
- 368 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Nel corso della millenaria vicenda dell'uomo i giochi sono andati e venuti, sottoposti a mode e gusti. Gli scacchi no: da oltre millecinquecento anni continuano ad affascinare personaggi d'ogni rango e livello culturale in qualsiasi angolo del mondo. Perché sessantaquattro caselle e una manciata di statuine sono stati così difficili da cancellare dall'immaginazione umana?
È quello che si è ripromesso di scoprire David Shenk in questa appassionante storia degli scacchi. Una introduzione non tecnica a un gioco avvincente che, tra aneddoti curiosi e personaggi, illumina la nostra comprensione della guerra, dell'arte, della scienza e della mente umana.
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Informazioni
Print ISBN
9788804743606eBook ISBN
9788835713401II
MEDIOGIOCO
(Chi siamo)
Gli scacchi sono un avvenimento di scala mondiale. Ovunque sia scoperto un nuovo sentiero, si può star certi che c’era una ragione perché quel sentiero fosse battuto. E quando scopriamo che l’esploratore, nel suo cammino verso l’Artico, sosta per una giornata in Islanda assorto in partite appassionanti; e che il commerciante in Kamchatka o in Cina, non capendo una parola di ciò che viene detto attorno a lui, riesce ad avere delle lunghe conversazioni serali sopra a una scacchiera in una lingua parlata da tutti, allora ecco che grazie alla loro universalità gli scacchi diventano autentici.
M.D. CONWAY, «Atlantic Monthly», 1860
5
L’opera di Benjamin Franklin
Gli scacchi e l’Illuminismo
Nelle colonie americane quasi tutti volevano evitare, finché era possibile, la guerra contro i soldati di re Giorgio III. Tra costoro c’era anche Benjamin Franklin.1 Ma nel 1774 era ormai chiaro agli occhi di tutti che un conflitto armato era alle porte. Nel dicembre precedente aveva avuto luogo la famosa rivolta del tè, passata alla storia col nome di Boston Tea Party, nella quale alcuni coloni, in segno di protesta contro il monopolio inglese sul commercio de tè, erano saliti su tre navi della Compagnia britannica delle Indie orientali ancorate al porto di Boston e avevano gettato a mare tutte le casse del carico. A quest’atto di sfida e ad altri analoghi avvenuti in altre città americane, il governo inglese rispose approvando cinque provvedimenti speciali che i coloni denominarono Leggi Intollerabili (Intorerable Acts). Al comando del generale Thomas Gage, l’esercito britannico aveva esasperato i controlli sul governo locale, sulle procedure legali e sull’ordine pubblico, facendo naturalmente salire la tensione tra le file dei coloni. Ci si stava avviando verso una guerra sanguinosa che avrebbe cambiato il mondo, la guerra d’Indipendenza americana.
Franklin, che a quel tempo era un famoso giornalista, scienziato, imprenditore nonché dirigente postale, si era anche affermato come uno dei più abili diplomatici delle colonie. Aveva passato la maggior parte dei vent’anni precedenti a Londra e a Parigi e si muoveva a proprio agio nei dedali del potere di tutti i palazzi europei. Tuttavia le sue imprese politiche non furono mai in discussione, per cui, quando la situazione era ormai vicina al suo punto di rottura e Franklin confermò la sua fedeltà all’America la corona inglese decise di sollevarlo dall’incarico, che svolgeva a Londra, di vicedirettore generale delle Poste per le colonie. Franklin accettò il licenziamento con orgoglio. «Volevano farmi cadere in disgrazia e mi hanno concesso un onore» scrisse a un amico. «Ho troppo a cuore gli interessi dell’America e sono un aperto oppositore dei provvedimenti del governo. La mia sostituzione è dunque la dimostrazione della mia dirittura morale.»
Alla fine del 1774 a Londra si respirava un’aria di pesante ostilità nei confronti delle colonie americane, così che Franklin si rese conto che era giunto il momento di ritornare a casa, a Filadelfia. Nonostante nutrisse ancora qualche speranza nella ragionevolezza e nella pace, sapeva ormai che anche se fosse rimasto non sarebbe stato più di alcun aiuto; la guerra sembrava imminente, la sua incolumità era in serio pericolo e la sua reputazione era precipitata dopo le reiterate prove di fedeltà alla causa americana. I giornali di Londra gli riservavano nomignoli non troppo teneri, come “vecchio serpente”, “maestro di maldicenza” e “grande incendiario”. Queste invettive rendevano praticamente impossibile per ogni influente politico britannico incontrarlo in pubblico senza danneggiare la propria carriera. Franklin si preparò saggiamente a ritornare a casa.
Fu allora che intervennero gli scacchi. Proprio mentre era pronto per salpare, Franklin ricevette un invito inaspettato a giocare una sola partita con un’importante personalità del bel mondo, Lady Howe, nella sua bella casa di Londra, e rimandò la partenza.
La parole della politica erano già state tutte pronunciate da ambo le parti, ma in questo confronto simbolico coloni e britannici potevano pubblicamente affrontarsi senza alcun rischio personale. L’invito a sorpresa di Londra non aveva in principio nessuna chiara connotazione diplomatica e Franklin non aveva alcun obbligo di accettarlo. Ma amava troppo gli scacchi. Moriva dalla voglia di tornare a casa dopo anni di permanenza all’estero, era distrutto dalle feroci critiche pubbliche che gli avvelenavano le giornate ed era in una situazione alquanto pericolosa, ma davanti alla prospettiva di una scacchiera non riuscì a tirarsi indietro. «Gli scacchi non sono solo un’oziosa distrazione» avrebbe dichiarato più tardi. «Vi sono numerose fondamentali qualità della mente, utili nelle varie fasi della vita umana, che si acquistano o si rafforzano semplicemente praticando questo gioco […]. La vita stessa è una specie di partita a scacchi, in cui spesso ci troviamo con punti da guadagnare e contendenti o avversari con i quali competere.» Con questo e molti altri argomenti, Franklin era solito giustificare la sua smodata passione. Non perdeva mai un’occasione per una partita e quando era in viaggio portava sempre con sé un gioco di scacchi in miniatura (uno dei primi che si siano visti nelle colonie). Sugli scacchi Franklin scrisse libelli e tenne conferenze, li usò per allacciare nuove amicizie, corteggiare dame e intimidire gli avversari. Era sempre alla ricerca di competitori del suo livello a Filadelfia, Londra e Parigi e si studiò tutti i trattati di strategia disponibili. Come già era successo a molti prima di lui, anche per Franklin gli scacchi svolsero la funzione di uno strumento di affinamento morale e intellettuale. Contava su di loro per migliorare il proprio pensiero e fare chiarezza nei propri principi. Ne La moralità degli scacchi, pubblicato per la prima volta nel 1786, asseriva che il gioco migliorava le seguenti qualità personali:
– Preveggenza – per immaginare le conseguenze a lungo termine di ogni azione.
– Attenzione – per analizzare interamente la situazione, scoprendo dinamiche nascoste e possibilità non immediate.
– Prudenza – per evitare mosse precipitose ed errori inutili.
– Perseveranza – per non arrendersi in circostanze difficili, tentando costantemente di migliorare la propria posizione.
Era anche affascinato dalla straordinaria evocatività degli scacchi, al punto che gli capitava di volerne ritoccare le regole se si accorgeva di avere a disposizione una metafora calzante. Un giorno, mentre in America già soffiavano i venti della guerra d’Indipendenza, Franklin si trovava in Francia impegnato in una partita difficile, quando il suo avversario sferrò un attacco mettendolo sotto scacco. Franklin replicò con una mossa palesemente non consentita: ignorò lo scacco e mosse un altro pezzo.
Il suo attonito contendente naturalmente protestò. «Signore, non ha forse visto che il suo Re è sotto scacco?»
«Certo che ho visto» rispose Franklin con impudenza. «Ma non lo difenderò. Se fosse un buon re, come lo è il vostro, allora meriterebbe la protezione dei suoi sudditi; ma il nostro invece è un tiranno, e ci costa molto più di quanto valga. Lo prenda pure, se vuole. Io posso fare a meno di lui, combatterò il resto della battaglia en republicain».a
In una sola battuta, Franklin aveva compendiato lo spirito della rivoluzione democratica. L’America si stava affrancando da una lunga tradizione di regole autoritarie e non aveva più bisogno del re. Per Franklin, che passava le giornate a difendere le colonie americane e le notti a giocare a scacchi, era giocoforza tradurre sulla scacchiera la situazione politica della sua nazione. La stessa democrazia era un concetto astratto. Nessuno poteva vederla, tenerla in mano, metterla su un tavolo per osservarla, condividerne con altri la visione e discuterne. Il massimo che si poteva fare era rappresentarla sotto forme di parole e leggi. Mediante gli scacchi, la democrazia poteva (almeno temporaneamente) assumere una forma concreta, anche se molto semplificata. Si poteva togliere il Re dalla scacchiera, oppure semplicemente ignorarne l’esistenza, per dar forza a un ragionamento o rendere più chiaro un esempio, dando quindi vita a una nozione astratta e rendendola comunicabile con maggiore efficacia. (Ispirati dai commenti di Franklin o più generalmente dalla rivoluzione americana, in seguito in America molti creatori di scacchi produssero varianti “democratiche” del gioco, in cui per esempio il posto del Re era preso da un Presidente. Ma si trattò di sporadiche eccezioni, e l’iconografia europea medievale continuò a essere considerata la regola.)
