La nebbia ammanta la terra. C’è soltanto questa roccia nel semibuio e la spuma delle onde, alzandosi e ricadendo con un ruggito tonante, mi rammenta quanto sia precario il mio appoggio su questa minuscola isola. Mi sembra quasi di sentire i suoi piedi su queste rocce fredde e bagnate: la Donna del Cielo su un granello di terra, sola in un mare freddo e buio, prima che ne facesse la nostra patria. Quando cadde dal Mondo del Cielo, l’Isola della Tartaruga fu la sua Roccia di Plymouth, quella dove sbarcarono i pellegrini del Mayflower, la sua Ellis Island. La Madre dei Popoli arrivò da emigrante.
Anch’io sono nuova su questa costa al confine occidentale del continente, nuova a questa terra che appare e scompare in balia delle maree e della nebbia. Qui nessuno sa il mio nome, e io non conosco i loro. Senza lo scambio dei nomi, il grado zero del riconoscimento reciproco, ho la sensazione di poter scomparire nella nebbia, insieme a tutto il resto.
Si dice che il Creatore riunì i quattro elementi sacri e alitò in loro la vita per dare forma al Primo Uomo, prima di collocarlo sull’Isola della Tartaruga. Ultimo creato di tutti gli esseri, gli fu dato nome Nanabozho. Il Creatore gridò il nome nelle quattro direzioni, così che tutti sapessero chi stava arrivando. Nanabozho, in parte uomo in parte manido – potente essere-spirito –, è la personificazione delle forze vitali, l’eroe della cultura anishinaabe, e colui che ci ha insegnato cosa significhi essere uomini. In questa forma Nanabozho, Primo Uomo, e noi umani siamo gli ultimi arrivati sulla terra, i più giovani, e stiamo ancora cercando la nostra strada.
Posso ben immaginare come possa essersi sentito, al principio, prima che lo conoscessero e senza conoscere nessuno. Anch’io, da principio, ero una straniera in questa foresta scura e umida proprio in riva al mare, ma ho cercato un’antenata, nonna Peccio di Sitka, con un grembo abbastanza ampio da accogliere molti nipoti. Mi sono presentata dicendole il mio nome, spiegandole perché ero venuta. Le ho offerto del tabacco preso dalla sacchetta, chiedendole di poter restare per qualche tempo nella sua comunità. Lei mi ha invitato a sedermi, c’era posto per me proprio tra le sue radici. La sua chioma torreggia sulla foresta e il fogliame mosso dal vento non smette di sussurrare qualcosa ai suoi vicini. So che prima o poi affiderà al vento la notizia e il mio nome.
Nanabozho non sapeva da dove veniva né le sue origini – sapeva soltanto di essere stato collocato in un mondo già popolato di piante e animali, vento e acqua. Era anche lui un immigrato. Il mondo era già lì, in equilibrio e armonia, ciascuno portava avanti il compito stabilito nella Creazione. Comprendeva, al contrario di altri, che questo non era il «Nuovo Mondo» ma un mondo già antico prima del suo arrivo.
Il terreno su cui mi trovo insieme a Nonna Sitka ha uno strato spesso di aghi e la sofficità di secoli di humus; gli alberi sono così vecchi che a loro paragone tutta la mia vita è breve come un canto d’uccello. Ho il sospetto che anche Nanabozho lo abbia attraversato come faccio io, incantata, gli occhi alzati ad ammirare gli alberi, così rapita che spesso inciampo.
A Nanabozho, come Primo Uomo, il Creatore affidò le Istruzioni Originali.1 L’anziano anishinaabe Eddie Benton-Banai racconta meravigliosamente la storia della prima impresa di Nanabozho: percorrere a piedi il mondo che la Donna del Cielo aveva portato alla vita con la sua danza. Gli era stato detto di camminare in modo che «ogni passo sia un omaggio alla Madre Terra», ma sul momento non era del tutto certo di cosa significasse. Fortunatamente, anche se le sue erano le prime impronte del Primo Uomo sulla terra, c’erano tanti sentieri da seguire, tracciati da tutti coloro per i quali quella era già «patria».
