Fuori dal ristorante
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Fuori dal ristorante

  1. 156 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

" Dentro il ristorante ti senti un leone. Giochi in casa, dove nulla può andare storto. Ma a me vincere facile non è mai piaciuto, e nella ristorazione esterna se vinci è solo dopo aver calcolato e affrontato innumerevoli difficoltà. " Da cinquant'anni il ristorante Da Vittorio di Bergamo è un marchio di eccellenza della ristorazione. Francesco Cerea, secondogenito dei fondatori Vittorio e Bruna, ha scelto di lavorare "fuori dal ristorante" e di occuparsi della ristorazione esterna, creando gli eventi che hanno portato i sapori di Da Vittorio sulle tavole di tutto il mondo.

Quando si organizza un evento, da ristoratore è necessario trasformarsi in sarto e confezionare un abito su misura per il cliente: la riuscita della serata dipende da tante piccole attenzioni e premure riservate al momento giusto, studiate con precisione chirurgica. Ma anche da soluzioni estemporanee per risolvere le mille difficoltà che di volta in volta possono capitare. Perché la ristorazione esterna è come la vita: l'imprevisto è sempre dietro l'angolo e per affrontarlo sono necessari disciplina, talento, grinta ma anche inventiva e un pizzico di follia.

Qualità che hanno consentito a Francesco di organizzare, negli anni, eventi in onore di personalità di spicco della politica, dello spettacolo e dell'imprenditoria, dalle star di Hollywood a Barack Obama ed Elisabetta II, e di aprire ristoranti in tutto il mondo. Ma rimanendo sempre con i piedi per terra, senza dimenticare le proprie radici, la propria famiglia: il padre Vittorio, che fin da quando Francesco è adolescente comprende e incoraggia la sua indole "ribelle" e la sua voglia di trovare la propria strada; la mamma Bruna, figura amorevole e sempre presente, il punto fermo attorno a cui orbita l'intera famiglia; e i quattro fratelli - Chicco, Barbara, Bobo e Rossella - con cui forma una squadra affiatata e invincibile: "E con il cuore torno sempre lì, al primo ristorante nel centro di Bergamo, dove ho capito che la felicità degli altri sarebbe diventata il mio destino".

Francesco Cerea è nato a Bergamo nel 1966. È responsabile della ristorazione esterna di Da Vittorio e si occupa delle pubbliche relazioni, dello sviluppo, del coordinamento e della supervisione di tutti gli eventi. Insieme alla mamma Bruna e ai fratelli Chicco, Barbara, Bobo e Rossella, è oggi punto di riferimento internazionale dell'accoglienza e della cucina italiana.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804748014
eBook ISBN
9788835714057
1

Chi è Francesco?

Mi piace partire dal buio. È al buio che si pensa e si fanno i bilanci reali. Non davanti al tramonto, come nei film. È il buio la “luce” per guardarsi dentro.
Prima della tempesta Covid ognuno di noi conduceva la sua vita pensando che il più grande dei problemi fosse quello che stava vivendo in quel preciso istante.
Chi la salute. Chi il lavoro. Chi gli affetti e così via.
Il lavoro per me e per noi andava a gonfie vele, il 2019 è stato una grande annata, come si dice per il vino “la migliore”, e le mie energie erano trainate da quel volano.
Eppure qualcosa in me, nel mio intimo, stava cambiando, qualcosa che quando si fa sentire in modo così imperioso non lo puoi negare, prima di tutto con te stesso. In ognuno di noi c’è quell’angolo d’ombra o, talvolta, di sole che si riconosce nelle mie parole.
Io però stavo attraversando il crepuscolo, non l’alba.
La dedizione al lavoro mi aveva, a poco a poco, allontanato e confuso nel mio rapporto matrimoniale; non ero stato capace di remare nella sua stessa direzione. La famiglia è fondamentalmente squadra e la squadra sembrava voler far rete in campi opposti.
L’amore, quello del Sì, rinnovato nel per sempre con la nascita di due splendide fanciulle, si stava sgretolando sotto le mie mani. Improvvisamente sembrava un castello di sabbia spazzato via da un’onda emotiva.
L’amore che ci aveva fatto superare tanti ostacoli stava sbiadendo, prendendo i toni di una vecchia foto ingiallita che aveva cancellato i sorrisi e di cui non esisteva il negativo.
