Anno diciassette
«Il Sommo Abate sta per morire.»
Akeha schiuse gli occhi. Mokoya giaceva sul suo divano dall’altra parte della stanza, scontornatə dal sole notturno che filtrava attraverso la spessa tenda di carta tirata davanti alla finestra. Valutò l’idea di far finta di non aver sentito niente e lasciare che quella dichiarazione si spegnesse nella placida aria notturna.
Poi, prese consapevolezza della realtà. Naturalmente, a Mokoya non sarebbe sfuggito che era svegliə. «Perché lo dici?» chiese, rifiutandosi di sollevare il busto dal letto.
«Ho visto la cerimonia di confermazione di quello nuovo.»
«Ah sì? E chi era?» Pigramente, Akeha si rigirò nella testa il ricordo delle alte gerarchie del monastero. Non aveva pensato molto a quella gente da quando era partitə, e sospettava che le cose non fossero cambiate un granché in questi nove anni. Il monastero era un luogo di stagnazione, un luogo che restava abbarbicato alla sua dottrina e teneva più alla purezza interiore che a qualunque altra cosa.
«Nessuno che conosciamo. Un giovane uomo.»
«Cosa?»
«Uno della nostra età, forse un po’ più grande, sui vent’anni.»
Che idea assurda. Un accolito impiegava vent’anni solo per completare l’apprendistato, e la successiva ascesa fino all’apice della piramide era molto lenta. Uno così giovane non avrebbe potuto ricoprire quel ruolo.
«Un ragazzo gauri.»
Questa fu l’informazione che fece rizzare Akeha sul letto. «Un gauri? Siamo sicuri che fosse una visione e non un sogno febbrile?»
Lə gemellə si alzò a sedere e, nel buio, Akeha udì il clicchettio di un coperchio che si apriva. Un bagliore azzurro si diffuse nella stanza quando Mokoya prelevò con cura la perla raccoglitrice dalla sua scatola. La goccia di vetro, abbastanza piccola da stare nel palmo di una mano, splendeva della luce argentea, acquamarina e viola di una visione appena catturata.
Akeha aveva protestato quando i ricercatori del Tensorato avevano consegnato a Mokoya quell’aggeggio. A insospettirlə era stato il fatto che lə avevano richiesto di indossarlo sempre, anche se le visioni visitavano Mokoya soltanto durante il sonno. Per come la vedeva ləi, questo era solo un altro strumento con cui i leccapiedi della madre potevano controllare Mokoya. Tuttavia, ləi sembrava apprezzare la sua presenza. E l’oggetto aveva la sua utilità.
«Guarda coi tuoi occhi» disse, porgendo la perla ad Akeha.
La goccia sprigionava un tepore inquietante, come se fosse un essere vivente. Akeha tensette per schiudere la visione, srotolando le sue spire da serpente. Il sogno di Mokoya lə inondò.
Una processione di monaci avanzava lentamente, cantando sutra, sulla strada davanti al padiglione cerimoniale del Gran Palazzo Supremo. Tensori e personale del palazzo erano schierati davanti a ogni edificio, lungo ogni corridoio, e osservavano in silenzio con le mani giunte. Le campanelle risuonavano, ritmiche e solenni, e le teste si chinavano non appena la processione passava loro davanti.
Alla testa della sfilata, c’era un ragazzo che Akeha non aveva mai visto. Slanciato e muscoloso, dalla carnagione scura, la mascella incorniciata da una folta barba che sembrava incredibilmente curata. Gli avevano rasato il capo e, sulla cute, avevano tatuato i sigilli delle cinque nature. Era lui. Il nuovo Sommo Abate. Sì, era un ragazzo. E sì, era assurdo. Sembrava uno studente che avesse indossato un costume cerimoniale per una recita.
Ogni cinque passi, il nuovo Sommo Abate si fermava e si inginocchiava, posando la fronte a terra. Il volto del ragazzo mostrava una serietà assoluta. Akeha lo vide alzarsi in piedi, fare altri cinque passi e prostrarsi di nuovo. Occhi infossati, naso diritto e minuto. Il suo carisma si percepiva anche attraverso l’eco della visione. E la visione stessa indugiava su di lui – in un modo che non accadeva mai con i sogni di Mokoya – come se anche la sorte lo trovasse irresistibile.
Un ragazzo gauri. Straordinario.
E dov’era la loro madre in tutto questo? Akeha tirò le redini della visione e la ruotò, cercando la Protettrice in questo teatro di omaggi ritualizzati. Aveva imparato a farlo solo di recente, grazie agli appunti che aveva “preso in prestito” dal laboratorio in cui si studiavano le visioni di Mokoya. Si era scoperto che non erano soltanto sogni, ma intervalli temporali catturati nella loro interezza. Con sufficiente forza di volontà, si poteva navigare all’interno di essi.
Akeha trovò la Protettrice sull’alta pedana del padiglione cerimoniale, sotto l’ombra dei parasole di seta gialla. Sonami era seduta al suo fianco, come sempre, ultimamente. Kara, l’ultimo nato di Sonami, stava aggrappato al grembo di sua madre. Non dimostrava molti più anni di quanti ne avesse adesso – tre appena compiuti, e da poco dichiarato maschio. Mokoya aveva ragione: tutto questo sarebbe accaduto presto.
L’espressione della Protettrice era quella di una persona che avesse bevuto una tazza di aceto. Ottimo.
Akeha uscì dalla visione e posò la perla nel palmo aperto di Mokoya. «Ah! Hai visto? Pare che a nostra madre stia per scoppiare una vena.»
«Questo non è uno scherzo, Keha. Non c’è niente da ridere.»
Akeha tacque. Era volgare, in effetti, trovare divertente questa piega degli eventi. Il Sommo Abate stava male da anni, ormai, ma il vecchio si era preso cura di loro quando erano bambinз. Era la cosa più vicina a un padre, per lз gemellз. «Scusami.»
Mokoya cominciò a giocherellare con la visione. «Io non capisco» disse infine. «Perché lui? Chi è?»
«Questa è la volontà della sorte. Perché iniziare a metterla in discussione adesso?»
La perla raccoglitrice smise all’improvviso di ruotare tra le mani di Mokoya. «Perché non prendi mai niente sul serio?»
Akeha sbatté le palpebre. Lə suə gemellə ripose la perla nella scatola e chiuse il coperchio di scatto. «Moko» disse in tono conciliante. Tuttavia questo non bastò per impedire a Mokoya di lasciarsi cadere di nuovo sul divano con aria furibonda.
«Ohi…» Akeha scivolò giù dal suo letto, incertə, timorosə di attraversare il baratro tra i due giacigli. Si alzò a metà, puntellandosi al legno duro della testiera. «Qual è il problema?»
«Nessun problema» rispose Mokoya. Si era giratə verso il muro. «Torna a dormire.»
Akeha si umettò il labbro inferiore e lasciò trascorrere alcuni secondi. Quando Mokoya non aggiunse altro, azzardò: «Invece un problema c’è. Da qualche giorno sei di cattivo umore. C’è qualcosa che non va, solo che non vuoi dirmelo».
Silenzio dall’altra parte della stanza. Poi, Mokoya si sollevò a sedere, lentamente. «Mancano meno di due settimane al nostro compleanno. Voglio compiere il rito di confermazione.»
Akeha risucchiò l’aria tra i denti; avrebbe tanto voluto sentire una risposta diversa. «Cosa?»
Mokoya si voltò. «Voglio compiere il rito di conf…»
«Ti ho sentito. Ma perché?»
«Perché? Keha, tra poco avremo diciassette anni. Dovremo farlo, prima o poi.»
«Ci siamo ripromessз di non essere mai confermatз.»
«Ma avevamo sei anni quando facemmo quella promessa. Non siamo più bambinз.» Mokoya si mosse sul letto. «Keha, non pensavi seriamente che potessimo evitare la confermazione per sempre, vero?»
Akeha si strinse nelle spalle, poiché non era sicurə che la sua bocca avrebbe detto la cosa giusta. Nessuno passava dal genere non dichiarato alla confermazione senza tappe intermedie. Tranne Sonami, e Akeha non era Sonami.
Mokoya esalò un sospiro rumoroso. «Keha.»
«Perciò, è per questo che non me ne hai parlato? Pensavi che l’avrei presa male?»
«Be’, l’hai fatto.»
Senza dire una parola, Akeha risalì sul proprio letto. “Non l’ho presa male” pensò. “Non è una questione così importante.” Eppure, lo era.
«Non devi decidere adesso, se non vuoi» disse Mokoya. «Ti sto soltanto informando che io ho intenzione di farlo.»
