Se non è concesso vivere in un mondo dove regnano il bene e la giustizia, possiamo almeno sopravvivere in un mondo in cui non regna niente dopo che il male è esploso.
Certi pensieri riesci a farli solo quando scopri di bruciare e avverti l’odore delle fiamme e del fumo, e senti il crepitio del fuoco che non scalda più solo le piante dei piedi, ma sta invadendo i tuoi vestiti, scoppietta sui tuoi capelli, ha attecchito dentro, nelle tue viscere, nel tuo cuore, nei tuoi polmoni e tu, anche se sei ostinata a non sentire la corruzione della carne che ti sta mangiando, senti il dolore tagliente delle prime scottature. Che all’inizio sono circoscritte, ma poi invadono il tuo corpo.
Solo allora non temi più di confessare a te stessa che brucerai, e che di te rimarrà solo una bambola carbonizzata.
Resteranno frammenti di ossa, scaglie annerite di pelle, ma di ciò che sei stata, del tuo viso, delle tue labbra, delle tue orecchie, della sensibilità delle tue mani, e di ciò che eri davvero non rimarrà nemmeno un ricordo.
Sei giunta spaventata sull’orlo del precipizio. Sotto le fiamme ribolle qualcosa che non conosci. Buio, nero, rimbombi lontani, e tu vieni colpita dal fulmine di un’illuminazione, perché capisci che niente si dovrà mai più conficcare dentro di te, perché non c’è nessun luogo dove qualcosa si possa più conficcare.
Dopo il cambio di prospettiva niente potrà ferire il nulla che sei.
Non è rimasto nulla da ferire.
A quel punto ti si apre davanti una splendida possibilità, impensabile fino a poco prima: rinascere.
Ritrovare dentro ciò che resta della voce della tua essenza, resa negli anni silenziosa da una vita di imposizioni che con la massima compiacenza hai accettato.
Sei stata tu che l’hai permesso.
Sulle prime non ti riconosci, con stupore ti vedi riflessa nello specchio della tua anima e non scorgi che un’estranea che accenna un sorriso deforme.
Ma sei lì, e per una volta ti imponi di guardare, di osservare la trasformazione lenta che quella figura subisce a prescindere da te, attonita dall’altra parte dello specchio.
Fino a quando non scopri che quell’immagine non coincide con ciò che sei e che sei sempre stata, e comprendi che la tua persona di prima non era che una maschera dietro la quale ti nascondevi, soprattutto da te stessa.
Eri spaventata, sei sempre stata spaventata, e hai sempre procrastinato il momento del ricongiungimento.
Ora ti stupisci di come al contrario sia stato facile, di come al tuo fianco ci sia una figura non solo innocua, ma anche amichevole, disponibile, conciliante.
Dalla tua parte senza recriminazioni.
“Era facile” ti dici, scoprendo che la paura si è dissolta proprio in quell’istante, e che se quella figura sa farti sentire a tuo agio è perché è e sarà sempre dalla tua parte.
Riflessa nello specchio, lei ti porge la mano perché è venuta a prenderti e a portarti a casa, il luogo della pace ritrovata.
Le porgi la mano anche tu.
“Finalmente” continui a pensare. “Finalmente.”
Desideri solo capire, individuare quando è iniziato il distacco. E perché.
E quando vai all’origine della trasformazione, ti sembra di intuire che tutto sia cominciato da un inutile bisogno di protezione o di autodifesa contro un nemico immaginario, che all’inizio pensavi risiedesse dentro di te ma che ora scopri avere avuto la sua origine nel muto mondo circostante.
Tu hai semplicemente permesso l’accesso alla trasformazione, lusingata dalla promessa di una pace inviolabile e duratura, al costo di qualche piccola, apparentemente marginale rinuncia.
Volevi una vita agiata, protetta.
Ti sei trovata a vivere una vita agiata, protetta.
Ora, però, camminando mano nella mano con quella figura, vedi le cose con più chiarezza.
Guardi il mondo sfilare al tuo fianco e vedi con una lucidità sconvolgente che non puoi più ritornare all’inizio del percorso, al bene e al male. Distinti.
Perché sì, la risposta è semplice, viviamo vite troppo agiate. Protette.
La paura che l’uomo ha condiviso con gli esseri che l’hanno preceduto, e con tutte le forme di vita con le quali ha condiviso l’esistenza, in virtù della nostra superiore intelligenza, ci ha concesso di costruire una società in cui sentirci protetti.
La città è una cinta di protezione.
I muri delle case, le pareti delle casse da morto e le lunghe muraglie di prodotti nei supermercati sono figli della stessa progettualità.
Difendono dagli attacchi del buio.
Non fanno che difenderci dall’esterno, da vivi e da morti, ma ci impediscono di vedere al di là, il mondo reale e la vita nella loro essenza più cruda e brutale.
Al fondo del nostro mondo e delle nostre città, le fondamenta sono frutto delle regole mai mutate della violenza, della sopraffazione e del sopruso.
Su questo, grazie a un salto mortale, a una giravolta, che nella storia dell’evoluzione solo l’uomo ha compiuto, possono erigersi i vessilli della pace, della giustizia, della morale. Ma questi vessilli si reggono solo in quanto ben conficcati dentro la crosta immobile del male.
Il bene più sincero trova la sua origine nel male.
L’ho compreso in quell’istante. Con Walder immobile ai miei piedi.
Ora non restava che abbattere tutte le protezioni. Ogni muro.
Uscire.
Lanciarmi dentro la palude del male e nuotare verso le rive della salvezza.
Quando mai avevo pensato a questo modo, prima?
Come tutti, prima di quel gesto mi bastava difendermi. Nuotare nella vasca della sopravvivenza, costruita sull’apparenza di bonarie relazioni sociali: il fidanzato, la famiglia, i colleghi, le incombenze quotidiane.
Ora potevo entrare nell’arena della realtà.
Sembrava di sentire lui, Walder.
Invece ero io.
Non posso dire che avrei dovuto ringraziarlo, ma la presenza di quell’uomo immobile di fronte a me, ormai evidentemente instabile come una pedina nel gioco degli scacchi nell’istante prima di venire schiacciata, mi ha permesso di trovare ciò che mi ero sempre negata, per cecità, o per paura, e che in fondo avevo sempre rinnegato: la mia vera natura.
Che, come quella di chiunque altro, era l’istinto, più o meno represso e celato, di predatore.
Era sempre stato così rassicurante ritenermi una preda in fuga.
Non so cos’ho provato negli istanti in cui il corpo di Walder scivolava a terra.
Non ancora nella stasi dopo la caduta, ma proprio mentre precipitava sottomesso all’unica forza che lo poteva governare. Occhi socchiusi, respiro interrotto, funzioni cerebrali azzerate.
La gravità.
È rotolato a terra come un grumo di gomma, la consistenza di un verme morto, per raggomitolarsi infine sul mio pavimento lindo.
Lì la sua caduta si è interrotta, e da quel momento il suo corpo è diventato la patria della pura immobilità.
Non mi importava nemmeno capire se fosse morto o vivo.
Lui era già morto.
E io ho provato una sensazione di leggerezza.
Ero libera.
L’avevo fatto.
Avevo compiuto qualcosa. Avevo pensato a un piano, l’avevo progettato e poi l’avevo portato a termine da sola.
Avevo preso posto nel mio spazio vitale.
Sono rimasta col bollitore in mano senza capire o f...