Sovrani delle Tenebre
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Sovrani delle Tenebre

Ciclo della Terra Piatta

  1. 804 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sovrani delle Tenebre

Ciclo della Terra Piatta

Informazioni su questo libro

In dialogo con i capisaldi della letteratura fantastica di tutti i tempi, il Ciclo della Terra Piatta (di cui la trilogia qui presentata costituisce l'inizio) ripropone la narrazione di vicende non scontate, ispirate a una sintesi tra modelli prestigiosi quali le leggende della tradizione romantica e le novelle orientali nello stile delle Mille e una notte. Le "storie concentriche" della Lee, con i loro vari protagonisti - divini o demoniaci, mortali o immortali - trasferiscono fin dai loro esordi lettrici e lettori nel regno dell'epos e delle fiabe, in cui l'amore implica insospettate crudeltà e la discesa nel regno dei morti può anche ammettere il ritorno tra i vivi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804737698
eBook ISBN
9788835713630

IL SOVRANO DELLA MORTE

Ornamento

Introduzione

Fin dal principio sapevo che c’erano cinque di loro ‒ cinque Sovrani delle Tenebre.
In definitiva, i cinque libri del primo ciclo di opere sulla Terra Piatta ne rivelano quattro. Il quinto Sovrano (forse confusamente?) si intravede appena nel corso del quarto libro (Delirium’s Mistress). Non sapevo, fino ad allora, chi fosse o che cosa rappresentasse. E fino a oggi, nessuno mi ha detto di aver fatto luce circa la sua natura. Ovviamente l’attenzione non è propriamente focalizzata su di lui in quel romanzo. La sua partecipazione è un cammeo. Spero di rimediare alla sua assenza, alla sua eclisse, nel nuovo sesto libro.
Ma torniamo ai primi due Sovrani.
Azhrarn, Sovrano della Notte, è stato il Primo in assoluto. Lui è Malvagità, e la Notte è il suo aspetto. Il Secondo Sovrano, comunque, mi è apparso in tutta la sua evidenza dopo aver terminato il primo libro. Il Secondo Sovrano è Morte, un Re piuttosto che un Principe, come pure sarà il Quinto Sovrano, quando arriveremo a lui.
La Morte è: ebbene, lui è morte. Ma la morte, nelle contrade della Terra Piatta, non comporta la cancellazione totale di un essere. Tutt’altro. Lo stato di morte è soltanto fisico. L’anima resta. La morte dunque riguarda un’idea, piuttosto che un fatto concreto. Il suo aspetto, la sua proprietà, è Ombra, e Pallore.
Io non ero in grado di avvicinare direttamente il Sovrano della Morte, come avevo fatto con il favoloso Azhrarn. Ho dovuto aspettare (volentieri e con grande interesse) che si dipanassero le svariate avventure umane, e seguendo quelle andare verso l’abisso della luce gelida di lui.
Così, in retrospettiva, questo romanzo per me riguarda più l’idea umana di mortalità, che il personaggio (in qualche modo) umanizzato del Rappresentante Numero Uno della Morte. In quel momento, mentre vorticava nella scia dei miei personaggi, l’ho colto nel suo valore nominale.
Ecco dunque che cosa ho trovato.
Tanith Lee
2010

