Un luminoso mattino di settembre, quando la maggior parte dei suoi coetanei era a scuola, un ragazzino di nome Reynie Muldoon camminava lungo una strada polverosa. Aveva un aspetto piuttosto insignificante – capelli e occhi di color castano medio, gambe di lunghezza media, naso a distanza media dalle orecchie e via dicendo. Ed era solo. A parte un falco che si librava alto e pochi storni sopra i campi ai lati della strada, Reynie era completamente solo.
Poteva benissimo sembrare che si fosse smarrito e fosse lontano da casa, e in effetti era una mezza verità. O almeno così piaceva pensare al ragazzo. Aveva appena deciso che la sua attuale situazione si poteva descrivere tutta in termini di metà: si trovava a metà strada dalla periferia di Stonetown, dove viveva; a mezzo chilometro di distanza dal paese più vicino; e, a detta dell’uomo che gli aveva fornito le indicazioni, a mezzo chilometro di distanza dalla destinazione. Soprattutto, però, era passato mezzo anno dall’ultima volta che aveva visto i suoi tre migliori amici.
Reynie socchiuse gli occhi al sole. Poco più avanti la strada risaliva una ripida collina, proprio come aveva detto l’uomo al paese. Oltre la collina avrebbe trovato la fattoria. E alla fattoria ci sarebbe stata Kate Wetherall.
Allungò il passo. Da un minuto all’altro avrebbe rivisto Kate. E Sticky Washington sarebbe arrivato entro sera. E il giorno dopo sarebbero tornati a Stonetown per incontrare… be’, per incontrare Constance Contraire, ma gli andava bene pure quello. Perfino il pensiero dei suoi insulti in rima baciata rendeva felice Reynie. Constance poteva anche essere un piccolo genio impudente, ma era una delle poche persone al mondo su cui poteva contare, una vera amica. Constance, Kate e Sticky erano come una famiglia per lui. Li aveva conosciuti solo un anno prima, e la loro amicizia era nata in circostanze straordinarie.
Si mise a correre.
Pochi minuti dopo ansimava come un cucciolo sulla cresta della collina, le mani sulle ginocchia. Scoppiò a ridere. In fin dei conti lui non era Kate: lei probabilmente avrebbe fatto tutta la strada di corsa e senza una goccia di sudore. (A dire il vero, ci sarebbe riuscita anche correndo sulle mani.) Le doti di Reynie non erano di genere fisico (era nella media anche sotto questo aspetto). Rimase ad asciugarsi la fronte con il fiato grosso mentre contemplava la fattoria davanti a sé.
Così quella era la casa di Kate: una fattoria e un granaio dipinti di fresco, un vecchio furgone nell’aia, un piccolo pollaio bianco, un recinto con pecore e capre, oltre il quale si intravedeva una distesa di pascoli ondulati. Oltre il vialetto c’era un frutteto, con pochi alberi carichi di grosse mele, alcune già rosse ma per la maggior parte acerbe. La fattoria aveva ancora bisogno di molto lavoro, aveva detto Kate in una delle sue lettere. Il che equivaleva a quasi tutto quello che aveva detto. Le sue lettere non si potevano certo definire prolisse, anche se erano sempre allegre. Un po’ troppo allegre, in effetti: qualche volta gli davano l’impressione di essere l’unico a sentire la mancanza dei suoi amici.
Quando cominciò a scendere la collina, una campana risuonò fra gli edifici della fattoria. Tentò di scorgere Kate, ma vide soltanto pecore e capre uscire con ordine dal recinto rimasto aperto. Reynie si fermò un attimo, sorpreso. Avrebbe giurato che l’ultima capra si fosse girata a chiudere il cancello con il muso.
Aggrottò la fronte. La capra coscienziosa non era la prima cosa insolita che vedeva quella mattina. Si ricordò di qualcos’altro, qualcosa di curioso a cui, nel suo entusiasmo, non aveva badato molto. Si schermò gli occhi con la mano e scrutò il cielo. Il falco c’era ancora, e volteggiava basso. Riusciva a intravedere il piumaggio della testa, simile a una cuffietta nera. Reynie non si intendeva molto di uccelli (per quanto se ne intendesse più della maggior parte della gente), ma era sicuro che si trattasse di un falco pellegrino.
Sorrise e allungò di nuovo il passo. Stava succedendo qualcosa di strano, e non vedeva l’ora di scoprire cosa.
Il granaio era più vicino della casa, perciò andò subito a sbirciare dalla porta aperta, nel caso Kate fosse lì. Quando gli occhi si abituarono alla penombra dell’interno, ecco la familiare coda di cavallo bionda, le spalle forti, il secchio rosso. Era Kate, di sicuro. Aveva le mani sui fianchi e fissava la parete opposta. Reynie fu tentato di avvicinarsi di soppiatto, ma ci ripensò. Avvicinarsi all’amica di soppiatto probabilmente era una pessima idea, e poi non voleva disturbarla. Pareva concentratissima. Reynie non vedeva nulla sulla parete del granaio e pensò che la sua concentrazione fosse tutta interiore. Forse rifletteva su un nuovo attrezzo da aggiungere al suo secchio.