Al posto di scattare nuove immagini, ci siamo arresi, anche se solo come marito e moglie, non certo come genitori. Comunemente si chiama “fallimento” ma da lì è partito un nuovo viaggio, la mia seconda vita, quella che non avrei mai immaginato, perché non l’avevo mai desiderata. Le crepe che fanno filtrare, in ogni caso, la luce.
È un dentro o fuori, un bivio che non lascia scelta, uniti o separati. E noi, nel rispetto di tutta una vita insieme e di quella ancora a venire, abbiamo scelto la seconda.
Un’apocalisse senza assicurazione, rassicurazioni o paracadute.
Farlo e ammetterlo al mondo. Deludere anche gli altri, perché in molti tifavano ancora per noi. In questo totale stravolgimento doveva ancora arrivare la pandemia. Quella che ha riposizionato la scala valoriale di ognuno di noi. Io che dall’ondata del virus mi sento graziato – l’ho contratto e sconfitto, e attorno a me ho ancora i miei cari in salute – sono uscito dalla tempesta diverso, senza un biglietto di ritorno. Ho visto la guerra, mentre cercavo la pace con me stesso, da un campo della protezione civile dal quale con la mia famiglia servivamo pasti caldi. Ma ad avermi piegato è stata l’emergenza nell’emergenza. Quella famigliare, coincisa con quella che sembrava la fine del mondo, non solo quella del mio matrimonio.
Ognuno di noi è diverso: chi ne è uscito in ginocchio, chi più forte e una minoranza ne è uscita addirittura migliore.
È giusto parlare anche di questo, per onestà. Del momento in cui il mondo si è fermato e mi ha messo davanti allo specchio che prima, solo distrattamente, aveva riflesso il mio sguardo uscendo di casa. Guardarsi è stato davvero strano, così come avere il tempo di farlo. Mi sono riconosciuto fisicamente, ma dell’uomo che vestivo conoscevo ben poco, mi sono perso forse mescolandomi nelle vite degli altri: nozze, banchetti, un aereo preso al volo, una stretta di mano, un nuovo business. Quel silenzio improvviso mi ha fatto paura: io, sempre circondato dai miei impegni, ero solo. Mentre le ore di lavoro, gli unici momenti in cui esercitavo il mio controllo maniacale, diventavano sempre meno… tutto il resto andava a briglie sciolte.
Proprio in quel momento sono stato sorpreso da una scintilla: tutto sapeva di possibile, ero di nuovo innamorato di una donna. Ero pervaso dalla voglia di mobili freschi di showroom che non mi legassero ad altre storie se non a quella tutta da scrivere, di un albero di Natale con un gusto tutto nostro, di novità, di pranzi passati a letto mangiando un panino, di una gita in montagna, una fuga al mare o una partita a carte. Avevo staccato la spina da un impianto che non era più il mio in seguito a un cortocircuito. Ora ricominciavo da capo.
Quando accade si ha la forza di fare tutto, senza preoccuparsi delle conseguenze di ciò che si distrugge, nonostante un occhio vigile sulle figlie, che sono termometro dell’anima. C’è una sveglia dentro di noi che quando suona sembra sempre in ritardo, come se ci avesse lasciati troppo a lungo in letargo. La fissità mi ha sempre spaventato e per nulla mi spaventava quell’avventura che ancora una volta mi avrebbe lasciato a pezzi dopo un volo in parapendio.
Ma io, tutto questo, al “secondo primo bacio della mia vita”, non lo sapevo.
Mi sono ritrovato solo per la seconda volta, a rimettere insieme i pezzi. Un bagaglio passato e un bagaglio recente, senza nessuna destinazione.
E poi, dopo solo nove anni, mi ha abbandonato lei, Margot. Una cagnolina di oltre 60 chili, con due occhioni grandi e luminosi. Un’amica sincera in grado di custodire ogni mio segreto e lenire tutta la mia tristezza. Me ne ero innamorato subito, in quell’allevamento nei pressi di Novara, in mezzo al profumo dei campi. Sembrava un peluchino dal musetto nero, piccolo come un chicco di caffè, e una macchiolina bianca, simile a un batuffolo di panna, sul petto. Ha vegliato su tutti noi con fedeltà e dedizione, infondendoci un’incontenibile ondata d’amore con il suo solo sguardo. Perderla è stato come smarrire un piccolo grande pezzo di me stesso.
