e che celebra il trionfo della verità sul pregiudizio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804675365
eBook ISBN
9788835716495
1

Faccia a faccia con un assassino

Emile Griffith, alla beata età di ventidue anni, era bello e felice. Il suo corpo era una macchina da combattimento, mentre la voce flautata e il portamento elegante gli davano l’aria di un uomo raffinato. Sfoggiava questa inestricabile contraddizione con grande stile, lo stesso con cui sapeva indossare un paio di pantaloni bianchi aderenti e una camicia di seta rossa durante una conferenza stampa con i giornalisti sportivi newyorchesi. Di lì a poco, il 22 ottobre 1960, sarebbe tornato a calcare il ring del Madison Square Garden.
Il suo avversario, il sudafricano Willie Toweel, era un uomo di tutt’altro genere. Nel suo abito di flanella grigio risultava, al cospetto dell’appariscenza di Emile, incredibilmente più anonimo. Si erano trovati al Round Table, un ristorante sulla Cinquantatreesima East dove gangster come “Fat Tony” Salerno e “Trigger Mike” Coppola ingurgitavano piatti di pasta e bistecche così spesse e succose che si facevano servire delle montagne di pane da inzuppare nelle dense pozze di sangue che rimanevano sul fondo. Fat Tony era il maggiore finanziatore dell’incontro per il titolo di campione del mondo che un anno prima aveva visto affrontarsi i pesi massimi Ingemar Johansson e Floyd Patterson.
Al Round Table non c’erano però gangster in vista quando Griffith e Toweel tennero la loro conferenza stampa circondati da una piccola folla di giornalisti sportivi con i sigari tra i denti e i cappelli di feltro sulla testa. Il mondo della boxe stava cercando di scrollarsi di dosso la corruzione e la gestione malavitosa degli anni Cinquanta; e Fat Tony e Trigger Mike erano decisamente troppo occupati per perdere un intero pomeriggio in compagnia di qualche scribacchino dalla lingua sciolta e di due pugili dalla voce suadente.
L’accoglienza riservata a Toweel, appena arrivato per il suo debutto americano al Garden contro Griffith, fu controversa. Nel novembre del 1959, prima del suo incontro con Len Matthews, un pugile nero di Philadelphia dal viso arcigno, la stampa newyorchese l’aveva bollato come un «inglesotto» e un «cascatore». All’origine delle prese in giro stava il fatto che Toweel avesse combattuto a lungo a Londra, e pertanto si pensava che, come spesso accadeva ai pugili che arrivavano dall’Inghilterra, sarebbe stato sconfitto in un batter d’occhio da un nero che picchiava duro.
Matthews aveva messo al tappeto Toweel con un gancio sinistro all’inizio dell’ottavo round e, quando il sudafricano si era rialzato, aveva cominciato a bombardarlo con delle pesanti combinazioni. Toweel però rifiutava di arrendersi. Tornò a colpire agilmente d’incontro, una tecnica che a inizio match gli aveva permesso di dominare l’avversario. Ma nel decimo e ultimo round Matthews scatenò un altro attacco feroce.
Di fronte a una folla entusiasta, rapita dallo stile di combattimento di Toweel e dalla competizione selvaggia, i due pugili andarono davanti ai giudici che avrebbero deciso il vincitore. Contro ogni pronostico, fu il pugile d’oltreoceano a spuntarla. La folla intonò il nome di Toweel e il «Long Island Daily Press» fu il primo giornale a levare le sue lodi: «Willie ha lasciato tutti a bocca aperta. Non si vedeva un pugile dotato quanto questo azzimato sudafricano dai tempi in cui Willie Pep riusciva a incantare allo stesso tempo fan e avversari. Toweel si muove come lo Sugar Ray Robinson degli anni migliori».
Al Round Table, però, Willie teneva gli occhi bassi. Era stato segnato da una tragedia personale, e prima di ogni incontro sentiva una forza oscura che gli appesantiva il cuore.
Suo fratello Alan, che gli faceva da allenatore, amava assumersi la responsabilità di replicare in sua vece alle domande della stampa che gli sciamava intorno. «Rispondo io» dichiarava Alan ogni volta che qualcuno si rivolgeva a Willie. E da allenatore diceva sempre «noi», come se sul ring, a tirare pugni accanto al fratello, ci fosse anche lui.
Willie era contento che ci fosse suo fratello quando i giornalisti facevano pressione affinché rispondesse a domande sul suo passato. I giornalisti avevano cominciato velenosamente, chiedendo a Emile come si sentisse all’idea di trovarsi sul ring faccia a faccia con «un assassino».
