Le verità di Miracle Creek
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Le verità di Miracle Creek

  1. 384 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le verità di Miracle Creek

Informazioni su questo libro

Pak e Young Yoo, immigrati dalla Corea del Sud, non desiderano altro che un futuro migliore per la figlia adolescente, Mary. Insieme gestiscono una camera iperbarica, avanguardia sperimentale per la cura di alcune patologie, tra cui l'autismo e l'infertilità, e a Miracle Creek, piccola cittadina della Virginia in cui vivono, sono un faro di speranza per molte famiglie. La sera di un martedì di agosto, però, il macchinario esplode causando la morte di due persone. Sin dai primi sopralluoghi è chiaro che non si tratta di un incidente ma di un atto intenzionale. Chi ha appiccato l'incendio? La madre di uno dei piccoli pazienti, che, dopo aver detto di non sentirsi bene, è stata vista fumare al torrente? O gli stessi coniugi Yoo, decisi a incassare una grossa somma dall'assicurazione? O una delle manifestanti, secondo cui l'utilizzo della camera iperbarica è estremamente pericoloso? Miracle Creek è sconvolta. Il processo dura quattro interminabili giorni e porta alla sbarra cinque famiglie, mettendo a nudo le fragilità degli imputati, dell'accusa e dei testimoni. In un effetto domino di segreti e disvelamenti, l'eccellente scrittura di Angie Kim ci restituisce la complessità dei rapporti umani, tra il desiderio di protezione dei propri cari e la voglia di giustizia. Vincitore del Premio Edgar 2020 per il miglior esordio, Le verità di Miracle Creek mostra quanto sia sottile la linea che separa la verità dalla menzogna, investendo i lettori di un compito non facile: decidere dove tracciare il confine.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804687689
eBook ISBN
9788835714484

IL PROCESSO: GIORNO QUATTRO

Giovedì 20 agosto 2009

Janine

In base agli articoli che aveva trovato su Internet, sottoporsi alla macchina della verità sembrava una passeggiata: bastava sedersi e rilassarsi per rallentare il battito cardiaco e il ritmo del respiro, poi non c’era più niente di cui preoccuparsi! Ma non importava quanto a lungo restasse seduta in una posizione yoga, a immaginare onde oceaniche e inspirare profondamente. Ogni volta che i pensieri sfioravano appena il cellulare di Matt (per non parlare della telefonata), il suo sangue smetteva di scorrere pigro come un ruscello per schizzare di colpo al livello di rapide di classe cinque, come se fiutasse il pericolo e facesse di tutto per fuggire, subito, abbandonandola nel panico con il cuore che batteva all’impazzata.
Buffo pensare che, dopo tutti i misfatti e le menzogne, era la telefonata all’assicurazione – nemmeno la chiamata in sé, ma lo scambio di cellulare con Matt il giorno in cui era stata fatta – che stava per svelare il suo mondo. E ancora più buffo era che non aveva nemmeno bisogno di fare quella chiamata. Poteva cercare la stessa informazione su Internet o, a dire la verità, arrivarci da sola: che razza di compagnia assicurativa non aveva polizze per casi di incendio doloso? Ma Pak l’aveva fatta agitare, prima con la faccenda delle sigarette, poi con tutti i suoi tentennamenti ed esitazioni, dicendo che forse era stato un errore stringere quell’accordo tra loro, così lei aveva chiamato d’impulso l’assicurazione, giusto per una verifica veloce. E tra tutti i giorni in cui poteva capitare, era successo proprio quando aveva scambiato il telefono con quello di Matt! Se fosse accaduto un altro giorno, o lei avesse chiamato dalla linea dell’ufficio (era rimasta seduta alla scrivania, con il telefono proprio accanto!) su quella bolletta del cazzo non sarebbe risultato niente e tutto sarebbe filato liscio.
Avrebbe dovuto farsi avanti due giorni prima, quando Shannon aveva presentato la prova della telefonata. (Be’, non per dire tutta la verità; solo la parte che riguardava la chiamata.) L’avrebbe confessato ad Abe offrendo una spiegazione plausibile, per esempio accertarsi che l’investimento dei suoi genitori in Miracle Submarine prevedesse una copertura totale. Avrebbero riso per lo zelo eccessivo di Shannon, l’accusa di omicidio contro Pak solo perché una mattina un marito aveva preso il telefono sbagliato. Ma il modo in cui Shannon si era accanita contro Pak... Janine era terrorizzata e si chiedeva se l’avvocato avrebbe puntato la lente anche su di lei: indagando sulle sue telefonate, mettendo in discussione i suoi motivi, passando al setaccio i suoi tabulati telefonici, compresa magari la localizzazione del segnale con i ripetitori. Cosa avrebbe fatto Shannon, se avesse saputo che Janine era all’esterno del fienile diciannove minuti prima dell’esplosione, che quella sera aveva tenuto in mano quelle Camel e che aveva mentito per un anno? Non si sarebbe appigliata forse a quella bolletta come prova per accusare Janine di incendio doloso e magari persino di omicidio?
Era stato facile non fare niente, tenere la bocca chiusa. E una volta passata l’occasione, non avrebbe più potuto farsi avanti con la verità. Ecco qual era il problema di mentire: richiedeva dedizione. Quando mentivi, poi dovevi attenerti a quella versione. La sera prima, quando era seduta faccia a faccia con Abe e lui le aveva raccontato ciò che era successo di preciso, lei aveva pensato: lo sa. Sa tutto. Eppure non riusciva ad ammetterlo con se stessa, non poteva neanche immaginare di essere sottoposta all’umiliazione intensa di venire smascherata come bugiarda. In quel momento, avrebbe anche potuto mostrarle la registrazione video della sua chiamata, una prova incontrovertibile, e lei avrebbe comunque negato, offrendo qualche spiegazione ridicola: vogliono incastrarmi, quel video è falso! Mentire significava essere leali: alla sua versione, a se stessa. E più Abe la metteva di fronte alla verità – avevano rintracciato l’operatore del servizio clienti, presto avrebbero trovato la registrazione – più Janine era determinata: non stava parlando di lei.
La sera prima, dopo la confessione di Matt e la supplica di credere alle sue parole, aveva pensato di dirglielo. Ma spiegare perché aveva mentito a proposito della telefonata significava rivelare tutto: il suo accordo con Pak, la decisione di tenerlo segreto, l’intercettazione di soppiatto dei loro estratti conto per nascondere i pagamenti che aveva spalmato attentamente su conti diversi, nel corso dei mesi precedenti. E non era sicura che il loro matrimonio avrebbe retto a quella rivelazione.
Poteva ancora farlo, raccontare tutto a Matt, se la sua confessione sul rapporto tra lui e Mary fosse stata davvero una vicenda sordida come lei immaginava. Ma il fatto che in fondo si trattasse di una storiella innocua... l’aveva fatta sentire una stupida per la sua reazione esagerata il giorno dell’esplosione (per usare un eufemismo), perciò non riusciva.
E adesso stava per uscire e andare a registrare un campione della sua voce nell’ufficio del pubblico ministero per un caso di omicidio. La faccenda del campione non la turbava. Era impossibile che l’operatore ricordasse la sua voce, una conversazione di due minuti, dopo un anno. Ma davanti alla macchina della verità (Abe l’aveva menzionata quasi per caso, mentre usciva: “Oh, se il campione vocale non dovesse bastare, c’è sempre il poligrafo!”) come si sarebbe sentita? Davanti a un falso specchio, collegata a una macchina, rispondendo a una raffica di domande, consapevole che tutto il suo corpo – i polmoni, il cuore, il sangue – la tradiva?
Doveva sconfiggerla. Non c’era altro da fare. Ecco... un articolo che consigliava di affrontare l’esame della macchina della verità premendo con il piede su puntine da disegno infilate nelle scarpe nella fase delle domande preliminari, per la teoria che il dolore provochi la stessa reazione di una menzogna, così non è possibile scoprire la differenza tra le risposte vere e quelle false. Sembrava sensato. Poteva funzionare.
Janine chiuse la finestra del motore di ricerca e aprì il menu delle preferenze di Internet, cancellò la cronologia, si disconnesse e spense il computer. Entrò in camera da letto in punta di piedi, per non svegliare Matt, poi frugò nell’armadio in cerca di puntine da disegno.