Margot mi ha amato senza condizioni, senza mai darmi voti. Credo che il valore di un uomo si possa misurare anche dall’affetto che il suo cane ha per lui. Io con lei mi sentivo la persona migliore di questo mondo. Non so dire se mi conoscesse davvero o se mi avesse sempre sopravvalutato.
A quel punto mi sono trovato più solo che mai, come se la mia vita fosse conservata in un vecchio album riposto nella libreria in legno di famiglia, senza più pagine bianche da scrivere ma solo pagine da ricordare, con malinconia. Potevo fermarmi o ripartire da piccole cose. Ho ricominciato da quello che so fare.
Mi sono trovato ancora una volta alla fine di un evento, con le maniche della camicia arrotolate a metà avambraccio. A fare, per rilassarmi, quello che ho sempre fatto: i caffè per gli ospiti rimasti in sala. Perché ho imparato a tornare alla casella di partenza per iniziare una nuova partita.
Quando smarriamo la strada, sulla montagna così come nella vita, la cosa più saggia è tornare al campo base o al punto da dove siamo partiti. Quel punto di partenza è e sarà sempre la mia famiglia.
Capita che dopo il lavoro mi trattenga qualche minuto in più. Resto lì, col pretesto di rimettere a posto la sala e salutare i ragazzi, per godermi un po’ di tranquillità. Io e mia sorella ci concediamo un calice di vino, del quale ho visto gli acini maturare sotto il sole che batte sulle mie vigne.
Poi salgo in terrazza, qualcuno la chiamerebbe casa e bottega. Noi viviamo lì, attorno al cuore pulsante del ristorante. Il tramonto si specchia nella piscina, creando una tavolozza d’acqua dove tonalità fredde e calde si mescolano e mi pacificano. Non mi sento mai tornato a casa fino a quel respiro sul terrazzo, dove i miei monti imbruniscono con il calare del sole e mi accolgono nel loro abbraccio.
Una mattina, dopo aver passato l’inferno, ho aperto le finestre, c’era il profumo di un nuovo giorno: “È arrivata la primavera”. Le vetrate aperte, fiori, cibo, le voci dei clienti. All’esterno c’era una comitiva di turisti tedeschi che gustavano il nostro pacchero al pomodoro, nel pieno di una meravigliosa giornata. Fino a due anni fa non avrei provato stupore davanti a quella scena; li avrei osservati comunque, come faccio con i clienti senza essere visto, ma in questo anno particolare sembrava un approdo in un porto sicuro. Un traguardo più che un arrivo. Mi ha colpito il segno rosso sulla spalla chiara di lei, resa ancor più chiara dal lockdown, una signora distinta con un cagnolino educato. Il suo cavaliere ha ordinato champagne, anche loro stavano festeggiando la ripartenza. Ognuno è stato fermato prima di qualcosa, e da quel punto loro sembravano aver ripreso nella festa delle bollicine fredde che hanno ordinato, bottiglia dopo bottiglia, consumata a piccoli sorsi perché il sole non scaldasse i bicchieri.
Sono rientrato in sala, dove tre clienti provenienti da Verona si stavano dando da fare con un enorme piatto contenente una fantasia di crostacei, annaffiata con una bottiglia di vino bianco di Borgogna. E così ho ripreso a fare il cameriere, ritrovandomi in sala dove tutto è cominciato. Con il cuore sono tornato lì, al primo ristorante nel centro di Bergamo, dove ho capito che la felicità degli altri sarebbe diventata il mio destino.
Una strana sensazione mi attraversa, mentre percorro la stradina in pavé che porta alla Cantalupa, la struttura nata per barbecue, banchetti ed eventi “open air” nel 2005, dopo il trasferimento forzato dalla nostra sede storica di via Papa Giovanni XXIII, nel centro di Bergamo, a Brusaporto, in mezzo alla libertà della campagna. La tenuta La Cantalupa, il nuovo ristorante Da Vittorio e l’hotel La Dimora compongono un trittico di rinascita per la famiglia Cerea.
