“Trentasettesima settimana di gravidanza. In questo momento, il bambino è grande come uno spinacio.”
Ho sollevato lo sguardo e l’ho spostato dallo schermo dello smartphone al frigorifero: in casa avevo solo komatsuna, gli spinaci costavano troppo e non li avevo comprati. Mi sono seduta sul divano. Avevo fame, ma solo all’idea di mettermi a cucinare e sentire l’odore della carne abbrustolita o vedere il vapore delle verdure bollite che appannava il vetro della finestra ho sentito uno strano brontolio allo stomaco.
Il dolore e quel fastidioso senso di malessere non accennavano ad andarsene. Avevo già percepito piccoli movimenti fetali, e a volte avevo una sensazione di pesantezza intorno al girovita, ma dalla visita della settimana precedente si erano intensificati e sentivo un altro tipo di sofferenza. Avevo la costante sensazione che mi stesse schiacciando gli organi, mi sembrava di soffocare, e tutt’a un tratto non riuscivo più a muovermi.
Era come se non gli importasse nulla della mia volontà. Se cercavo di dormire mi tirava calci allo stomaco, e appena pensavo che si fosse calmato ecco che si divertiva a fare le capriole. Quando mi colpiva la vescica o l’utero avvertivo un dolore così lancinante che mi si fermava il respiro. Nel periodo in cui mi intrattenevo coi film su Amazon Prime Video avevo visto una scena dove un mafioso squartava il ventre a una persona senza manco addormentarla, gli prendeva gli organi e glieli stritolava: ora capivo che non era il caso di andare a cercare quelle cose nei film, le stavo vivendo in prima persona. L’indomani avrei avuto un altro controllo, ma di questo passo non ero sicura di riuscire a prendere l’autobus. Come ci arrivavo in ospedale? Il mio corpo stava diventando un luogo a me sconosciuto.
Un giorno in cui mi reggevo in piedi per miracolo ero andata in palestra e ne avevo parlato con Chiharu. Mi è successo questo e quest’altro, le avevo detto, e le avevo fatto alcune domande.
«Io ho sofferto molto per le nausee mattutine, ma pare che molte donne stiano male durante l’ultimo periodo di gravidanza. Più che altro fai attenzione al baby blues.»
Chiharu aveva aggiunto che molte donne soffrivano di malinconia e depressione post partum, e dopo averlo cercato sul telefono mi aveva mostrato il sito del consultorio locale.
«Puoi rivolgerti qui per dei consigli sulla cura del bambino. Se hai bisogno, io ci sono, è ovvio, ma alcune dinamiche sono più difficili da esternare alle persone che si conoscono, e ce ne sono altre che preferisci tenere per te.»
In quel momento, un paio di orecchini a cerchietto aveva fatto capolino dal suo caschetto sempre impeccabile.
Accidenti, stavo così male che faticavo persino a stare sul divano, stavo subendo un feroce attacco alla vescica. Mi sono alzata e ho dovuto camminare per la stanza. Avrei tanto voluto prendere un antidolorifico, ma il Loxonin era vietato alle donne nelle dodici settimane precedenti al parto.
Sembrava infuocata: appena sono uscita di casa, ho visto una stella rossa brillare nel cielo a sud. Ho voluto verificare la sua presenza prima di scendere le scale, come ogni volta che sbucavo sul ballatoio. Ho attraversato il parcheggio per biciclette riservato agli inquilini e mi sono portata nella strada sul retro. L’orologio dello smartphone segnava che erano da poco passate le ventitré.
Qualche ora prima mi ero coricata perché, tanto per cambiare, mi sentivo fiacca, ma qualcuno aveva improvvisamente iniziato a prendermi a calci e aveva fatto svanire tutta la sonnolenza. A quel punto mi ero infilata i sandali e avevo deciso di fare una passeggiata. Ho camminato lungo il fiume e mi sono diretta verso la salita che percorrevo quasi tutti i giorni. A metà strada mi è venuto il fiatone. Stentavo a credere che dalla mia gola uscissero fiatate simili a quelle dettate dall’asma, ma ciononostante ho proseguito la mia marcia. L’aria della notte mi accarezzava la pelle attraverso i pantaloncini in cotone che indossavo al posto del pigiama.