L’epoca in cui furono date le Istruzioni Originali si può definire «molto tempo fa». Nella mentalità popolare, la storia segue un percorso lineare, come se marciasse a ranghi serrati soltanto in una direzione. Per alcuni popoli il tempo è un fiume in cui ci si può immergere una sola volta, perché scorre dritto verso il mare. Ma il popolo di Nanabozho sa che il tempo è circolare. Il tempo non è un fiume che va inesorabilmente al mare, ma il mare stesso – le onde che appaiono e scompaiono, la nebbia che si solleva per diventare pioggia in un altro fiume. Tutto ciò che era sarà nuovamente.
Se il tempo è una linea, le vicende di Nanabozho si possono considerare la narrazione di un mito tradizionale, il resoconto di un passato remoto e dell’origine di ogni cosa. Ma se il tempo è circolare, quelle stesse vicende sono contemporaneamente storia e profezia, leggende che riguardano un tempo che deve ancora arrivare. Se il tempo è un anello che gira, c’è un punto in cui storia e profezia convergono – le impronte del Primo Uomo sono sul sentiero che ci siamo lasciati alle spalle e su quello che ci aspetta.
Con tutti i poteri e tutti i difetti di un essere umano, Nanabozho fece del suo meglio seguendo le Istruzioni Originali e cercò di diventare nativo della sua nuova patria. Seguendo le sue tracce, noi continuiamo a provarci. Ma nel frattempo le istruzioni sono state ridotte a brandelli e di molte non c’è più memoria.
Tante generazioni sono trascorse dall’arrivo di Colombo, ma gli anziani nativi più saggi continuano a farsi domande sui popoli che sbarcarono sulle nostre coste. Riflettono sul prezzo pagato dalla terra e dicono: «Il problema è che i nuovi arrivati non hanno entrambi i piedi sulla riva. Un piede è ancora sulla nave. Sembra che non sappiano ancora se restare oppure no». La stessa osservazione è condivisa dagli studiosi contemporanei che vedono nelle patologie sociali e nell’inesorabile cultura materialistica la conseguenza della mancanza di una «casa», un passato senza radici. L’America è stata definita la patria delle seconde opportunità. Per il bene dei popoli e della terra, il compito più urgente del Secondo Uomo può essere mettere da parte la mentalità coloniale e diventare indigeno del luogo in cui vive. Ma gli americani, nazione di immigrati, possono imparare a vivere qui come se fossero destinati a restare? Con entrambi i piedi sulla riva?
Cosa accade quando diventiamo veramente nativi di un luogo, quando finalmente troviamo una patria? Cosa ha guidato il cammino? Se è vero che il tempo torna sempre indietro avvolgendosi su se stesso, forse il viaggio del Primo Uomo ci darà i passi per guidare quello del Secondo.
Il viaggio di Nanabozho lo portò prima verso il sole nascente, dove comincia il giorno. Passo dopo passo, cominciò a preoccuparsi, perché aveva fame: cosa avrebbe mangiato? Come avrebbe trovato la sua strada? Riflettendo sulle Istruzioni Originali, comprese che tutto quello che doveva sapere per vivere era già sulla terra. Il suo compito non era controllare o cambiare il mondo come essere umano, ma imparare dal mondo a essere uomo.
Wabunong – l’Est – è la direzione della conoscenza. Siamo grati a Est per la possibilità di imparare ogni giorno, di ricominciare da capo. A Est, Nanabozho imparò che la Madre Terra è la più saggia delle maestre. Conobbe sema, il tabacco sacro, e come utilizzarlo per far arrivare i suoi pensieri fino al Creatore.
