Seamus Heaney a Belfast nel 2003.
1. SCAVARE E SCRIVERE
Seamus Heaney amava riassumere il cammino di poesia che aveva compiuto negli ultimi cinquant’anni della sua vita come un cerchio che va dalla penna alla penna e, d’altro canto, come un percorso lineare, di gradini (stepping stones), dalla terra al vento. Le due cose non sono affatto in contraddizione tra di loro, ma vanno piuttosto lette in maniera complementare. La fedeltà alla penna va ostinatamente, caparbiamente ribadita da un poeta che si trova a vivere nell’Irlanda della fine del XX secolo, squassata dalla violenza settaria e da una feroce polemica politica.1 È la penna che permette di «scavare» nella terra e poi, dopo un lungo cammino, di sentire e dare voce al vento. Ce lo dice, Heaney, nella prima e nell’ultima composizione del Meridiano di Poesie «scelte e raccolte dall’Autore», Scavare e Sul dono di una penna stilografica.2 Le radici dello scavo risiedono nel mestiere di contadino del padre e del nonno, entrambi abili con la vanga, l’uno tra «i solchi di patate», l’altro nel taglio della torba. «L’odore freddo del terriccio sulle patate, il risucchio e lo schiaffo / della torba impregnata» scriveva Heaney nella prima composizione di Morte di un naturalista, la prima raccolta poetica pubblicata nel 1966, «i tagli netti di una lama / su radici vive mi si ridestano nella mente»: «Ma non ho vanga per seguire uomini come loro. // Tra il mio pollice e indice riposa / la tozza penna. Scaverò con questa».
In quella memoria olfattiva e visiva, nel ricordo del «risucchio» e dello «schiaffo» della torba, nell’evocazione delle «radici vive» affonda la vanga poetica: la penna. Nell’ultima composizione, tuttavia, la vanga è sostituita dalla zappa. Sono trascorsi, appunto, cinque decenni, «gli anni / di tutti gli altri doveri / imposti o intrapresi». Lo scrittore ha paura «che cessino le poesie» e s’interroga, ricordando il Vangelo, sul compimento etico del proprio mestiere: «Tutto quel “Fa’ agli altri / ciò che vorresti fosse fatto a te” / un errore? Virtù?». La risposta è «Sì e no». L’unica cosa che veramente conti è la penna – intingerla, riempirla, ricominciare: «dopo la vanga, la zappa». I due attrezzi hanno funzioni limitrofe, ma diverse: la prima serve appunto a scavare sino alle radici, la seconda a rivoltare il terreno, a dissodarlo. La vanga è la penna che torna alle origini, la zappa la penna che su di esse s’interroga, che le esamina in meditazione, nel tempo. La prima è un manifesto poetico, la seconda immerge quel manifesto nella vita, nell’esperienza, nelle domande esistenziali che si possono porre su di esse a posteriori.
Sin dall’inizio, sin da Morte di un naturalista, l’originalità della voce di Heaney appare prorompente. Nessun poeta prima di lui – non gli antichi che egli ama, neppure il romantico John Clare che celebra in un saggio di La riparazione della poesia – ha mai evocato la natura e il mestiere di colui, il contadino, che con essa più direttamente ha avuto a che fare per decine di millenni, in maniera così attenta ai fenomeni più piccoli e profondi della prima, e ai particolari minimi dell’attività del secondo: «l’odore freddo delle patate»; «la bava tiepida e spessa / delle uova di rana che crescevano come acqua coagulata / all’ombra degli argini»; il granaio dove
Thrashed corn lay piled like grit of ivory
Or solid as cement in two-lugged sacks.
The musty dark hoarded an armoury
Of farmyard implements, harness, plough-socks.
Il frumento trebbiato era ammassato come graniglia d’avorio
o solido come cemento in sacchi con due orecchie.
L’oscurità stantia raccoglieva un arsenale
di attrezzi da cortile, bardature, vomeri.3
E poi ecco venire le more che in agosto appaiono, «all’inizio, solo una, un lucente grumo viola / in mezzo ad altri, rossi, verdi, duri come nodi» («La mangiavi e la polpa era dolce / come vino addensato: aveva dentro il sangue dell’estate / che lasciava macchie sulla lingua e brama / di raccolta»), ma che poi fermentano, divengono aspre, puzzano di marcio; lo sbattimento della crema di latte nel cilindro di legno (la «zangola») per la produzione del burro.
La poesia di Heaney non è facile: richiede una conoscenza tecnica della civiltà contadina che il mondo di oggi ha perduto; vuole attenzione alle immagini (si sarà notato come in Morte di un naturalista la natura appaia nei suoi momenti di marcescenza); e un udito pronto a lasciarsi colpire dai suoni brevi e duri dell’inglese più antico, anglo-sassone, germanico o scandinavo. In Scavare, per esempio, squat, snug, rump, drills, boot, lug: «snug as a gun», recita l’originale della penna, «sicura come una pistola»: e la successione di quei sostantivi quasi mai accompagnati da aggettivi suona come una sequenza di colpi secchi di pistola.4
La tecnica, nel lavoro del contadino e in quello dello scrittore, fa tutt’uno con la scoperta di sé. «Da bambino non mi potevano tenere lontano dai pozzi» scriveva Heaney in Elicona personale «e vecchie pompe con argano e secchio. / Adoravo la discesa nel buio, il cielo intrappolato, gli olezzi / d’erbaccia acquatica, funghi e umido muschio». Adesso, invece, adesso che è adulto e poeta, «curiosare tra radici, tastare il limo, / contemplare, Narciso dai grandi occhi, qualche sorgente / va oltre ogni dignità di adulto. Rimo / per potermi vedere, per rendere il buio echeggiante».5 La perfezione del mestiere è assolutamente necessaria. Ancora una volta, il poeta lo indica con la tecnica usata dal padre nell’arare: «un esperto», dichiara, che «predisponeva l’ala / e posizionava il vomere d’acciaio, lucente e appuntito», traguardava il terreno, calcolava «con esattezza il solco». Il bambino non voleva che esserne il seguace:
I wanted to grow up and plough,
To close one eye, stiffen my arm.
All I ever did was follow
In his broad shadow round the farm.
I was a nuisance, tripping, falling,
Yapping always. But today
it is my father who keeps stumbling
Behind me, and will not go away.
Volevo diventare grande e arare,
chiudere un occhio, tendere il braccio.
Tutto ciò che facevo era seguire
la sua larga ombra per la fattoria.
Ero un impiccio, inciampavo, cadevo,
guaivo sempre. Ma oggi
è mio padre che continua a seguirmi
incespicando, e non se ne vuole andare.6
La tecnica paterna con la terra deve farsi techne poetica del figlio, aratura (secondo un topos che risale al Medioevo) di parole. Una breve composizione di Morte di un naturalista va persino oltre. È dedicata al Rabdomante, The Diviner, chi trova l’acqua nella terra con la sua verga. Non c’è tecnica, qui, ma semmai professionalità assoluta: e un misterioso sentire, una strana magia (il ramoscello di nocciòlo), un miracolo:
Cut from the green hedge a forked hazel stick
That held tight by the arms of the V:
Circling the terrain, hunting the pluck
Of water, nervous, but professionally
Unfussed. The pluck came sharp as a sting.
The rod jerked down with precise convulsions,
Spring water suddenly broadcasting
Through a green aerial its secret stations.
The bystanders would ask to have a try.
He handed them the rod without a word.
It lay dead in their grasp till nonchalantly
He gripped expectant wr...