«Questo genere di cose non mi preoccupa affatto» disse Emile con aria innocente. «Willie e io daremo spettacolo. Dopo tutto sarà un appuntamento galante: non dimenticate, al Garden è la Serata delle Coppie.»
Willie sorrise alla battuta di Emile. Teddy Brenner, l’organizzatore del match, un tipo raffinato ma tosto, aveva da poco annunciato che avrebbero chiamato «Serata delle Coppie» gli incontri di pugilato che si sarebbero tenuti il sabato sera al Madison Square Garden, dato che le signore accompagnate avevano diritto a un biglietto omaggio.
«Ti piace ballare, Willie?» chiese Emile. Nella sua voce risuonava l’eco melodiosa dei Caraibi e delle Isole Vergini in cui aveva trascorso i primi dodici anni della sua vita.
«Rispondo io» intervenne immediatamente Alan Toweel. «Willie è un ballerino eccellente. Ma, Emile, non credo che alla fine di questo appuntamento avrai molta voglia di ballare.»
Emile rise. Nessun pugile sapeva ballare meglio di lui, soprattutto quando era lontano da sguardi indiscreti e in compagnia dei suoi amici più intimi nei locali intorno a Times Square. Disse che certamente Willie era un ballerino assai più bravo del suo loquace fratello.
Prima che Alan avesse il tempo di rispondere, Willie ribatté in tono allegro: «È vero. Adoro ballare…».
«Anch’io, campione» disse Emile.
«Questa conversazione è un po’ troppo amichevole per i miei gusti» ringhiò Brenner. «Non dimentichiamoci che siete qui per combattere.»
I giornalisti non chiedevano di meglio che quell’incoraggiamento per tornare sul terreno più scabroso. Chiesero a Willie come si sentiva ad aver ucciso un uomo, dato che in un incontro al Johannesburg City Hall nel marzo del 1956, Willie Toweel aveva mandato in coma il suo avversario Hubert Essakow, che di lì a poco sarebbe morto.
«Non abbiamo intenzione di parlare dell’incontro con Essakow» protestò Alan. «È stato quattro anni fa…»
Ma per Willie era già troppo tardi. Era ripiombato in quella zona d’ombra da cui non era mai uscito veramente. «Penso a Hubert ogni giorno» mormorò. «Ho fatto dire una messa in sua memoria anche questa mattina. Domani farò altrettanto.»
Alan portò i giornalisti a cambiare argomento, ma Willie sembrava paralizzato. Non riusciva a togliersi Essakow dalla testa. Aveva lo sguardo spento, mentre il fratello si dilungava a spiegare come la vittoria su Len Matthews avesse dimostrato che potevano tranquillamente battersi contro i migliori pugili americani.
«Ehi, campione,» disse a mezza voce Emile al suo sconsolato avversario «abbiamo quasi finito.»
Emile Griffith lasciò il Round Table alle tre di pomeriggio, insieme a un affiatato gruppetto. Alla testa della combriccola c’erano i suoi due manager: Howie Albert – un trentanovenne ebreo newyorchese, occhialuto e dalla chioma rossa, proprietario di una fabbrica di cappelli – e Gil Clancy – di un anno più giovane, un insegnante cattolico irlandese diventato poi allenatore di boxe, che viveva a Rockaway Beach, nel Queens. I tempi in cui gangster come Frankie Carbo avrebbero preso il controllo di pugili come Emile erano passati. Carbo era ormai rinchiuso ad Alcatraz, e personaggi più benevoli come Gil e Howie potevano muoversi nel mondo della boxe con uno stile meno criminale e più compassionevole. Non giudicavano un pugile solo in base ai soldi che avrebbe fruttato. Ed Emile gliene era riconoscente: vedeva in quei due uomini bianchi delle figure paterne che si stavano prendendo cura di lui.
Il pugile e il suo amico Calvin Thomas, invece, erano giovani e neri. Emile diceva che Calvin era «il compagno con cui andava a correre». Ma le loro corse, più che per allenamento, erano scorribande nella zona di Times Square, sulla Quarantaduesima e fuori dal terminal degli autobus di Port Authority. Sapevano che c’era gente che gridava «Checche!» o «Brutti froci!» a chiunque frequentasse i luoghi poco raccomandabili dove loro amavano intrattenersi, e per questo dovevano prendere misure precauzionali al limite del maniacale. A volte la loro copertura saltava e qualcuno li riconosceva; ma poche persone si sarebbero messe a insultare Emile, le cui spalle larghe erano un ottimo dissuasore. Calvin, che era basso, tarchiato e panciuto, sembrava un bersaglio molto più a portata di mano. Eppure era un tipo più duro di Emile. Per quanto fosse contrario alla sua indole incline alla risata, Calvin portava sempre in borsa una spranga. Emile una volta lo aveva visto afferrarla quando un tizio che si aggirava per quelle strade con l’intenzione di attaccare briga con qualche gay provò a dargli fastidio.