Continuando nell’esplorazione, a Nanabozho fu affidata una nuova responsabilità: imparare i nomi di tutti gli esseri. Li osservò attentamente per capire come vivevano e parlò con loro per sapere quali doni portavano, per poter distinguere i veri nomi. Cominciò subito a sentirsi a casa e quando poté chiamare per nome le altre creature e sentirsi chiamare a sua volta non fu più solo: «Bozho!» gli dicevano, lo stesso saluto che ci scambiamo oggi.
Oggi sono lontana dai miei vicini della Nazione dell’Acero: riconosco alcune specie, ma molte no, quindi procedo come deve aver fatto il Primo Uomo, le vedo per la prima volta. Cerco di silenziare l’approccio scientifico e di dar loro un nome pensando come Nanabozho. Ho notato che non appena si attribuisce a un essere un nome scientifico, si perde interesse. Ma se sono io a creare il nome, continuo a osservarlo con ancora più attenzione, per capire se ho scelto bene. Così oggi quest’albero non è più Picea sitchensis, ma braccia forti coperte di muschio. Rami come ali prende il posto di Thuja plicata.
La maggior parte delle persone non conosce i nomi di queste piante, che in realtà fanno parte della nostra famiglia; quasi non ci bada. Attraverso i nomi noi umani costruiamo le relazioni, non soltanto tra di noi, ma anche con il pianeta vivente. Sto cercando di immaginare come sarebbe vivere ignorando i nomi degli animali e delle piante che ci circondano. Per me, considerando chi sono e la mia professione, è impossibile, ma credo farebbe un po’ paura, lascerebbe disorientati – come smarrirsi in una città straniera senza riuscire a decifrare i nomi delle strade. I filosofi definiscono questo stato di isolamento e disconnessione «solitudine di specie»: una profonda, indefinibile tristezza che deriva dall’estraniamento dal resto del Creato, dalla perdita di relazioni. Con l’aumento della dominazione dell’uomo sul pianeta è aumentato il nostro isolamento, siamo più soli, non riusciamo più a salutare i nostri vicini. Non stupisce che attribuire i nomi sia stato il primo compito dato dal Creatore a Nanabozho.
Attraversò la terra, dando un nome a tutto ciò che vedeva, un Linneo anishinaabe. Mi piace immaginarli insieme: Linneo, il botanico e zoologo svedese, con la giacca di loden e i calzoni di lana, il cappello di feltro calcato in testa e sottobraccio il vascolo – la scatola di latta per tenere al fresco le piante raccolte – e Nanabozho, nudo fatta eccezione per il perizoma e una piuma, con una sacca di pelle di cervo sotto il braccio. Passeggiano senza fretta discettando dei nomi delle cose. Sono entrambi entusiasti, indicano le splendide forme delle foglie, i fiori incomparabili. Linneo illustra il suo Systema Naturae, studiato per spiegare in che modo tutte le cose sono collegate. Nanabozho annuisce, entusiasta: «Sì, è così anche per noi: diciamo, “Siamo tutti collegati”». Spiega che un tempo tutti gli esseri parlavano la medesima lingua e si potevano comprendere l’un l’altro, tutte le creature conoscevano i rispettivi nomi. Linneo sembra rimpiangere quel tempo. «Alla fine sono stato costretto a tradurre tutto in latino» spiega a proposito della nomenclatura binomiale. «Abbiamo perduto molto tempo fa ogni altro linguaggio comune.» Linneo presta a Nanabozho la sua lente d’ingrandimento perché possa vedere le minuscole parti dei fiori. Nanabozho dona a Linneo un canto perché possa vedere i loro spiriti. E ora nessuno dei due è solo.
Dopo l’Est, i passi portarono Nanabozho verso sud, zhawanong, la terra della nascita e della crescita. Dal Sud arriva il verde che ricopre il pianeta in primavera, trasportato dai venti caldi. Il cedro, kizhig, la pianta sacra del Sud, condivise con lui i suoi insegnamenti. I suoi rami sono rimedi che abbracciando la vita la purificano e la proteggono. Nanabozho portò con sé kizhig per ricordare che essere indigeni significa proteggere la vita sul pianeta.
