L'album dei sogni
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L'album dei sogni

Il romanzo

  1. 540 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'album dei sogni

Il romanzo

Informazioni su questo libro

C'è un momento cruciale, in questa storia. E c'è un "prima", e c'è un "dopo".

Il momento cruciale è verso la fine della Seconda guerra mondiale, quando Olga, vedova di Antonio Panini, decide, insieme ai suoi otto figli, di acquistare l'edicola di corso Duomo, nel centro di Modena.

Il "prima" è la storia di Antonio Panini, scampato miracolosamente alla Grande Guerra, combattuta in trincea; del suo amore infinito per Olga, detta "la Caserèina", perché figlia del casaro; e di come nel durissimo momento tra le due guerre i due abbiano costruito una famiglia tanto numerosa quanto movimentata. Fino alla sua morte prematura, a quarantaquattro anni, nel 1941.

Il "dopo" è una grande saga famigliare, la storia di una delle più affascinanti avventure imprenditoriali italiane, fatta di spirito d'iniziativa, fiuto per gli affari, passione, lavoro, inventiva. Una storia che poteva avvenire solo nell'Italia che rinasce dopo la guerra, e nell'Emilia Romagna del boom economico, della Ferrari e della Maserati e delle prime lotte operaie, delle donne "di zigomo forte" e del calcio che diventa fenomeno popolare, e che poteva avere come protagonista solo una famiglia come quella dei Panini.

Dal più vecchio, Giuseppe, al "piccolo" Franco Cosimo, passando per tutti gli altri fratelli e sorelle, in quegli anni crescono, imparano, si innamorano, fanno figli, si ammalano, guariscono, e soprattutto lavorano, e l'edicola di corso Duomo si ingrandisce, le nuove idee si susseguono, fino a quando non arriva "l'idea" che cambierà tutto, le figurine che hanno fatto sognare milioni di italiani.

Luigi Garlando con quest'opera tocca senza dubbio un vertice della sua fortunata produzione letteraria, e accompagna i lettori attraverso un mondo che tiene insieme la concretezza della ricostruzione storica e il fascino della dimensione romanzesca.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804737414

SECONDA PARTE

Il seme sotto la neve

La notte del 5 gennaio 1945 a Modena vien giù una gamba di neve, un bianco spugnoso che cancella le forme, arrotonda gli spigoli e fa inchinare gli alberi.
Lungo corso Duomo sfrecciano come locomotive due ragazzi di tredici e quattordici anni che sbuffano nuvole di fiato e di impazienza. Umberto e Franco indossano i cappotti di lana grossa dei fratelli maggiori, cascati troppo in fretta su spalle troppo strette. Ma, senza guanti, con questo gelo, le maniche lunghe danno più conforto che fastidio.
Arrivato per primo in piazza Duomo, Franco allarga le braccia e solleva lo sguardo al cielo.
«Tirabusciòun?» chiede Umberto.
«No, sto volando come papà.»
«In che senso?»
«Guarda in su, concentrati solo sui fiocchi e ti sembrerà di salire in cielo.»
«In cielo bombardano.»
«Ma noi voliamo e basta. Giochiamo che la guerra è finita. Arriviamo fino a Rimini e vediamo la neve che si scioglie nel mare. Come si scioglie sulla lingua, guarda...»
Spalanca la bocca e ingoia i grossi fiocchi bianchi che scendono lenti come paracadutisti.
«Vai tu in cielo. Io ho una missione da compiere a terra» annuncia Umberto facendo tintinnare un mazzo di chiavi.
«Anch’io!» esclama Franco che rincorre il fratello fino ai portici di corso Duomo, all’angolo.
I due ragazzi cominciano a correre come indiani attorno a un totem coperto di neve: un chiosco ottagonale, otto ante rettangolari, alte e strette, larghe ottanta centimetri. Ci corrono attorno perché non riescono a capire da dove si entra. Scavano nella neve farinosa, ogni tanto si scaldano le mani soffiandoci sopra o ritirandole nelle maniche del cappotto. Hanno il sorriso di prima sulle labbra. La grotta del tesoro è lì davanti a loro, a portata di mano.
«È qui! Vieni!» urla Franco.
Umberto accorre con le chiavi. Quella giusta è l’ultima del mazzo.
Franco entra e s’illumina: «Non è stupenda?».
Il fratello, che ha un anno di disincanto in più, smorza: «Lo diventerà».
In effetti, per ora, l’edicola è uno sgabuzzino striminzito, vuoto e sporco, con un banchetto di legno malmesso.
È la visione del sogno, e ancora di più l’orgoglio, a trasfigurarla agli occhi del più giovane che percorre più volte l’antro angusto, come se volesse prenderne possesso calpestandolo: «Ma ci pensi? Questa è l’edicola dei Panini! Tutta nostra! Nel centro della città... La riempiremo di giornali e di riviste colorate».
Il seme sotto la neve fiorirà.
«Per cominciare va bene» decide Umberto. «Poi ne costruirò una più grande. Io so lavorare il ferro. Agh màtt un àtim a tirèrla só
La testa e le mani di Biàtta si stanno parlando, sono già al lavoro per creare un mondo.
Per ora l’edicola Panini è anche troppo grande.
Le poche testate disponibili faticano a ricoprire il legno scheggiato del banchetto: qualche copia della “Gazzetta di Modena” e del “Corriere dell’Emilia” con la sola cronaca cittadina, “Il regime fascista” di Farinacci, il ras di Cremona, amico dei tedeschi, che gli procurano la carta da stampare. Per problemi di trasporto e di collegamento, i giornali di Milano non arrivano.
Per dar vita e colore a quei pochi fogli, i Panini provano a vendere di tutto, qualche fumetto, cose raccolte in casa, francobolli, le tartarughe di cartapesta costruite dal signor Coconcelli. Quando un anziano artigiano del quartiere, che affila lamette da barba, chiede di poter fare base all’edicola, Franco, che ha solo quattordici anni, ma già un rispetto sacro delle cose da leggere, avanza il sospetto: «Non è che diventiamo un bazar?».
«Non mi importa cosa diventiamo» taglia corto Olga. «Importa quel che vendiamo. Per prima cosa, dobbiamo farci conoscere. Chi viene per le lamette magari compra anche il giornale e se lo legge a casa dopo essersi fatto la barba.»
Le tartarughe di cartapesta, posate sui quotidiani, hanno la testa mobile che va su e giù. Sembra che obbediscano alle veline di Farinacci, la Suocera del regime.
In quei primi giorni di edicola si contano più raid aerei che copie vendute. Le monete nella scatola metallica sono sassolini sul fondo di un oceano, però ogni volta che fischia l’allarme Franco abbranca la cassa e si mette a correre verso l’androne dell’Archivio Notarile, insieme agli uomini che si schiacciano il cappello in testa e alle donne che stringono le borsette al petto.
I caccia della Raf ronzano in genere alle dieci di sera. Nelle case si spengono le luci e si tappano le fessure delle persiane con gli stracci per evitare che “Pippo” – così la gente li chiama confidenzialmente – possa individuare i bersagli. I carri armati tedeschi restano accucciati sotto i portici del corso, come cagnoloni pigri.
«Il tesoro è al sicuro!» annuncia ogni volta Franco, come un rito, appena arrivato al rifugio.
Non si riferisce tanto ai soldi della cassa, quanto ai fumetti di Edgar Wallace che mette regolarmente in salvo.