A un tratto Kate si piegò in due e cominciò a tossire. Poi a sputacchiare. E infine a emettere orribili conati. Vomitava? Reynie stava per correrle in soccorso, quando lei gridò per la frustrazione e batté il piede a terra. «Oh, no! Un’altra volta no!» protestò, drizzando la schiena. Poi si girò e vide l’amico.
«Non ho idea di cosa si sia trattato» disse il ragazzo, «ma ho la sensazione che lo troverò molto divertente!»
«Reynie!»
Kate gli si precipitò incontro, i vivaci occhi azzurri scintillanti per la contentezza. Reynie spalancò le braccia… e se ne pentì all’istante. Il saluto di Kate si rivelò più un placcaggio da rugby che un abbraccio, e mentre piombavano a terra Reynie si sentì mozzare il fiato in gola.
«Sei appena arrivato?» chiese la ragazza, rialzandosi sulle ginocchia. «Dove sono la signorina Perumal e sua madre? Perché ci avete messo tanto? Dovevate arrivare ieri. Ho controllato la lettera due volte.»
Reynie, ancora in preda alla sensazione di panico che si prova quando si rimane senza fiato, si sforzava di sorridere – o almeno di assumere un’espressione diversa da quella di un pesce fuor d’acqua – ma riuscì solo a muovere le labbra, incapace di emettere suoni.
«Cavolo, Reynie, sei senza parole!» esclamò Kate con una risata. Lo rimise in piedi di peso e cominciò a ripulirlo assestandogli sonore e dolorose pacche. «Lo so, sono eccitata anch’io. E non solo per la grande sorpresa del signor Benedict. Sono elettrizzata all’idea di rivedere voi ragazzi! Non sai che delusione quando non vi siete fatti vivi ieri sera.»
Recuperato il fiato, Reynie spiegò: «Non sei l’unica a esserci rimasta male. La macchina ha avuto un guasto e ci è toccato farla rimorchiare in paese. Abbiamo passato la notte al motel».
«Il motel del paese? Se lo avessimo saputo, saremmo venuti a prendervi col furgone.»
«Mi dispiace, avrei chiamato, ma dato che non avete telefono…»
Kate sbuffò. «Milligan e le sue regole! Sai quanto gli voglio bene ma, onestamente, alcune delle cose su cui insiste tanto…»
«Comunque» la interruppe Reynie, «non ce la facevo ad aspettare che l’auto fosse pronta. Perciò con il permesso di Amma» così chiamava la signorina Perumal, la sua ex insegnante individuale e ora madre adottiva «e le indicazioni del meccanico, eccomi qua. Amma e Pati arriveranno non appena la macchina riparte.»
Kate lo afferrò per il braccio, la faccia corrugata per la preoccupazione (un’espressione insolita per lei, che non era un tipo ansioso). «Pensi che ci staremo tutti e tre nella vostra auto? Cioè, oltre alla signorina Perumal, a sua madre e a tutti i bagagli? Vengono anche i genitori di Sticky, e loro hanno una macchina minuscola. Non posso nemmeno immaginare che uno di noi passi sei ore separato dagli altri, non dopo sei mesi di lontananza!»
«Abbiamo noleggiato una station wagon. Ci sarà un sacco di spazio. Ma, ascolta» disse Reynie, alzando la mano per interrompere l’amica, che aveva già ricominciato a parlare, «prima che ci allontaniamo troppo dall’argomento, non vuoi dirmi cosa stavi facendo? L’ultima volta che ho sentito dei versi del genere era il gatto dell’orfanotrofio che vomitava una palla di pelo.»
«Oh, quello?» Kate scrollò le spalle. «Mi sto addestrando a rigurgitare le cose, ma è molto più difficile di quanto si pensi.» All’espressione inorridita di Reynie, si affrettò a spiegare: «È un vecchio trucco da illusionisti, tipo Houdini e compagnia bella. Inghiottivano qualcosa, per esempio un attrezzo per forzare le serrature, e poi usavano i muscoli della gola per risputarlo fuori. Ci si dovrebbe addestrare con uno spago legato all’oggetto che si inghiotte, così si riesce a tirarlo fuori meglio. All’inizio l’ho fatto, ma poi ho pensato di poterci riuscire senza. Però non è andata, finora».
«Allora avevo ragione» commentò Reynie. «È divertente sul serio. Ma non è pericoloso?»
Kate torse la bocca. Non ci aveva mai pensato. Non era tipo da preoccuparsi molto dei pericoli. «Immagino che non sia la cosa più sicura al mondo» ammise, e con uno sguardo serio aggiunse: «È meglio che tu non ci provi».
Reynie rise (niente avrebbe mai potuto indurlo a provare una cosa del genere), quindi finse uno sguardo altrettanto serio e disse: «Va bene, Kate, prometto di non inghiottire mai un… A proposito, cos’hai inghiottito?».
Kate alzò gli occhi al cielo e liquidò la domanda con un gesto vago. «Non ne voglio parlare.»
