La chiamata arrivò sul telefono fisso, attraverso una rete vecchia di almeno vent’anni che aveva resistito a tutti i progressi tecnologici. Rispose una receptionist tatuata di nome Felicity, una ragazza nuova che se ne sarebbe andata prima di aver capito come funzionavano le linee. Sembrava se ne andassero tutti, soprattutto gli impiegati. Il ricambio era continuo e assurdo. Il morale basso. La Commissione disciplinare giudiziaria si era appena vista tagliare i fondi per il quarto anno di fila da un governo che sapeva a malapena della sua esistenza.
Felicity riuscì a inoltrare la telefonata alla scrivania sommersa di scartoffie di Lacy Stoltz. «C’è una chiamata sulla linea tre» annunciò.
«Chi è?» volle sapere Lacy.
«Boh. È una donna.»
Non il miglior modo di rispondere. Al momento, però, Lacy era annoiata, e non aveva intenzione di sprecare l’energia emotiva che sarebbe servita per riprendere adeguatamente la ragazza e per metterla in riga. Le abitudini e i protocolli stavano andando a rotoli. La disciplina dell’ufficio veniva meno mentre la CDG sprofondava in una spirale di caos senza guida.
In quanto veterana, la veterana, era importante che Lacy desse l’esempio. Ringraziò, premette il tasto con la lucina intermittente e rispose. «Lacy Stoltz.»
«Buon pomeriggio, Miss Stoltz. Ha un minuto?»
Voce femminile, educata, senza tracce di accento, sulla quarantina abbondante, diciamo quarantatré. Lacy faceva sempre il gioco delle voci. «Con chi ho il piacere di parlare, prego?»
«Per adesso mi chiamo Margie, ma uso anche altri nomi.»
Lacy, divertita, per poco non si lasciò sfuggire una risatina. «Be’, almeno è sincera. Di solito ci metto un po’ a districarmi tra i nomi falsi.»
Le chiamate anonime erano all’ordine del giorno. Le persone che volevano contestare qualcosa ai giudici erano sempre guardinghe e poco convinte a farsi avanti e affrontare il sistema. Quasi tutti temevano ripercussioni dall’alto.
Margie disse: «Vorrei parlarle in privato, in un posto tranquillo».
«Il mio ufficio lo è, se le va.»
«Oh no» scattò subito la donna, che sembrava spaventata. «Non va bene. Conosce il Siler Building, lì vicino?»
«Certo» rispose Lacy mentre andava alla finestra per osservarlo: era una delle tante sedi anonime del governo nel centro di Tallahassee.
«Al piano terra c’è una caffetteria. Possiamo trovarci là?»
«Direi di sì. Quando?»
«Adesso. Sono già al secondo latte macchiato.»
«Aspetti un attimo. Cinque minuti e arrivo. E come fa a riconoscermi?»
«L’ho vista sul sito. Sono in fondo, lato sinistro.»
L’ufficio di Lacy era davvero un posto tranquillo. Alla sua sinistra c’era una stanza vuota, lasciata libera da un ex collega che si era trasferito in un’agenzia più grande. L’ufficio dall’altra parte del corridoio era stato convertito in ripostiglio di fortuna. Andò verso Felicity e infilò la testa nello studio di Darren Trope, che lavorava lì da due anni e stava già cercando un altro posto.
«Sei impegnato?» gli chiese, interrompendo qualsiasi cosa stesse facendo.
«Non particolarmente.» Non importava cosa stava o non stava facendo. Se Lacy aveva bisogno di qualcosa, Darren doveva obbedirle.
«Mi serve un favore. Sto andando al Siler per incontrare una sconosciuta che ha appena ammesso di usare un nome falso.»
«Uh, mi piacciono i misteri. Di certo è meglio che starmene qui a leggere di un giudice che ha fatto qualche commento lascivo a una testimone.»
«Quanto lascivo?»
«Abbastanza esplicito.»
«Foto, video?»
«Non ancora.»
«Fammi sapere se riesci a procurarteli. Allora, ti va di raggiungermi tra un quarto d’ora e scattare qualche foto?»
«Certo. Nessun problema. Hai idea di chi sia?»
«Zero.»
Lacy uscì dall’edificio, fece lentamente il giro dell’isolato, si godette una boccata di aria fresca ed entrò nell’atrio del Siler Building. Erano quasi le quattro del pomeriggio e non c’erano altri clienti che bevevano caffè a quell’ora. Margie era seduta a un tavolino in fondo alla sala, sulla sinistra. Fece un cenno di saluto rapido, come per non farsi notare. Lacy sorrise e le andò incontro.
Afroamericana, sulla quarantina abbondante, professionale, attraente, istruita, pantaloni e tacchi. Era più elegante di Lacy, anche se ultimamente alla CDG era concesso qualsiasi tipo di abbigliamento. Il vecchio capo pretendeva una tenuta formale, ma era andato in pensione da due anni e quasi tutte le regole se n’erano andate con lui.
Lacy passò davanti al bancone dove la barista, con i gomiti appoggiati al piano di formica, oziava completamente rapita dal cellulare rosa che stringeva tra le mani. Non alzò lo sguardo, non si diede la pena di salutare la nuova cliente, e Lacy decise che avrebbe rinunciato comunque a un’altra dose di caffeina.