In cima alla salita la strada è tornata in piano e sono entrata nella zona residenziale. Era stato proprio qui che, la prima volta che avevo deciso di passeggiare di ritorno dal lavoro, avevo incontrato una donna incinta che aveva tutta l’aria di stare male. Però non mi ero mai avventurata per queste strade la sera tardi. Non volava una mosca, l’unico segno di vita era dato dalle luci abbaglianti dei distributori automatici sul fianco della carreggiata.
Dopo aver svoltato l’angolo mi sono fermata: c’era qualcosa in fondo alla via, oltre l’enorme cartello sul lato opposto a quello dell’immensa casona che vedevo sempre, i cui proprietari, sospettavo, dovevano possedere diversi terreni. Era una persona. Era in piedi, e si muoveva su e giù, a destra e a sinistra. Ma perché ogni volta che capito da queste parti devo incappare in figure losche? Ho deciso di andare avanti, motivata anche dai calci provenienti dalla pancia che sembravano a tutti gli effetti volermi suggerire di procedere in quella direzione. Così mi sono avvicinata un po’ per volta.
La persona stava dondolando.
Piccoli dondolii. Le ginocchia si muovevano a un ritmo lento, poi si è seduta e ha iniziato a dondolare le braccia. Sembrava quasi alle prese con una danza, eseguita sulle note di una melodia che non giungeva alle orecchie degli altri. Aveva un non so che di rituale. Ecco, non avevo mai assistito a una danza della pioggia, ma avevo l’impressione che dovesse essere molto simile.
A ogni modo, quella persona sembrava stanca. Terribilmente stanca. A intervalli, staccava le mani da un oggetto enorme che portava appeso sul davanti e si tirava dei goffi colpetti sui fianchi. E sulle spalle. Colpetti simili a quelli che si danno le persone coi muscoli tesi. Di tanto in tanto si strofinava gli occhi, poi tornava alla postura originaria. Si rimetteva in posa e dondolava. Come se cullasse un neonato per addormentarlo.
Finché tutt’a un tratto si è girata e nel buio è apparso un volto bianco e sottile.
«Shibattan!»
La voce avrebbe dovuto essermi famigliare, ma era arrochita, come quando non si riesce a guarire dal raffreddore. Eppure apparteneva senza dubbio a lei, quella donna pronunciava il mio soprannome in un modo diverso dagli altri, non so dire se fosse questione di pronuncia o di accento. A ogni modo mi è subito tornato in mente che era stata proprio lei ad affibbiarmelo.
«Hosono! Ma… Buonasera, che cosa ci fai qui?»
«Shibattan, sei a passeggio? Che idea, a quest’ora tarda.»
Hosono ha strizzato gli occhi, e il suo volto già molto sottile è sembrato stringersi ulteriormente fino quasi a scomparire.
«Non ci vediamo da un po’. Come stai? E le altre del corso di aerobica? Karly non la vedo da quando abbiamo preso l’autobus insieme. Gachiko? Continua ad abbuffarsi?»
«Ogni giorno. L’altro ieri non ha fatto altro che mangiare le fette biscottate che si era portata dietro.»
Hosono stava per scoppiare a ridere, ma al posto delle risate le sono usciti dei forti colpi di tosse che temevo le fracassassero la schiena. Non smetteva di dondolarsi. Faceva su e giù a un ritmo strano, reggendo tra le braccia un marsupio per neonati. Senza nemmeno curarsi delle calze, che dopo averle stretto i polpacci e averle lasciato il segno ora le erano scese alle caviglie.
«Scusa i versi poco gradevoli, Shibattan. Ah, ma se non sbaglio sei quasi al termine, vero? Come ti senti? So che non è il periodo migliore.»