Libro primo

PARTE PRIMA

Narasen e il Sovrano della Morte

1

Narasen, la regina leopardo di Merh, stava in piedi accanto alla finestra e guardava la Signora della Peste aggirarsi per la città. La Signora della Peste indossava un abito giallo, perché il morbo era una febbre giallastra come la polvere che si alzava turbinando dalle pianure e avvolgeva la città di Merh soffocandola, gialla come il fango fetido in cui si era trasformato l’ampio fiume di Merh.
Narasen, rabbiosa e impotente, disse tra sé alla Peste: “Che cosa devo fare per liberarmi di te?”.
E la donna gialla mormorò, come per rispondere: “Tu lo sai, ma non puoi farlo”.
Poi una tempesta di polvere la trascinò lontano, e Narasen chiuse la finestra sbattendo le imposte.
Ecco la camera da letto della regina di Merh: dalle pareti su cui erano dipinte scene di caccia e di battaglie pendevano lucenti armi da caccia e da guerra. Il pavimento era ricoperto di pelli lacere e macchiate di sangue di bestie che Narasen aveva ucciso, e di notte nel letto giaceva spesso una graziosa fanciulla, l’ultimo amore della regina. Il re di Merh, il padre di Narasen, l’aveva allevata e addestrata come fosse un figlio piuttosto che una figlia, preparandola a governare dopo di lui, e questo si era conciliato alla perfezione con le inclinazioni di lei. Eppure la sua bellezza era prettamente femminile.
Un giorno, un anno prima di allora, Narasen era andata con le sue dilette compagne nelle pianure, a caccia del leopardo. Il suo equipaggiamento era bianco e oro, e i suoi bianchi segugi correvano come neve dinanzi al suo cocchio. Una rete di fili d’oro e di perle le tratteneva i capelli screziati di rosso e rosa, e i suoi occhi erano simili a quelli dell’animale cui dava la caccia.
Ma non dovevano esserci leopardi trafitti, quel giorno. I cocchi raggiunsero un’ansa del fiume, fresca, oscura, e con grandi alberi che crescevano sulle sponde. Mentre i cani si dissetavano, le compagne di Narasen scoprirono un giovane seduto sotto un albero. Era di bell’aspetto, piacevole da guardare e, pur sedendo solo senza alcun servitore o guardia, era tuttavia riccamente vestito, e al suo fianco giaceva un bastone di legno bianco, col pomo adorno di due smeraldi.
«Conducetelo da me» ordinò Narasen quando la informarono, e il giovane non si fece pregare. «Com’è dunque possibile?» continuò lei. «Ti trovi entro i confini di Merh, eppure non ne sei un suddito, credo, e siedi qui tutto solo coi tuoi begli abiti. Forse nessuno ti ha messo in guardia, ma molte bestie selvagge vengono ad abbeverarsi al fiume, e hanno fiuto per la carne umana. Inoltre molti ladri vivono in questa terra, come in tutte le terre, e hanno fiuto per i gioielli.»
Il giovane si inchinò e la fissò in un modo che lei aveva già visto altre volte, per cui non poteva sbagliarsi, e gli occhi gli si fecero scuri.
Ma parlò educatamente: «Mi chiamo Issak: sono mago e figlio di maghi. Non temo né le bestie né gli uomini, perché conosco incantesimi per ammaliare le une e gli altri».
«Allora sei fortunato. Oppure vanaglorioso» disse Narasen. «Avanti: dammi una dimostrazione di quello che hai detto.»
Il giovane si inchinò ancora. Poi sollevò il bastone, e questo si trasformò in un serpente bianco dagli occhi verdi, che gli si avvolse tre volte intorno al collo. Dopodiché fischiò e, all’improvviso, l’acqua del fiume venne trafitta da mille lame luccicanti: tutti pesci che saltavano. Fischiò di nuovo, questa volta in modo diverso, e gli uccelli caddero dagli alberi come foglie e vennero a posarsi sulle sue spalle e sulle sue mani.
Le compagne di Narasen erano divertite e lo applaudirono. Ma Narasen, poiché vedeva che lui continuava a guardarla e ciò non le piaceva, disse: «Adesso portami un leopardo».