Senza alzarsi, Margie allungò una mano e disse: «Piacere di conoscerla. Vuole un caffè?».
Lacy sorrise, le strinse la mano e sedette al tavolino quadrato. «No, grazie. Margie, giusto?»
«Per adesso.»
«Okay, cominciamo male. Perché usa un nome falso?»
«Mi ci vorranno ore per raccontarle la mia storia, e non sono sicura che voglia ascoltarla.»
«E allora che bisogno c’era di chiamarmi?»
«Ascolti, Miss Stoltz…»
«Lacy.»
«Ascolta, Lacy. Non hai idea del trauma emotivo che ho subito per arrivare a questo punto della mia vita. Adesso sono a pezzi, okay?»
Sembrava stesse bene, giusto un po’ tesa. Forse era il secondo latte macchiato. I suoi occhi saettavano di qua e di là. Erano graziosi e incorniciati da una spessa montatura viola, anche se probabilmente le lenti erano di figura. Gli occhiali facevano parte del personaggio, un ingegnoso travestimento.
«Non so bene cosa dire. Perché non cominci a raccontarmi qualcosa?» fece Lacy.
«Ho letto di cosa ti sei occupata.» Si chinò a frugare in uno zaino da cui estrasse con gesto abile un dossier. «La storia del casinò indiano, qualche anno fa. Hai scoperto una giudice che faceva la cresta sugli incassi e l’hai inchiodata. Un giornalista l’ha definito il più grosso scandalo di corruzione nella storia della giurisprudenza.» Il fascicolo era spesso tre dita e dava l’impressione di essere organizzato in modo impeccabile.
A Lacy non sfuggì la parola “giurisprudenza”. Strano per una persona non addetta ai lavori.
«È stato un caso importante» replicò, fingendo modestia.
«Importante?» fece Margie, sorridendo. «Hai smantellato un’associazione per delinquere, inchiodato la giudice e spedito un po’ di gente in prigione. Sono ancora tutti dentro, immagino.»
«Vero, ma non me ne sono occupata da sola. L’FBI ha avuto un ruolo essenziale. Era un caso complicato, ci sono stati anche dei morti.»
«Incluso il tuo collega Hugo Hatch.»
«Sì, incluso lui. Curioso. Perché tutte queste ricerche su di me?»
Margie giunse le mani e le appoggiò sul dossier, che non aveva aperto. Gli indici le tremavano lievemente. Lanciò un’occhiata all’ingresso e si guardò di nuovo attorno, anche se nessuno era entrato, nessuno era uscito, nessuno si era mosso, nemmeno la barista persa nel suo mondo. Bevve un sorso dalla cannuccia. Se davvero era il suo secondo latte macchiato, era quasi intatto. Aveva usato la parola “trauma”. Ammesso di essere “a pezzi”. Lacy si rese conto che quella donna era spaventata.
«Oh, non le definirei “ricerche”» disse Margie. «Solo roba trovata online. Sai, è tutto di dominio pubblico.»
Lacy sorrise e cercò di essere paziente. «Non sono sicura che stiamo andando al punto.»
«Tu indaghi sulla cattiva condotta dei giudici, giusto?»
«Esatto.»
«Da quanto tempo?»
«Scusa, ma cosa c’entra?»
«Per favore.»
«Dodici anni.» Dirlo era come ammettere una sconfitta. Sembravano tantissimi.
«Come te li assegnano i casi?» la incalzò Margie.
Lacy fece un respiro profondo e ricordò a se stessa di portare pazienza. Spesso le persone sul punto di sporgere una denuncia erano scosse. Sorrise e disse: «Be’, di solito chi vuole fare un reclamo nei confronti di un giudice ci contatta e fissiamo un incontro. Se la sua storia ci sembra fondata la persona in questione sporge una denuncia formale, che manteniamo segreta per quarantacinque giorni mentre ci occupiamo di fare le nostre ricerche. Lo chiamiamo “accertamento”. Nove volte su dieci la cosa finisce lì e la denuncia viene ritirata. Se invece troviamo indizi sospetti lo notifichiamo al giudice accusato, che ha trenta giorni per rispondere. Di solito si conclude tutto con un processo. E noi indaghiamo, partecipiamo alle udienze, presentiamo i testimoni e via dicendo».
Mentre Lacy parlava, Darren entrò nel locale, disturbò la barista ordinando un decaffeinato, attese ignorando le due donne e portò il caffè a un tavolino dall’altra parte della sala, dove aprì un laptop e cominciò a occuparsi di quello che sembrava un lavoro importante. Senza dare nell’occhio posizionò la fotocamera del portatile in direzione della schiena di Lacy e della faccia di Margie, zoomò per ingrandire l’immagine e cominciò a filmare. Fece un video e qualche scatto.
Se Margie lo notò non lo diede a vedere.
Ascoltava Lacy con attenzione. «Succede spesso che un giudice sia rimosso dall’incarico?» chiese.
Di nuovo, che cosa c’entrava? «Non molto spesso, per fortuna. Abbiamo giurisdiz...