Bombe su Modena

Alle 14.30 del 18 aprile 1945 un boato terrificante fa tremare l’edicola. Le tartarughe di cartapesta si mettono a dire ripetutamente sì a Farinacci.
La notizia corre veloce, come un ratto tra le macerie, e arriva quasi subito nella piazza centrale: «Hanno colpito la Ciro Menotti!».
Hanno bombardato la caserma, sede della Scuola Allievi Ufficiali di Complemento. Franco e Umberto si scambiano lo stesso sguardo di terrore, perché la caserma Menotti tocca Rua Muro, la strada dove abitano. E dopo il terrore si scambiano la stessa parola sussurrata: «Mamma». Perché Olga dovrebbe già essere lì, a dare il cambio in edicola, dopo il turno all’Accademia Militare.
Un giro di chiave e si mettono a correre verso casa, lungo il percorso che fa tutti i giorni la mamma, ma, arrivati a vicolo Coccapani, trovano un muro di fumo bianco e di disperazione: montagne di macerie, urla, gente che scava. Sono venute giù anche le case di via Malatesta.
Umberto aggredisce la montagna, la scala aiutandosi con le mani, Franco gli va dietro, tossiscono, inciampano, si sbucciano le ginocchia, a tratti proseguono a quattro zampe, la polvere raschia la gola, si schiacciano il fazzoletto sulla bocca, non si vede nulla, poi il muro bianco si squarcia davanti a una donna anziana vestita di nero che rimuove le macerie inginocchiata a terra, aiutata da una coppia più giovane, forse la figlia e il genero, forse il volto che affiora dai sassi è quello del marito, ha il cranio sfondato e la bocca sdentata spalancata, un ghigno feroce, non di dolore, ma di rabbia, come se il cadavere volesse liberarsi per mordere. La donna più anziana non ha luce né emozioni negli occhi, sembra stia passando uno straccio, quella più giovane singhiozza, Franco si è attardato a osservare la scena, ora non vede più il fratello, il fumo bianco si è fatto ancora più spesso. «Umberto!»
«Qui!» risponde il fratello. Franco sterza verso la voce, inciampa ancora, si ferisce il palmo con un coccio di piastrella, studia il sangue che affiora dopo un’attesa interminabile, tossisce, Umberto osserva un giovane uomo in canottiera che cerca di abbattere a pugni l’unica parete rimasta in piedi mentre una ragazza in lacrime, forse la moglie, prova a fermarlo, sembra impazzito, gli spunta dal collo una vena grossa come la corda di una campana, anche sul muro rimasto in piedi corre una crepa che sembra la vena di un braccio. Franco raggiunge Umberto, sono bianchi come statue di gesso, arrivano in fondo a vicolo Coccapani, attraverso la nebbia di polvere riconoscono una sagoma, sembra un’anima nell’aldilà, «la mamma» dice Franco, stentano a raggiungerla per la paura di vederla svanire, invece abbracciano un corpo vivo e le braccia di Olga si richiudono su di loro.
Quattro giorni più tardi Modena viene liberata.
È una domenica di vento e cielo chiaro. Si combatte alla Crocetta, alla Sacca a Freto, a Baggiovara, a Cognento. I partigiani avanzano verso la città e spaccano le linee tedesche. Gira la notizia di due tedeschi fuggiti in bicicletta, tra gli insulti e lo scherno della folla. I Coppi e Bartali dell’infamia. Forse solo una burla, ma la gente raccoglie volentieri la voce e la fa correre con allegria per le strade.
Gli scontri si spostano nel centro storico, divampano in piazza Sant’Agostino, dove un prete, don Ferdinando Grillini, con affannato eroismo, traghetta le anime ferite in ospedale. I partigiani raggiungono piazza Impero.