Akeha giaceva immobile sul divano, che all’improvviso sembrava irragionevolmente duro e gibboso. Fissò delle macchie di luce danzare sul soffitto e ascoltò la cadenza irregolare del respiro di Mokoya dall’altra parte della stanza.
Alla fine, chiese: «E in cosa ti confermerai?». Ma nell’attimo stesso in cui la domanda lasciò le sue labbra, seppe già qual era la risposta.
«Donna» replicò Mokoya, senza esitazioni.
Il silenzio piombò nella stanza, interrotto soltanto dal suono dei loro respiri.
Nel buio, lə suə gemellə ripeté: «Non devi decidere adesso. Ti sto soltanto dicendo quello che voglio fare».
Il sole batteva sui mattoni e sull’arido terriccio mentre lз gemellз scivolavano come pesci per le tortuose stradine secondarie di Chengbee. Correvano con l’ombra del Gran Palazzo Supremo alle spalle, e le suole piatte dei loro sandali facevano a stento rumore. Si erano sbarazzatз di quel babbeo del loro custode, Qiwu, parecchi minuti prima, perdendolo nel fitto brulichio mattutino del mercato principale. Adesso stavano cercando di allontanarsi dai luoghi in cui avrebbero dovuto trovarsi. Mokoya, leggermente più avanti, apriva a entrambi una strada affidabile tra le zigzaganti viuzze.
Erano direttз a sud, nel quartiere degli straccicarni. Quando fu il momento di addentrarsi in territori ignoti, Mokoya rallentò, cercando di confrontare le strade vere e proprie, in tutta la loro lurida confusione strepitante, con le linee disegnate sulla mappa.
Il quartiere degli straccicarni aveva un mercato tutto suo, un disordinato e vivace assortimento di carretti ammassati all’intersezione tra più strade. A differenza del mercato principale, con i suoi banchi allestiti a regola d’arte e le segnaletiche alimentate a slascienza, il mercato degli straccicarni vibrava di un caos che si conteneva a stento. Rotoli di merci essiccate fiancheggiavano vassoi su cui stavano impilate piramidi di conserve. Gli artigiani lavoravano gomito a gomito con i venditori di cartocci di noci caramellate. Bambini con carnagioni di tutte le tonalità del bruno guizzavano avanti e indietro, smerciando tazze di tè alle spezie e spiedini di frutta. La biancheria stesa schioccava sotto le finestre del secondo piano, assorbendo il profumo dell’incenso, dell’olio caldo e delle castagne arrostite.
Osservando questa vivida scena corale, una persona che provenisse da fuori città – magari un contadino che non era solito comprare i rotoli delle ultime notizie – non avrebbe mai detto che, solo pochi giorni prima, la terra sulla quale si trovava era piena di corpi seduti, vivi e vibranti di eccitazione, con le braccia intrecciate a formare una catena di contestatori coraggiosamente schierati di fronte alle truppe del Protettorato. La ridotta minoranza gauri della città era spesso descritta come operosa e di poche pretese, ma gli eventi della settimana precedente avevano chiaramente dimostrato che persino loro avevano un limite.
E il limite era questo: diciassette compatrioti rimasti uccisi nel rogo di un setificio, e il proprietario della fabbrica esonerato da ogni responsabilità, malgrado fosse del tutto evidente che l’incendio era stato provocato dalla sua avidità e dalla sua incuria. C’era stata qualche piccola sommossa, poi alcune menti più calcolatrici erano subentrate nell’organizzazione di proteste. Per giorni, le vie dei quartieri meridionali di Chengbee erano rimaste bloccate da ostinati manipoli di manifestanti, che cantavano e ostacolavano il flusso dei commerci.
La Protettrice aveva finalmente appianato la situazione condannando a morte il proprietario della fabbrica. I comunicati ufficiali dichiararono l’incidente concluso, la giustizia amministrata e l’armonia ristabilita. Ma gli sguardi mordaci della folla al passaggio dellз gemellз raccontavano una storia diversa. Benché la gente non lз riconoscesse, Akeha e Mokoya avevano lineamenti kuanjini, e inoltre indossavano abiti pregiati. Questo era sufficiente per istigare l’ira della gente.
Non ispiravano certo approvazione nei confronti del dominio della loro madre.
Mokoya rovistò tra le pieghe della sua veste ed estrasse un rotolo-immagine. Lo stesso con cui ave...