Benton-Banai racconta che, seguendo le Istruzioni Originali, tra i compiti di Nanabozho c’era anche imparare come vivere dai fratelli e dalle sorelle maggiori. Quando ebbe bisogno di cibo, osservò quello che mangiavano gli animali e li imitò. Airone gli insegnò a raccogliere il riso selvatico. Una notte, vicino al ruscello, vide un piccolo animale con la coda ad anelli che lavava accuratamente il cibo con manine delicate. Pensò: «Ecco, devo mettere nel mio corpo soltanto cibo pulito».
Molte piante diedero consigli a Nanabozho, condividendo con lui i loro doni. Nanabozho imparò a trattarle sempre con il massimo rispetto: dopo tutto, le piante erano state le prime ad arrivare sulla terra e avevano avuto a disposizione molto tempo per capire come funzionava. Insieme, tutti gli esseri, piante e animali, insegnarono a Nanabozho quello che gli serviva sapere. Il Creatore gli aveva detto che sarebbe andata così.
Inoltre i fratelli e le sorelle maggiori ispirarono a Nanabozho invenzioni che lo avrebbero aiutato a sopravvivere. Castoro gli mostrò come costruire un’accetta; Balena gli diede la forma della canoa. A Nanabozho era stato insegnato che se fosse riuscito a combinare le lezioni della natura con la forza delle sue idee, avrebbe scoperto nuove cose che sarebbero tornate utili alle popolazioni future. La ragnatela di Nonna Ragno gli diede l’idea della rete da pesca. In inverno seguì le lezioni degli scoiattoli per preparare lo sciroppo d’acero. Quello che Nanabozho imparò costituisce le radici mitiche della scienza, della medicina, dell’architettura, dell’agricoltura e della sapienza ecologica dei nativi.
Ma secondo la circolarità del tempo, scienza e tecnologia si stanno avvicinando alla Scienza nativa adottando l’approccio di Nanabozho: gli architetti che seguono i principi della biomimesi guardano alla natura per trovare nuovi modelli strutturali. Rendendo onore alla sapienza della terra, e prendendoci cura dei suoi custodi, cominciamo a diventare nativi del posto in cui abitiamo.
Nanabozho percorse in lungo e in largo le quattro direzioni sulle gambe lunghe e forti. Cantando a voce spiegata, non udì i cinguettii di avvertimento degli uccelli e ovviamente rimase interdetto trovandosi di fronte il minaccioso Orso Grizzly. Imparò la lezione e in seguito, inoltrandosi in territori altrui, non commise più l’errore di comportarsi come se il mondo intero fosse di sua proprietà. Imparò a restare ad aspettare in silenzio ai margini del bosco, attendendo di essere invitato a entrare. Solo allora, racconta Benton-Banai, Nanabozho si alzava e si rivolgeva agli abitanti del luogo con queste parole: «Non son qui per guastare la bellezza della terra o disturbare il compito che mio fratello sta portando avanti. Chiedo il permesso di passare».
Vide dei fiori sbocciare dalla neve, Corvi neri che parlavano ai Lupi, e insetti che illuminavano le notti della prateria. Sempre più grato per le loro capacità, infine Nanabozho capì che avere una dote significa anche avere una responsabilità. Il Creatore aveva dato a Tordo dei boschi il dono del canto melodioso, con il dovere di cantare la buonanotte alla foresta. Nel cuore della notte Nanabozho fu grato che le stelle brillassero per mostrargli la strada. Respirare sott’acqua, volare fino ai confini del mondo e ritorno, scavare tane nel terreno, elaborare sostanze medicinali… Ogni essere con una dote, ogni essere con una responsabilità. Nanabozho guardò le sue mani. Non aveva niente. Doveva fare affidamento sul mondo perché si prendesse cura di lui.