«Hosono…»
«Sì?»
«Auguri per la tua bambina.»
«Grazie» ha risposto lei, e in quel momento mi è sembrato che qualcosa di trasparente le velasse gli occhi. In quel preciso istante, però, ho avvertito un dolore acuto percorrermi i fianchi e mi sono accovacciata. Quando ho rialzato la testa, Hosono guardava in basso e non sono riuscita a distinguere né la sua espressione né il volto della piccola nel marsupio.
«È nata a marzo, vero?»
«Sì.»
«Sembra incredibile, hai davvero dato alla luce la tua bambina. Ti ammiro, sai? Congratulazioni. Kiku-san ha mostrato a tutte la sua foto, è carinissima.»
«Oh, grazie.»
Hosono continuava a dondolarsi, e pur cambiando posizione non accennava ad alzare lo sguardo. Era la prima volta che la fissavo in quel modo, così da vicino. Le sue braccia e i suoi polsi sottili, più che a quelli di una donna che ha appena partorito la sua bambina, somigliavano a quelli di un’adolescente. Chissà com’era, lei, da ragazza, quando frequentava le scuole medie o le superiori.
Le luci al pianterreno della casona di fronte a noi, quelle dei “proprietari terrieri”, si sono spente di colpo. Per essere una notte di aprile faceva piuttosto freddo, mi pentivo di non avere infilato i calzini prima di uscire.
«Ehi, è quasi mezzanotte. Io stavo facendo una passeggiata, ma tu cosa ci fai in giro a quest’ora? Fa freddo, ed è tardi. Tuo marito sarà in pensiero.»
«Sì.»
«Hosono?»
Ho visto il suo petto gonfiarsi e alzarsi per poi sgonfiarsi e abbassarsi, più e più volte. Sentivo i soffi quando espirava. La piccola, stretta tra le sue braccia, ha sollevato un po’ il viso: aveva le guance lisce e morbide come panna appena montata, e dormiva tra le braccia e il petto della madre col volto angelico di chi ancora non sa che al mondo esistono anche situazioni difficili e dolorose.
«Quando la stringo così non ci sono problemi.»
In quel momento, nella casa di fronte si sono spente anche le luci del primo piano. Hosono aveva parlato a voce bassa, come se si stesse esercitando a usare toni nasali. Continuava a dondolarsi, quasi temesse che anche solo una brevissima pausa avrebbe potuto scatenare l’inferno.
«Il mio tenero, adorato tesoro. È vero, è tutto vero. I bambini piccoli sono così carini.»
«Sì.»
«Sì! Sì! Sì! Lo dicono tutti!»
Hosono ha stretto la piccola con forza e ha alzato lo sguardo. E in quel momento, nel cielo primaverile, qualcosa è esploso.