Alle undici le campane della Ghirlandina si mettono a suonare. La gente comincia a riversarsi in strada, con passo incerto e un occhio in cielo, come gli animali usciti dall’arca di Noè, preoccupati che possa piovere ancora. Lo sapranno gli alleati lassù che non è più il caso di bombardare? Per questo vengono stese sui tetti delle case lenzuola bianche che segnalano la città liberata. Con il passare dei minuti, la gente sorride sempre più convinta e si abbraccia sempre più forte, i petti finalmente si toccano, le mani vanno oltre la stoffa delle giacche e stringono le braccia. Sembrano atleti rimasti inattivi per mesi che recuperano la memoria e la dimestichezza con i gesti di un tempo.
Giuseppe guida i fratelli nella vicina caserma Ciro Menotti. Stanno saccheggiando i locali scampati al bombardamento.
«Prendete tutto quello che potete» ordina il Vècio.
Rientrati a casa, al momento del censimento del bottino, gli occhi cascano tutti addosso a Franco che ha in braccio una montagna di libri e di carte.
«Ma cos’hai preso?» chiede Benito socchiudendo gli occhi per leggere meglio da lontano.
«Libri del Touring, mappe segrete tedesche!» si illumina Franco. «Roba preziosissima!»
Giuseppe gli fa dondolare la testa con uno scappellotto: «Io mi sono spaccato la schiena per portare sulle scale questa stufa di ghisa!».
A mezzogiorno, Alfeo Corassori, il sindaco scelto dal Comitato di Liberazione Nazionale, prende possesso del palazzo comunale. Il dopoguerra irrompe ufficialmente in città al tramonto, a bordo di dieci carri armati Sherman con la stella bianca sopra. Sfilano tra due ali di folla, la gente applaude con gli occhi lucidi, solleva pezzi di cartone con su scritto “Welcome!”, sventola bandiere tricolori, canta, suona fisarmoniche caricate in spalla.
Il diluvio è finito per sempre. Ecco l’arcobaleno della pace.
Ma insieme al dopoguerra si spalanca anche la stagione delle epurazioni.
Per Olga non c’è più lavoro all’Accademia Militare. La medaglia d’oro di “madre di famiglia numerosa” ha perso improvvisamente valore, come valuta fuori corso. Se non altro, potrà dedicarsi a tempo pieno all’edicola che si trasforma, giorno dopo giorno, in un affollato porto di mare, come aveva felicemente previsto. Non basta più il banchetto scheggiato. I Panini piazzano un tavolino davanti al chiosco ottagonale per esporre i giornali che arrivano da Milano e da ogni dove. Approdano le prime riviste. Tra i fogli austeri dei quotidiani spuntano macchie di colore. Non è più tempo di veline. Le tartarughe del signor Coconcelli possono anche dire no con la testa. Roberto Farinacci è stato fucilato a Vimercate. Ha chiesto di non essere bendato e di poter guardare il plotone d’esecuzione. Non gliel’hanno concesso, lo hanno messo faccia al muro, ma è riuscito a voltarsi un attimo prima degli spari e a farsi colpire al petto. Come un soldato, non come un fuggiasco.
Ora il pensiero è libero di correre dove vuole e, come un cane tenuto a lungo alla catena, non sta mai fermo. Oggi le Vespe satiriche dell’“Uomo qualunque” possono trasformare Calamandrei in Caccamandrei e spettegolare sui vizi dei politici; possono pungere in piena libertà, non solo il passato recente, appena sconfitto, ma anche le tendenze stataliste e l’ansia di vendetta dei vincitori. E allo stesso modo pungono le popolari rubriche del “Candido” di Giovanni Mosca e Giovannino Guareschi che sta per scatenare Don Camillo contro i comunisti di Peppone.
Sono fogli anche scomodi nei giorni nervosi del primissimo dopoguerra, e infatti quasi tutte le edicole della città li ignorano. Lo stesso partigiano Giuseppe accenna ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’album dei sogni
  4. PROLOGO
  5. PRIMA PARTE
  6. SECONDA PARTE
  7. TERZA PARTE
  8. EPILOGO
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright