QUEL GIORNO NEL RIONE apparvero dei segni premonitori che avrebbe potuto notare chiunque. Di certo i bambini avevano già intravisto il pericolo riflesso nei loro giocattoli, nelle mezzelune di latta ritagliate alla bell’e meglio, attaccate ai bastoni con la lenza e lasciate penzolare per creare ombre contro il sole pallido. Come loro, sapevo bene anch’io che a causa del festival della luna la milizia si sarebbe schierata al completo nel tentativo di raggiungere la propria quota di arresti. E i miliziani sarebbero riusciti a scoprire un numero più che sufficiente di infrazioni nel Rione, dall’ubriachezza all’abbigliamento sconveniente o a uno dei tanti altri reati che è facile commettere quando si è Mezza Stirpe.
Forse sarei dovuta stare più attenta fin dal momento in cui scorsi l’uccello dalla finestrella della mia freddissima cameretta nel solaio della taverna, tanto gelida che ero andata a dormire vestita da capo a piedi. A Ethin – è un nome grazioso per una città, e la città era graziosa davvero, per le persone giuste – di solito fa caldo: nelle crepe dei muri scalcinati crescono addirittura i piccoli fiori viola di indi. Le loro sottili dita verdi si conficcano profondamente nella pietra e il loro profumo penetrante permea l’aria calda. Eppure, di quando in quando, da ovest spira un vento che gela le ossa a tutti, Mezza Stirpe, Alta Stirpe o Mediocriti che siano. Si dice che lacrime di grandine arrivino a costellare le spiagge di sabbia rosata fuori città e che gli alberi al di là delle mura si ingioiellino di perle di ghiaccio trasparente. Alle feste all’aperto, gli Alta Stirpe bevono cioccolata calda amara e le loro risate si trasformano in pizzi candidi nell’aria gelida.
Io non avevo mai visto la spiaggia e non sapevo se la cioccolata mi sarebbe piaciuta. Non avevo neppure mai visto un albero.
A svegliarmi fu il timbro di quell’uccello. Il suo canto era limpido, luminoso, aveva il suono di un filo di perle di vetro gettate su un pavimento lucido. Pensai, Impossibile, e Non qui, e Quell’uccello morirà tra poco. Forse in quel momento avrei dovuto immaginare in che modo sarebbe andata a finire la giornata, ma come avrei potuto? Non potevo intuirlo, né quando mi avvicinai al vetro e asciugai con il palmo della mano i pizzi di brina né quando premetti le unghie nel telaio della finestra danneggiato dall’umidità che spesso penetrava all’interno ed erodeva il legno, sfaldandolo. Quando scorsi quel lampo rosso guizzare tra i tetti marroni e bianchi, non ero in grado di prevedere cosa sarebbe successo poi, perché pensavo di conoscere me stessa e di sapere cosa potevo fare e cosa avrei dovuto evitare.
Ecco ciò in cui credevo.
Avrei fatto quel che ci si aspettava da me.
Ormai potevo fidarmi di me stessa.
Le persone di cui sentivo la mancanza non sarebbero più tornate.
Se i miei crimini fossero stati scoperti, sarei morta.
Dunque, dimmi tu cosa può spingere una ragazza assennata e tranquilla a cacciarsi nei guai, soprattutto se sa di avere così tanto da perdere.
Dimmelo tu.
«LO POTREBBE CATTURARE CHIUNQUE.»
«Ma con la ressa che c’è per il festival, non ci penserà neanche ad atterrare.»
«È vero. Bisognerà arrampicarsi.»
«Sì, sopra ai tetti.»
Avvolsi il lembo del grembiule intorno alla maniglia rovente del forno e lo aprii. Mi investì un alito caldo. Le voci di Morah e di Annin si fecero più concitate. In esse percepivo una sfumatura di desiderio, quel tipo di speranza impossibile che si maneggia come se fosse una cosa preziosa. Le si dà rifugio nel proprio cuore, preparandole un letto di piume e nutrendola con i cibi migliori, benché i bocconi imbanditi siano pezzi strappati alla propria anima.
Non era l’uccello elisio che volevano, ma ciò che avrebbero potuto ottenere grazie a esso.
«Ce la farebbe anche un bambino» aggiunse Annin. «Ho visto spesso i bambini sgattaiolare su per le case, lungo le grondaie.»
Potevo immaginare cosa stesse pensando: di essere abbastanza leggera da provarci lei stessa. Io soffro di vertigini, l’altitudine mi mette lo stomaco sottosopra; anche se mi trovo su una superficie stabile, stare in alto mi dà l’impressione che nulla sia sicuro. È come se non potessi fidarmi di niente al mondo, tranne della certezza che sto per cadere. Scrutai l’espressione scaltra di Annin e mi dissi che io non sarei mai stata capace di fare ciò a cui stava pensando lei. Mi dava fastidio anche solo immaginare lei intenta ad arrampicarsi sui tetti.
Morah scosse il capo bruno. «Ma appena il ladro scenderà con l’uccello in mano, qualcuno giù in strada gli piomberà addosso e glielo porterà via.»
In fondo al forno il fuoco, rimasto acceso tutta la notte, ardeva rosso cupo; risucchiò la corrente d’aria fresca e avvampò d’arancio. Spazzai la cenere dentro a un secchio e poi usai una dopo l’altra le lunghe pale di legno per infornare il pane. Le pagnotte, simili a cuscini color crema, erano ornate con disegni delicati, intagliati nella superficie della pasta, che si sarebbero rivelati solo più tardi, durante la cottura, rendendo ogni forma diversa dalle altre. Sui pani cotti apparivano scene di pioggia, castelli di fiaba, ritratti di volti graziosi, fiori, animali in corsa. Un’artista, così mi chiamava a volte Annin. Se solo avesse saputo.
Chiusi lo sportello del forno e mi pulii le mani infarinate. «Finirà per congelarsi prima che lo prendano.» L’elisio domestico di certo era scappato a una signora Alta Stirpe e non era abituato alla vita fuori dalla gabbia.
«Anche morto vale una bella sommetta» disse Morah.
Annin assunse un’espressione addolorata. La sua carnagione era inusuale per una herrath, più pallida del comune, quasi lattea, e aveva le guance e le palpebre spruzzate di lentiggini. C’era una certa fragilità nei suoi tratti – ciglia bionde, occhi color fiordaliso, la bocca piccola con gli angoli vezzosamente curvati verso l’alto –, che le donava un’aria più giovane della mia, benché avessimo più o meno la stessa età.
«Snocciola le ciliegie» le dissi. «Ne ho bisogno per le torte.» Che fortuna per la taverna avere una cesta di ciliegie. Chissà come aveva fatto Raven a procurarsele. Al mercato nero, probabilmente. Lei aveva contatti con Mediocriti interessati a barattare merci di quel tipo con oggetti prodotti nel Rione. Non era affatto lecito: proprio come a noi Mezza Stirpe non era permesso indossare determinati abiti riservati alle caste superiori, così non potevamo mangiare certi cibi. Il cibo dei Mezza Stirpe era scipito ma riempiva la pancia, e il Concilio municipale si preoccupava che nessuno morisse di fame. Ma non avevamo nulla di gustoso, di acido, speziato o dolce.
Le ciliegie invernali non avrebbero avuto bisogno di zucchero, erano già perfette così: sfere d’oro pallido dalle bucce lucide che poi si scioglievano in forno. Avevo voglia di assaggiarne una. Me la sarei potuta infilare in bocca di nascosto, i denti avrebbero morso la sua polpa fino al nocciolo duro e il succo dolce come il miele mi avrebbe inondato il palato.
La cucina era piena di desideri.
«L’elisio non morirà, è l’uccello degli dèi» commentò Annin.
Morah sbuffò. «Gli dèi non esistono.»
«Se morisse, scomparirebbe» ribatté Annin. «Non se ne potrebbe più far nulla.»
Mentre lei asciugava i piatti, Morah e io ci scambiammo un’occhiata. Morah era più vecchia di me e di Annin, abbastanza da avere figli già alti quasi quanto lei. Anche il suo modo di fare dava l’impressione che un bambino invisibile le stesse accanto; i suoi gesti erano sempre attenti e spesso il suo sguardo controllava che nulla di ciò che aveva intorno fosse pericoloso, che le fiamme non si alzassero troppo o che i coltelli non giacessero a portata di piccole dita. Una volta avevo guardato nella sua direzione mentre sedeva al tavolo e setacciava le lenticchie con una mano per scartare i gusci vuoti. Con l’altro braccio stringeva a sé un neonato. Ma, quando avevo guardato di nuovo, il bambino era scomparso.
Sapevo bene che era meglio non parlarne. Era stata una mia fantasia. Dovevo stare attenta: a volte si radicava dentro di me un’idea – per esempio, che Morah sarebbe stata una brava mamma – e diventava sempre più reale, fino a quando vedevo la scena con chiarezza, come se fosse reale davvero. La fantasia prendeva il posto della realtà. Morah non aveva figli e aveva detto che non ne avrebbe mai avuti.
Mi assomigliava in un tratto che ci rendeva diverse da Annin: noi due sapevamo gestire le nostre speranze. Io perché non ne avevo, e lei perché immaginava che le sue mete fossero tutto sommato raggiungibili. Morah aveva probabilmente stabilito che un elisio, da morto, rappresentava un miracolo di gran lunga minore di un uccello vivo, e che quindi non le sarebbe stato impossibile mettere le mani su quel cadaverino di valore.
«Pensa alle piume» esclamò, «pensa alla carne.»
E alle ossa cave attraverso cui si può soffiare per suonare una melodia ritmata.
Aggiunsi il burro a pezzetti alla farina. «L’elisio si trova là fuori, mentre noi siamo qui dentro.»
Annin aprì l’unica stretta finestra della cucina e il freddo si riversò all’interno come una secchiata d’acqua. Morah borbottò, seccata, ma io non dissi nulla; guardare Annin, intuire la sua speranza, mi procurava dolore. La curva ostinata del suo mento mi ricordava Helin.
Annin spazzò le briciole dal piano di lavoro e se le raccolse in mano. Non la guardai quando si avvicinò alla finestra, non riuscivo a farlo. Avevo un nodo in gola, vedevo cose che non c’erano; erano cose che volevo scordare.
Annin sparpagliò le briciole sul davanzale della finestra aperta.
«Non si sa mai» disse.
SI DICE CHE IL CANTO dell’uccello elisio faccia sognare.
Si dice che in quei sogni si possa porre rimedio al passato, addolcire i ricordi pungenti, spolverarne i dettagli e sfocarli con i pastelli, come quando si sfumano le matite colorate con il polpastrello. Sogni che rendono insignificante ciò che manca nella tua vita, perché all’improvviso ti affascina ciò che è presente.
Immagina se le stelle splendessero molto più vicine a te, simili a spuntoni di ghiaccio. Immagina il semplice conforto della tua coperta di tutti i giorni divenuta meravigliosamente soffice; come faresti a sfilartela di dosso, se fosse morbida come la pelliccia di un animale mitologico capace di leggere i tuoi pensieri e che ti conosce da prima della tua nascita?
Il canto dell’elisio possiede la grazia del primo sorriso di una madre.
Uno sconosciuto gentile che ti sfiora per toglierti via la pioggia dalle spalle.
Un aquilone che vola sulla spiaggia di Illim, e il cielo che occhieggia attraverso la velatura in sottili strisce azzurre dal colore tanto compatto che hai l’impressione di poterle raccogliere e portare a casa.
Quando ti accorgi che le braccia che ti stringono si stanno appesantendo per il sonno.
Si dice che l’ucc...