Dall’alta scogliera affacciata sulla costa guardo a est, le colline sono una distesa frastagliata di boschi usati per il legname. A sud vedo un estuario con una diga e un canale che impediscono il passaggio dei salmoni. A ovest, all’orizzonte, una barca per la pesca a strascico gratta il fondale dell’oceano. E a nord, in lontananza, squarciano la terra per estrarre il petrolio.
Se il nuovo popolo avesse saputo che il Primo Uomo era stato istruito da un consiglio di animali – mai danneggiare il Creato, e mai interferire con il sacro proposito di un altro essere – ora l’aquila dall’alto vedrebbe un mondo diverso. Banchi di salmoni risalirebbero i fiumi e i piccioni migratori oscurerebbero il cielo. Lupi, gru, Nehalem, coguari, Lenape, le antiche foreste: sarebbero qui, ciascuno pronto a adempiere al proprio sacro dovere. Io parlerei la lingua potawatomi. Vedremmo quello che vide Nanabozho. Non serve troppa immaginazione, perché è quello che ancora ci strazia.
Considerando lo scenario storico, esortare i colonizzatori a diventare indigeni sembra autorizzarli a partecipare a una festa a cui non sono stati invitati. Si potrebbe interpretare come un esplicito via libera a impadronirsi del poco che è rimasto. Possiamo sperare che i colonizzatori seguano le orme di Nanabozho, procedendo in modo che «ogni passo sia un omaggio alla Madre Terra»? Dietro alla fiammella della speranza, nell’ombra, dolore e timore cercano di indurmi a non fidarmi.
Allora devo ricordare che il dolore appartiene anche ai colonizzatori, che come noi non potranno passeggiare tra l’erba alta, tra i girasoli che danzano con i cardellini. I figli di chi è arrivato da lontano hanno perso, come i nostri, l’opportunità di cantare alla Danza dell’Acero. Anche per loro l’acqua non è più limpida.
Diretto a Nord, Nanabozho incontrò chi poteva rivelargli i segreti della medicina. Gli diedero Wiingaashk per insegnargli la compassione, la gentilezza e il risanamento anche per chi aveva commesso gravi errori, perché chi non ne ha fatti? Diventare indigeni significa allargare il cerchio della guarigione fino a includere tutto il Creato. Sweetgrass, sotto forma di una lunga treccia, offre protezione al viaggiatore, e Nanabozho ne mette un po’ nella sacca. Un sentiero che profuma di sweetgrass conduce a un paesaggio di perdono e guarigione per tutti quelli che ne hanno bisogno. Sweetgrass non offre il suo dono solo ad alcuni.
A Ovest Nanabozho incontrò molte cose spaventose. La terra tremò sotto i suoi piedi. Vide grandi fuochi consumare la terra. Ma la Salvia, mshkodewashk, la pianta sacra dell’ovest, era lì per aiutarlo, per spazzare via la paura. Benton-Banai ci rammenta che il Custode del Fuoco in persona andò da Nanabozho. «Questo è lo stesso fuoco che scalda il tuo capanno» disse. «Tutti i poteri hanno due facce, il potere di creare e il potere di distruggere. Dobbiamo riconoscerli entrambi, ma investire i nostri doni nella creazione.»
Nanabozho imparò che ogni cosa ha una dualità: infatti aveva un fratello gemello dedito a creare squilibrio così come lui era dedito all’equilibrio. Il gemello aveva imparato a manovrare l’interazione tra creazione e distruzione, spingendola qua e là come una barca su un mare agitato per tenere il popolo in uno stato di incertezza. Scoprì che l’arroganza del potere poteva essere usata per scatenare una crescita illimitata – una specie di creazione incontrollata, cancerosa, che avrebbe portato alla distruzione. Nanabozho giurò d...