«Vuoi fare a botte?» aveva ringhiato Calvin all’uomo, che se l’era immediatamente data a gambe.
Anche Calvin, miglior amico e guardia del corpo di Emile, amava la boxe. La conosceva a fondo e frequentava le migliori palestre di pugilato della città, soprattutto la Gleason’s in cui si allenava Benny “Kid” Paret. Nessuno da Gleason‘s aveva mai proferito parola a proposito dell’orientamento sessuale di Calvin, e a volte gli facevano presidiare la porta d’ingresso e raccogliere le quote mensili. Ma, per lo più, Calvin «correva» assieme a Emile. Erano sempre pronti a darsi alla pazza gioia, a patto di riuscire a tenere nascoste le loro vite amorose.
Era fondamentale che la verità non venisse a galla: non era consentito avvicinare il mondo dello sport a quello dell’omosessualità. Un pugile gay era un ossimoro inimmaginabile. Nel 1960 l’argomento non era semplicemente un tabù: era impossibile anche solo pensare che un qualsiasi eroe sportivo, simbolo di virilità, potesse essere omosessuale. Emile comunque non amava perdersi in pensieri del genere. Era soltanto felice di appartenere contemporaneamente a due gruppi umani così diversi tra loro: con uno faceva a pugni per mestiere, con l’altro faceva l’amore per diletto.
Aveva anche una fidanzata: Esther Taylor, una ragazza dolce e carina che abitava nel suo vecchio quartiere, Harlem. Lei ed Emile si erano conosciuti in chiesa cinque anni prima, quando lui ne aveva diciassette e lei quindici. Esther era pazza di Emile, e anche lui le voleva bene. Le loro famiglie si conoscevano e, senza nemmeno rendersene conto, i due avevano cominciato a uscire insieme. Emile era un ballerino strepitoso, assieme si divertivano molto, ma quando considerava la situazione in maniera più lucida, si rendeva conto che Esther nutriva delle speranze più serie per la loro relazione.
Dal canto suo, lei non sospettava che lui sentisse il bisogno di avere intorno degli uomini, di stare con loro. Emile pensava che fosse meglio così. Esther si accontentava di sapere che il suo ragazzo era, come diceva continuamente, «pieno di impegni». E lei era disposta ad accettarlo: stava percorrendo la strada che lo avrebbe portato alla fama, e perciò Esther, che capiva quanto fosse dura la vita di un pugile, gli lasciava lo spazio di cui aveva assoluto bisogno. Credeva comunque che, a un certo punto, avrebbero deciso di stare insieme per sempre.
Per Emile, l’intermittente presenza di Esther nella sua vita aveva un doppio scopo. Anzitutto, gli piaceva stare con lei e godeva della sua compagnia. In secondo luogo, Esther gli forniva quella copertura di cui aveva bisogno per poter condurre furtivamente la sua vita segreta. Era una sorta di piacevole paravento contro tutti i dubbi che aleggiavano attorno al pugile come un indistinto ronzio.
Le persone che appartenevano al circuito della boxe mantenevano in pubblico un completo riserbo a proposito dell’orientamento sessuale di Calvin ed Emile. Solo in privato i pugili, gli allenatori e i giornalisti esprimevano i loro dubbi a mezza voce, ma senza lasciarsi sfuggire una parola alla luce del sole. Era quasi come se anche per loro fosse difficile sopportare il peso della verità. E, in ogni caso, non aveva forse una fidanzata, un’innamorata giovane e sensuale che viveva a Harlem?
A Gil Clancy, il suo allenatore, andava bene così. Era un uomo conservatore e religioso, marito devoto e padre di sei figli. Gli unici tratti femminili a cui era interessato erano quelli dell’adorata moglie, che aveva conosciuto alla festa di una squadra di basket a Rockaway Beach. Venivano presi in giro per il nome che aveva assunto la ragazza sposandolo: Nancy Clancy suonava come una cantilena. Se gli facevano una domanda scomoda, Gil di solito rispondeva con una battuta. E ignorava le mezze voci che aleggiavano attorno a Emile come volute di fumo. Non gli piacevano epiteti come «effeminato» e «checca», e detestava le parole «finocchio» e «frocio».