Rivedo Chicco e me, lui 14 anni e io 12, di ritorno da scuola mentre corriamo facendo a gara per chi arriva prima. Una giusta e sana rivalità come tra sala e cucina. Io sono in netto vantaggio. Mi volto verso di lui con un sorriso: «Lo rifacciamo?». Basta lo sguardo complice di Chicco, lanciato come un guanto di sfida. Eccoci, con la grazia di due piccoli elefanti, a camminare sulle punte, facendo attenzione a non calpestare i bordi dei cubetti di pietra che dalla scuola portano al ristorante. Sulla soglia c’è nostra madre, non un capello fuori posto. Tiene le braccia incrociate, scuotendo la testa in modo benevolo e rassegnato, ma felice.
Siamo rimasti quelli. La vita avrebbe potuto farci montare la testa, ma quello sguardo vigile della donna della nostra vita ci ha sempre tenuti con i piedi ben saldi per terra.
Continuo la passeggiata. Nel nostro giardino c’è la tenda berbera, un tocco di esotismo tra le colline bergamasche: accogliere chi scende dagli elicotteri con un benvenuto e un bicchiere di vino in un ambiente spartano, seduti per terra, a piedi nudi, freschezza e libertà in compagnia della natura. È un’idea di Lella, una delle mie due sorelle. Siamo tre uomini e due donne che valgono doppio. Lella è uno spirito libero che ordinatamente comprime la sua creatività in progetti di successo. Ha la lungimiranza di papà e il rigore di mamma. Chicco, invece, è il maggiore e fa da ago della bilancia, ma talvolta anche da contrappeso di ogni nostra iniziativa.
All’improvviso qualcosa mi sfiora il polso. Una grande mano delicata riaffiora dai ricordi, stringe la mia come se volesse condurmi lungo il tragitto. La riconosco e una lacrima mi riga il volto: è la mano di mio padre, Vittorio, l’uomo che mi ha dato una direzione, che mi ha regalato un’opportunità.
Aveva delle grandi mani, ma i ricordi, che ingigantiscono tutto, a volte le rendono pesanti da togliere il fiato. Lui è l’uomo che ci ha detto subito chi voleva che diventassimo. Avete presente quei genitori “mio figlio seguirà la sua strada”; ecco, nulla di più lontano da mio padre.
L’adolescenza è un’età difficile. È quel momento della nostra vita in cui scopriamo che anche noi cresceremo e avremo delle responsabilità. Ingaggiamo un conflitto senza tregua con i nostri genitori perché cerchiamo di negare a noi stessi che i loro problemi presto diventeranno i nostri. Quell’idillio fatto di immortalità e giovinezza è destinato a non durare. Credo di averlo capito proprio perché io, quell’idillio, non l’ho vissuto fino in fondo.
Ho iniziato a dare una mano al ristorante all’età di 12 anni. Ricordo il mio sguardo basso sul pavimento, il cuore pesante, oppresso dalla consapevolezza che sarei rimasto lì, a lavorare, mentre i miei amici si erano dati appuntamento al campetto della parrocchia. Io non avevo il fuoco che ardeva in Chicco mentre osservava, con occhi risplendenti di ammirazione, mio padre in cucina. Dove mio fratello si accendeva di passione io mi sentivo in gabbia, mentre i suoi occhi vedevano orizzonti immensi aprirsi davanti a lui, io vedevo la mia giovinezza sfilacciarsi.
Mi ritrovavo, durante le pause, davanti alla vetrata. A 16 anni, avevo una gran voglia di vivere, avevo sete di libertà. Vedevo i miei compagni di scuola, in una mano un cono gelato e nell’altra la mano di una ragazza. Si guardavano, sorridendo, come a volersi immergere nell’altro. Distoglievo lo sguardo verso la sala che mi sembrava più simile a una prigione. Quanti amori avrei visto sbocciare attraverso quei vetri? “Non i miei” mi ripetevo. Forse ero pure un po’ sfaticato.
Vittorio, come sempre, si era accorto che qualcosa non andava. Non sono mai stato un figlio facile, troppo ribelle e dinamico per proseguire lungo un sentiero già tracciato. Ma lui mi voleva bene e da tempo stava cercando di valorizzare questa mia fame di spazi aperti, di contatto, di relazioni, trasformandola in un ruolo cucito su misura per me.