«E poi… ehi, che fine farà, adesso?» insisté Reynie, di nuovo inorridito. «Voglio dire, dal momento che non sei riuscita a…?»
«Non ne voglio parlare, okay?» tagliò corto la ragazza.
Avevano un sacco di altre cose di cui parlare. Non solo Kate voleva mostrare a Reynie la fattoria, ma moriva dalla voglia di sapere cosa pensava della grande sorpresa che il signor Benedict aveva progettato per loro. Era passato un anno esatto da quando li aveva reclutati per una missione segreta – una missione che solo ragazzi straordinari avrebbero potuto compiere – e adesso, per l’anniversario del loro primo incontro, aveva organizzato una rimpatriata nella sua casa di Stonetown. In una delle sue lettere aveva spiegato: “Troverete una sorpresa che spero farà piacere a tutti voi, una sorpresa che, per quanto esprima in modo inadeguato la mia gratitudine, oltre al grande affetto che provo per voi, mi è parsa un’appropriata…”. E continuava su questo tono per un bel po’, dilungandosi sulle eccezionali qualità dei ragazzi e su quanto desiderasse rivederli. Kate aveva dato una scorsa alla lettera e l’aveva messa via. Reynie l’aveva letta diverse volte e imparata a memoria.
«L’hai imparata tutta?» disse Kate, precedendo l’amico su una scala a pioli per mostrargli il fienile. «Cominci a somigliare a Sticky.»
«A Sticky sarebbe bastato leggerla una volta sola» ribatté lui. Era verissimo, anche se Reynie aveva nominato l’amico per distogliere l’attenzione da se stesso. Il fatto era che aveva imparato a memoria tutte le lettere ricevute negli ultimi sei mesi, non solo quelle del signor Benedict, ma anche i vivaci messaggi di Kate, i resoconti un po’ noiosi ma estremamente fedeli di Sticky e perfino le assurde poesiole di Constance. Reynie era molto imbarazzato per il modo in cui si era attaccato a ogni parola degli altri, anche se nessuno aveva mai accennato di sentire la sua mancanza.
«A proposito di Sticky» disse Kate, tirando su Reynie dalla botola del fienile, «hai avuto sue notizie ultimamente? Mi ha detto che voi due vi scrivete spesso. E che tu ti prendi la briga di rispondere alle sue domande, al contrario di certe amiche di sua conoscenza. Non credo che si renda bene conto della mia situazione. Ecco, questo è il fienile.»
Reynie si guardò intorno. Il fienile non era diverso da quelli che aveva già visto – li aveva guardati solo nei film o in fotografia, questo va detto – ma Kate sembrava andarne molto fiera, perciò annuì prima di chiedere: «Di cosa non si rende conto Sticky? Riguardo alla tua situazione, voglio dire».
«Be’, tanto per cominciare» replicò Kate, spalancando la porta esterna che si affacciava sul recinto degli animali, «ho avuto parecchio da fare, non solo con la scuola, ma anche con la fattoria. Per rimetterla in sesto e farla ripartire, sai. Milligan è spesso in missione, e io devo dare una mano.»
Reynie lo sapeva bene. Milligan era il padre di Kate, oltre che un agente segreto. Fino a poco tempo prima tutti ignoravano le due cose, perfino Kate, la quale era ancora molto piccola quando lui era stato catturato in missione, aveva perso la memoria e non era più tornato. Poiché la madre era morta e il padre l’aveva abbandonata (o perlomeno così credevano tutti), Kate era stata mandata in orfanotrofio, che presto aveva lasciato per il circo. Milligan, dal canto suo, era fuggito dai suoi carcerieri e si era messo a lavorare per il signor Benedict. Finché un anno prima, grazie al provvidenziale intervento di quest’ultimo, i due non si erano ritrovati e Kate aveva scoperto la verità.
«La fattoria era davvero caduta a pezzi nel corso degli anni» stava raccontando Kate. «C’è stato tanto lavoro da tenermi occupata ventiquattr’ore su ventiquattro. Non che il lavoro mi dispiaccia, naturalmente. Trovo molto più difficile starmene seduta abbastanza a lungo per scrivere una lettera. Sticky dovrebbe saperlo, no?»
«Probabilmente sì» ammise Reynie. Si avvicinò alla porta. Kate stava frugando nel suo secchio (aveva un nuovo coperchio, notò Reynie) per tirare fuori qualcosa e portarselo alle labbra. Sembrava un fischietto. La ragazzina tuffò di nuovo la mano nel secchio.
«Ma il vero problema delle lettere» continuò Kate, parlando col fischietto in bocca mentre si infilava uno spesso guanto di cuoio «è che il governo legge tutta la mia posta. Per via che sono la figlia di un superagente. Devono accertarsi che non spifferi niente. È già abbastanza brutto che abbiano tenuto segreta la nostra missione – a quest’ora dovremmo essere famosi per quanto abbiamo fatto! – ma non poter nemmeno mandare lettere personali ai miei migliori amici… è pazzesco!»
E come per dimostrare la propria indignazione, Kate gonfiò le guance e soffiò con for...