Di colpo gli uccelli volarono via e i pesci affondarono come pietre. Il giovane di nome Issak non smise di fissarla, aggrottando la fronte, e fischiò per la terza volta. Attraverso l’ombra degli alberi, gettando essi stessi ombra e macchiati di lentiggini d’ombra, dieci leopardi dorati avanzarono, ciascuno con gli occhi di Narasen.
Questa sorrise, e gridò che le portassero le lance. Ma, mentre ritraeva il braccio per effettuare il lancio, il giovane prese il serpente per il collo e lo scagliò lontano da sé. Il serpente si trasformò all’istante in una lancia, che si conficcò dritta nella terra in riva al fiume. I dieci leopardi svanirono.
«Dunque era solo un’illusione,» osservò Narasen «un trucco. Non mi piace essere ingannata con dei trucchi.»
Allora anche Issak sorrise. Con molta dolcezza, disse: «Di qualunque cosa si trattasse, bellissima regina di Merh, non credo che tu potessi farlo».
Narasen non era abituata a sentirsi dire ciò che poteva o non poteva fare. Voltò le spalle, e disse a una delle sue guardie: «Dà a questo illusionista delle monete. Ha l’aria di patire la fame, e forse anche i suoi begli abiti sono un miraggio».
Issak rifiutò il denaro.
«Non c’è moneta che basti. Desidero un’altra ricompensa, perché è di altro che ho fame» disse.
«E di che cosa?»
«Della regina di Merh.»
Nessun uomo aveva mai osato parlare in tal modo a Narasen in tutta la sua vita. Ciò la riempì d’ira, e la fece inquietare fin nel profondo.
«Bene,» disse a ogni modo in tono leggero «poiché è evidente che appartieni a un popolo barbaro e non capisci i nostri modi civilizzati, non ti farò picchiare.»
«Narasen può picchiarmi, ma nessun altro.»
Uno dei cani di Narasen, avvertendo la sua rabbia, ringhiò contro Issak. Ma Issak il mago tese il braccio verso la bestia, e quella si sdraiò immediatamente a terra, dove cadde addormentata.
«E ora,» disse Issak «questo deve imparare Narasen la Bella. Che anche lei potrebbe cadere facilmente vittima di un incantesimo come il suo cane. Nonostante le tue parole, signora, e ciò che sei, l’amore si agita in me alla tua vista. Stanotte giaceremo insieme, e non c’è modo in cui tu possa impedirlo.»
Nel dire questo, piuttosto che di arroganza o lussuria, il volto dell’uomo assunse un’espressione di tristezza e pena.
Narasen si rivolse bruscamente alle sue guardie, che balzarono avanti per afferrare Issak il mago. Ma, quando allungarono le mani, lui non c’era più: era svanito come i leopardi, e per quanto le guardie cercassero ovunque per un bel pezzo, di lui non si riuscì a trovare traccia.
Narasen ritornò in città piuttosto inquieta. Non era ingiusta, sebbene sapesse essere crudele; ora desiderava ardentemente che lo straniero pagasse il fio della sua insolenza. Inoltre aveva preso sul serio la sua promessa, e temeva che avesse delle possibilità di successo, vista la sua abilità di mago.
In lei non c’era amore per i corpi degli uomini; tuttavia, se lui l’avesse avvicinata diversamente, forse si sarebbe impietosita. Poi ricordò la bizzarra espressione di dolore e disperazione dipinta sul volto del giovane, che faceva pensare a chissà quale sciagura…
Narasen spalancò le porte di bronzo con fracasso, e gridò che le mandassero i suoi stregoni.
La notte schiuse i suoi fiori neri; in basso sbocciavano le luci delle finestre fiorite di Merh. Nel palazzo di Narasen fu raddoppiata la guardia ai cancelli, con l’ordine di stare all’erta per gli eventuali stranieri. Davanti agli appartamenti della regina erano ritti due uomini giganteschi, che brandivano mazze d’ottone e si lanciavano occhiate d’intesa, ansiosi di avere l’occasione di menare le mani. Sulla porta interna pendevano il teschio di una iena e altri disgustosi amuleti ideati dagli stregoni di palazzo. All’interno delle stanze fumavano misteriose erbe aromatiche.