Franklin è un personaggio unico, un genio poliedrico di prima grandezza, ma la sua devozione per gli scacchi non aveva alcunché di raro o particolare. Essi erano, molto semplicemente, lo svago per eccellenza, il divertimento preferito dei principali protagonisti di quel vasto movimento scientifico e culturale oggi conosciuto come Illuminismo. Tra gli altri, il gioco ispirò e affascinò pensatori come Voltaire e Jean-Jacques Rousseau, l’enciclopedista Denis Diderot e il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz. «Nell’Età della Ragione, le mosse dei pezzi erano come l’ultimo passaggio logico di un sillogismo»2 scrivono Larry Parr e Lev Alburt, esperti giocatori e autori di contributi sugli scacchi. Forse più ancora che nei periodi precedenti, la logica interna degli scacchi divenne intimamente connessa con il pensiero dei suoi principali sostenitori. Questi pensatori valutavano le mosse e affrontavano i problemi filosofici con la stessa impostazione intellettuale fondata sull’indagine, la sperimentazione, il dubbio, e poi ancora indagine e ancora sperimentazione e ancora dubbio, fino al raggiungimento della migliore soluzione possibile.
Succedeva allora che gli scacchi fossero un argomento di conversazione tra i più comuni anche durante i grandi incontri e nei ricevimenti più importanti. «Raramente si corica prima dell’alba» scrisse di Voltaire un suo intimo amico nel 1767.3 «D’altronde beve caffè ogni mezz’ora e gioca a scacchi in continuazione. Il giorno dopo non compare che a mezzogiorno, di pessimo umore […]. Casa sua è un rifugio per tutti gli stranieri; e dato che ognuno di loro si sforza di intrattenerlo al meglio, non c’è da meravigliarsi se, stando sempre a stretto contatto con abitanti dei quattro angoli del pianeta, Voltaire ha una tale conoscenza universale dell’umanità.»
Spesso la linea di demarcazione tra gli scacchi e le idee che contribuivano a generare era indistinguibile. Nel 1754 il filosofo ebreo Moses Mendelssohn e il drammaturgo luterano Gotthold Lessing s’incontrarono di fronte a una scacchiera e diventarono in fretta abituali avversari, buoni amici e colleghi inseparabili.4 In seguito, Lessing prese a modello Mendelssohn per tratteggiare il protagonista della sua commedia Nathan il saggio, sfruttando proprio gli scacchi come filo conduttore del dialogo tra l’illuminato sultano musulmano Saladino e sua sorella Sittah. Questa è una delle prove del fatto che Lessing e il suo circolo di amici consideravano gli scacchi un utile mezzo metaforico nella promozione della tolleranza sociale.
Da dove deducessero questo principio di progresso e convivenza è presto detto. In primo luogo, l’interazione tra i pezzi offriva un raffinato esempio della struttura sociale e della vera natura del potere. Seppure sulle prime i pezzi sembrino tutt’altro che equilibrati in termini di potenza, qualsiasi giocatore esperto sa che ognuno di essi ha una forza specifica con la quale bisogna fare i conti. Se per esempio i Pedoni operano assieme in maniera efficace, possono difendere o addirittura dominare una zona della scacchiera. La morale che se ne poteva trarre era che ogni membro della società ha specifiche qualità, indipendentemente dal rango sociale.
In secondo luogo, considerando che il gioco si vince solamente grazie all’abilità, gli scacchi offrivano lo stesso campo di prova che si poteva trovare nella società. Erano infatti l’essenza stessa della meritocrazia, un’arena in cui il successo si otteneva unicamente in base alla capacità e non ai privilegi della nascita o del caso. Giudicare le persone per il loro contributo alla società e non per la ricchezza ereditata, la razza o la religione sono i fondamenti stessi della campagna per la tolleranza sociale. La stima reciproca tra il borghese Lessing e l’indigente ebreo Mendelssohn rappresentò per tutti un esempio da seguire. Non a caso l’ultima opera letteraria di Mendelssohn è una difesa intellettuale dell’amico protestante.5 Il messaggio di tolleranza religiosa che emerse dalla loro amicizia avrebbe brillato per secoli.
Così come ne ispirarono il pensiero, per Franklin gli scacchi furono anche una sorta di mania, un richiamo al quale non poteva non rispondere. Aveva cominciato relativamente tardi, in età adulta, ma recuperò il tempo perduto studiando incessantemente, tentando senza sosta di migliorare il proprio gioco senza mai perdere l’opportunità di mettersi alla prova; persino la sua corrispondenza trabocca di citazioni di partite giocate con i più vari amici. Negli anni della maturità a Filadelfia gli si fece sempre più difficile trovare avversari qualificati, e questo rappresentò per lui una crescente fonte di frustrazione. I suoi ammiratori spesso cercavano di farlo incontrare con buoni giocatori,6 ma nonostante il gioco fosse assai popolare tra le fila dell’élite intellettuale americana (che comprendeva personaggi del calibro di John Adams, John Quincy Adams, James Madison, James Monroe e Thomas Jefferson)b era raro trovare avversari al...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il gioco immortale
- Prologo
- Introduzione
- I. APERTURE. (Da dove veniamo)
- II. MEDIOGIOCO. (Chi siamo)
- III. FINALE DI PARTITA. (Dove stiamo andando)
- Coda
- Ringraziamenti
- Appendici
- Note
- Copyright