Un giorno come tanti altri stavamo riordinando, quando ho sentito una voce chiamare alle mie spalle: «Francesco! Avrei bisogno del tuo aiuto». Mio padre era lì, sulla soglia d’ingresso, teneva aperta la porta invitandomi a precederlo, con l’altra mano reggeva un sacchetto di nylon la cui trasparenza ne rendeva evidente il contenuto: un pallone da calcio. Abbiamo camminato fino ad arrivare al piazzale degli Alpini, stranamente deserto per quell’ora. Lì Vittorio ha lasciato scivolare il pallone fuori dal sacchetto e improvvisato un palleggio, poi un passaggio col collo del piede. Ho risposto con due palleggi, una stoppata di petto, un lieve gioco di gambe e un passaggio lungo, talmente veloce che Vittorio si è precipitato fino in fondo al piazzale per recuperare la palla. «Vuoi rubare il posto a Maurizio Sandri?» mi ha chiesto abbozzando un sorriso per nascondere il fiatone prima di ripassarmi la palla. Ho improvvisato un altro palleggio, ma poco prima di restituirgliela ecco il suo cenno: una mano col palmo rivolto verso di me, mentre con l’altra stava massaggiandosi il cuore. «Andiamo a sederci un attimo, così riprendo fiato.» L’ho seguito con la palla sotto il braccio.
«Dicono tutti che sei la mia versione in miniatura, credo che abbiano ragione.» Una breve pausa. «Ricordi quand’eri piccolo? Ti piaceva stare in sala insieme a me, non è vero?» ha detto una volta seduti, rompendo il silenzio.
Ho replicato: «Mi piace il tuo modo di fare con i clienti, quando vanno via sono sempre felici. Vorrei avere questa tua capacità, un giorno».
«Ma tu ce l’hai, lo dicono tutti!» la sua risposta. «Il fatto è che mi sembri infelice e questo mi dispiace.»
Quel suo “mi dispiace” ha aperto una voragine dentro di me, la voce ha cominciato a tremarmi e tutta la frustrazione accumulata in tre anni si è sfogata sotto forma di lacrime. «Io voglio vivere, voglio correre e respirare a pieni polmoni come fanno i miei amici. Nessuno mi ridarà mai gli anni che il ristorante mi sta portando via. Io non sono come Chicco, non ho la sua passione, mi sento soffocare al solo pensiero di rimanere chiuso a vita tra quelle quattro mura!» Non potrò mai dimenticare l’espressione del suo viso, lo sguardo abbassato verso la panchina, la sua mano sulla mia.
«Lo so, non è facile.» È bastata una frase semplice per farmi sentire in colpa. Dopo una manciata di secondi i suoi occhi azzurri hanno ricominciato a brillare fissandosi nei miei, mentre le sue labbra si incurvavano in uno di quei sorrisi che affioravano non appena aveva un’idea geniale. «Se il problema è questo possiamo trovare una soluzione: fai ciò che serve.»
È stato questo imperativo a permettermi di migliorare e crescere sempre di più. Apparentemente non vuol dire niente e invece vuol dire tutto. Significa capire quando c’è un vuoto e trovare, d’istinto, la soluzione per riempirlo. Ho iniziato a stare “fuori dal ristorante” e da quella distanza ho imparato ad amarlo.
Ogni volta che mi succede qualcosa di bello, che porto a casa un evento dato per perso, sento il bisogno di ringraziarlo perché in fondo so che il merito è anche suo. Se n’è andato nel silenzio, quando stavamo incominciando a scalare la vetta, dopo tanta fatica fatta e senza poter godere i frutti del s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fuori dal ristorante
  4. Introduzione
  5. 1. Chi è Francesco?
  6. 2. La famiglia. Portare il pesce a Bergamo: elogio della follia
  7. 3. Fuori dal ristorante
  8. 4. La figura di sala: il teatro della vita
  9. 5. I quattro elementi
  10. 6. Il viaggio nel viaggio. Il mestiere è in valigia
  11. 7. I risultati richiedono sacrifici e i sacrifici portano sempre a risultati
  12. 8. C’era una volta e per sempre
  13. 9. La squadra crea una tattica ma i miracoli li fa il cuore
  14. Copyright