Clancy pensava che Emile fosse un potenziale campione del mondo di pugilato, oltre che un ragazzo sensibile: per lui era una specie di figlio adottivo. Anche su Calvin non aveva niente da eccepire: quel giovane paffutello aveva la boxe nel sangue. A Gil non interessava quello che facevano lui ed Emile nel loro tempo libero. Finché non interferiva con gli allenamenti e i combattimenti di Emile, Gil evitava di entrare nei dettagli di un mondo che non aveva nessuna intenzione di capire.
Howie Albert era diverso. Lavorava nel campo della moda, essendo subentrato al padre nella conduzione della fabbrica di cappelli, e si sentiva sempre in diritto di chiedere a Emile informazioni sul suo amico di turno, che di solito era un flessuoso giovane ispanico che andava ad assistere agli allenamenti. Howie sapeva che la polizia faceva delle retate nei bar che frequentavano Emile e Calvin, dato che all’epoca era illegale anche solo che due uomini ballassero assieme. Scuoteva la testa di fronte all’ipocrisia della società, ma, a parte il bizzarro e vago avvertimento di tenere gli occhi aperti, non faceva domande sull’orientamento sessuale del suo pugile.
La fidanzata nominale del ragazzo, la riservata e tranquilla Esther, che Howie aveva incontrato qualche volta, permetteva loro di offrire al pubblico una storia etero perfettamente comune. Howie era abbastanza sveglio e sottile da intuire quale fosse la vera natura di Emile. E stava a lui, al suo manager, aiutare quel pugile dotato ma complicato a trovare un buon compromesso tra due mondi così diversi e altrettanto difficili. Emile dal canto suo aveva cambiato la vita di Howie rendendolo una celebrità del bordo ring. Il loro primo incontro, quattro anni prima, era già entrato a far parte a pieno titolo del folklore pugilistico.
Estate 1956, un afoso pomeriggio. Nel Garment District di New York, sulla Trentasettesima West, la fabbrica di cappelli di Howard Albert era una fornace. Perfino le pareti dell’impianto erano lucide di condensa, e il diciottenne Emile Griffith chiese a suo cugino, Edigo Lambert, se poteva levarsi la camicia. Sembrava che potesse soffocare da un momento all’altro, se non l’avesse tolta.
Edigo, che circa un anno prima aveva trovato al cugino quel lavoro da 40 dollari la settimana, annuì. Non vedeva nessuna controindicazione al fatto che il ragazzo, che lavorava di buona lena, trovasse un po’ di refrigerio in quel clima soffocante. Ma le operaie e le addette all’imballaggio sembravano aver bisogno di qualcosa di più di un semplice ventilatore dopo aver visto Emile che entrava e usciva dal magazzino. La pelle lucida avvolgeva i suoi 66 centimetri di fianchi per ampliarsi poi nella spettacolare visione di un petto fatto di puri muscoli che ne misurava 110. Quando si chinava per prendere una scatola in cui impacchettare una graziosa cuffia appena uscita dal laboratorio dei cappelli all’ultima moda di Howard Albert, il movimento delle sue spalle massicce era accompagnato da un sospiro. I muscoli nervosi di Emile si muovevano sotto la pelle tesa, ma lui non capiva il motivo per cui le donne che gli erano attorno arrossivano.
Fece una pausa dal lavoro solo quando arrivò il capo, in doppiopetto e con uno sguardo di sorpresa stampato sul volto. Il signor Albert non aveva mai fatto caso a Emile, ma, nel momento in cui si mise a fare domande a quel giovane Adone, i pensieri che gli cominciarono a frullare in testa erano ben...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. In un mondo di maschi
  4. Prologo. Parlare con i fantasmi
  5. 1. Faccia a faccia con un assassino
  6. 2. La Serata delle Coppie
  7. 3. Il Brutto, Kid e sua moglie
  8. 4. Gloria a Miami
  9. 5. Insulti e botte
  10. 6. Maricón
  11. 7. La lettera
  12. 8. Il fantasma di Benny Paret
  13. 9. Missili cubani
  14. 10. Who Killed Davey Moore?
  15. 11. Un vero uomo
  16. 12. Gli outsider
  17. 13. Stonewall
  18. 14. Febbre da matrimonio
  19. 15. Soweto blues
  20. 16. Hombre
  21. Epilogo. Emile e Orlando
  22. Fonti bibliografiche e annotazioni
  23. Ringraziamenti
  24. Copyright