«Lo dicono tutti, certo, che carina, non sei felice? Guarda, ha i tuoi stessi occhi… Ma che, ma quando mai, non mi somiglia per niente! Perché lei piange, piange tutto il tempo! Non riesco neanche a guardarla in faccia, perché non si calma! Sì, be’, quando ero a casa dei miei genitori ho pensato che forse ci somigliamo, riuscivo a vederle il profilo quando la teneva mia madre… Ma da quando sono tornata qui piange, piange, piange! Piange sempre! Mi chiedi se delle volte dorme? Sì, certo che dorme. E quando dorme, se ho tempo, devo lavarle il biberon, che non si asciuga mai, e fare i lavori di casa. Come cavolo fanno le altre mamme? Hanno dei superpoteri? Puliscono e stendono il bucato accumulato con il bambino in braccio? Perché questa piange appena la corichi sul letto, eh! Santo cielo, sembra che abbia un interruttore sulla schiena! Ma che cavolo, perché non le piace stare sdraiata, perché, tanto non ha né l’energia né la forza muscolare per sfidare la gravità, perché? Cos’è, nella sua vita precedente l’hanno squartata mentre dormiva? Va bene, mi sta bene. Questa bambina è brava. Yuri è brava. Ah, sì, si chiama Yuri. Si scrive con lo yu di “libertà” e con il ri di “pera”. Yuri sono io. Lei è la mia estensione, la mia alter ego. So che un giorno non sarà più così, ma per il momento va bene, lei è il mio tesoro. Il problema, più che lei, è mio marito. Che cavolo ha? Ogni volta che Yuri piange la sera o la notte diventa di malumore perché l’indomani deve svegliarsi presto. E le volte in cui brontola va ancora bene: il peggio arriva quando diventa scontroso perché deve sopportare il malumore. Si incazza, eh! Oh, come si incazza. Si incazza, ma fa quello che sopporta e dice di capirmi. Mi capisci? Se mi capisci, perché il sabato e la domenica non muovi un dito per aiutarmi? Perché sono sempre io quella che la notte si alza e la porta in giro per dondolarla? E sospira, pure! Non sospirare! Non te la tirare tanto solo perché una notte sei riuscito a farla addormentare! L’altro giorno ha detto che sarebbe andato da Akachan Honpo a comprare delle cose per me, così gli ho chiesto di prendere delle bavette assorbenti per il sudore, e lui sai con cosa è tornato? Con un vestito enorme, che ovviamente non le ho ancora messo. E se ne vanta pure, tutto orgoglioso! Cosa ti vanti? Alla fine sono rimasta senza bavette assorbenti. Uff! Ti giuro, non sai cosa darei per dormire come si deve, mi bastano anche solo trenta minuti!»
Le finestre delle case alle nostre spalle si sono chiuse, due case, una dopo l’altra. Di scatto, come se chi le avesse serrate non potesse tollerare oltre. Ma Hosono sembrava infischiarsene. A interrompere il suo monologo infervorato era stata una tenera vocina che arrivava dall’altezza del suo petto.
Mmmh, mmmh…
Sia io sia Hosono ci siamo immobilizzate. Illuminato dal neon dei lampioni, il suo volto era pallido. Io ho fissato in silenzio il suo marsupio verde scuro. Mi è sembrato che anche nella mia pancia si respirasse un’aria molto tesa.
Mmmh, mmmh, mmmh… Mmh…
Dopo un attimo si è sentito di nuovo un tranquillo respiro nel sonno. Hosono ha sospirato, e ha ricominciato a dondolarsi. In quel momento mi è sembrato di essere uscita da casa secoli prima.
«Per un soffio!» ha mormorato Hosono, per poi zittirsi. Non ho risposto. Non trovavo le parole giuste, e allo stesso modo non potevo certo dirle che era tardi e che era ora di tornare nelle rispettive case. Sapevo che se ci fossimo congedate lì e in quel momento non saremmo state in grado di andare da nessuna parte.
«Tuo marito mi sembrava una persona comprensiva.»
Poco alla volta mi tornavano alla mente le chiacchierate fatte nella sala della palestra.
«Dicevi che ti accompagnava spesso alle visite, e che quando soffrivi per le nausee ti aiutava nei lavori di casa…»
Hosono ha sorretto Yuri con un braccio e con la mano libera si è grattata la guancia due o tre volte. Non credo che le prudesse: persino quel gesto rifletteva il dolore che doveva provare nelle ossa per aver cullato la piccola fino a quel momento.
«Guarda, a volte mi aiuta, ma è come se fosse un estraneo.»
«Un estraneo?»
«Sì. Alla fine, lui che cos’ha fatto? L’ha solo infilato, ha solo eiaculato. Il resto del lavoro è spettato a me, solo a me si è ingrossata la pancia, io ho avuto le nausee, io ero immobilizzata dal dolore, io ho partorito, lui si è limitato a guardare da lontano dicendomi: “Brava, forza, avanti così!”. Quando ha assistito al parto ha pianto, ma fors...