Ma Narasen, intanto che la notte avanzava sempre più cupa e silenziosa, si fece anche lei silenziosa e cominciò a dubitare di sé. Dalle alte finestre guardò svanire le luci di Merh, ora un fiore scarlatto, ora uno dorato, strappati dalle dita bluastre di una pacifica oscurità. Pensò agli stregoni che armeggiavano coi loro incantesimi e cantilenavano nenie nell’anticamera. Pensò alla cena che aveva rimandato indietro con un’imprecazione, e alla ragazza dai capelli color del lino che quel mese divideva il letto con lei. Poi pensò a Issak il mago, e rise di se stessa e di lui, delle sue astute magie, delle sue vanterie, della sua concupiscenza. Ne ebbe quasi pietà.
Allora uscì nell’anticamera, e vide attraverso il fumo purpureo dei bracieri che gli stregoni si erano addormentati mentre erano intenti all’opera, e sul pavimento erano sparsi i loro strumenti: pezzi d’osso, frustini d’argento e fili di perline lucenti. Quindi si diresse alle porte di bronzo e le aprì, ed ecco i due giganti, dritti e rigidi come vecchi alberi che, sebbene avessero gli occhi spalancati, non vedevano nulla.
Nel corridoio un uccello verde volava su e giù. Un istante dopo che Narasen ebbe aperto le porte, l’uccello volò accanto a lei dritto nell’anticamera. E lì perse le piume e si mutò in un verde gioiello che cadde sul pavimento, poi il gioiello si ruppe aprendosi, e ne scaturì un raggio luminoso. Quando la luce si dissolse, ecco apparire Issak il mago.
Guardò Narasen, pallido in volto. In mano stringeva una rara rosa azzurra, del genere di cui spesso si parla ma che raramente è dato vedere, e la offrì a Narasen. Quando lei non la prese, disse: «Se preferisci gli zaffiri, che zaffiri siano».
Narasen era quasi senza parole, tuttavia parlò.
«La tua magia è davvero straordinaria. Sarò la prossima a venire stregata?»
«Se non cederai al mio amore.»
Narasen lo scrutò: aveva la faccia bianca, e la mano intorno al gambo della rosa gli tremava.
«Non vado a letto con gli uomini.»
«Stanotte dovrai.»
«Forse, chissà…» mormorò lei. «Bevi con me e parliamone.» Allora, poiché lui non fece segno di volerla fermare, si avvicinò a un armadietto di liquori e versò per lui una dose abbondante, ma riempì la propria coppa con un innocuo succo di datteri. «Ora,» disse Narasen, osservandolo mentre beveva lentamente «dimmi una cosa. La tua stregoneria è vasta, eppure, piuttosto che usarla, tu mi blandisci. Parli di desiderio, ma hai in volto il pallore di un uomo che ha paura o che soffre. Mi corteggi con doni, tuttavia intendi costringermi a giacere con te con la forza. Perché non una cosa o l’altra?» Issak bevve un lungo sorso, e il suo pallido volto avvampò.
«Ti racconterò, Narasen la Bella» disse. «Sono un mago, come ben sai, e ho avuto a che fare con la stirpe dei demoni, specialmente con i Drin, il ripugnante popolo di nani del Sottomondo.
«Desideravo accrescere i miei poteri, e questi Drin mi condussero nella casa di un mago rinomato, molto più vecchio e astuto di me, assicurandomi che lui mi avrebbe insegnato la stregoneria.
«Ma ai Drin questo miserabile piaceva soprattutto in ragione della sua malvagità. Per il mio apprendistato egli pattuì con me che ogni notte giacessi una volta con lui. Ebbene, io ero giovane, stupido, e ansioso di essere saggio e potente, così mi sembrò che i piaceri e gli abusi della carne nulla fossero a paragone del potere e della saggezza. Perciò, sebbene fosse ripugnante, vecchio e bestiale, acconsentii.
«Da quel momento lo sopportai ogni notte. Per un mese intero fui suo allievo di giorno, e suo amante una volta calato il buio. Sembrava un prezzo sufficientemente alto, ma non sapevo quanto. Perché, ogni volta che la sua arma trovava in me la sua guaina, a essa si accompagnavano la sua lascivia e i suoi peccati, che passavano con il suo seme nei miei organi vitali e da lì nella mia carne inconsapevole, nel corpo e nell’anima.
«Ogni volta che ciò avveniva, un anno della sua malvagia esistenza si aggrappava a ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Silvia Costantino
  4. Sovrani delle Tenebre
  5. IL SOVRANO DELLA NOTTE
  6. IL SOVRANO DELLA MORTE
  7. IL SOVRANO DEL MIRAGGIO
  8. Copyright