Matt

Mary indossava il solito vestito di tutti i suoi sogni: l’abito estivo rosso che portava la sera del loro ultimo incontro, l’estate precedente, il giorno del suo diciassettesimo compleanno. In tutti i suoi sogni, Matt si complimentava per quanto era bella e la baciava, prima lievemente, entrambi a labbra strette, poi cominciava a morderle il labbro inferiore, a succhiare la sua pienezza stringendolo tra le sue stesse labbra. Poi abbassava le spalline sottili del top di Mary e le toccava il seno, la pelle liscia che cedeva il passo alla sodezza dei capezzoli. A questo punto Matt si rese conto che era un sogno, perché solo in un sogno le sue dita avrebbero potuto sentire qualcosa.
Nel mondo reale, finse quasi di non accorgersi di quell’abito. Era il mercoledì prima dell’esplosione, e quando lui si presentò al ruscello all’ora consueta dei loro incontri (le 20.15), Mary era seduta su un tronco con una sigaretta accesa in una mano e un bicchiere di plastica nell’altra, con le spalle basse come una donna anziana spossata dopo una giornata di duro lavoro. La sua solitudine era contagiosa, Matt voleva abbracciarla e stringerla a sé, sostituire quella desolazione con qualcos’altro... qualsiasi cosa. Invece si sedette e la salutò sforzandosi di usare un tono allegro, anche se non si sentiva così.
“Fammi compagnia” disse lei, allungandogli un altro bicchiere di plastica colmo di un liquido trasparente.
“Che cos’è?” chiese Matt, ma prima di finire la frase lo annusò e scoppiò a ridere. “Grappa alla pesca? Scherzi? Saranno dieci anni che non la bevo.” La sua ragazza all’università adorava quella roba. “Non posso accettare” disse restituendo il bicchiere. “Potrai bere tra cinque anni.”
“Quattro, in realtà. Oggi è il mio compleanno.” Mary gli spinse di nuovo il bicchiere tra le mani.
“Caspita” ribatté lui, non sapendo come reagire. “Non dovresti essere a festeggiare con gli amici?”
“Ho chiesto a qualche mio compagno di corso al SAT. Avevano da fare.” Forse Mary si accorse dello sguardo di compatimento di Matt, perché scrollò le spalle e aggiunse in tono forzatamente vivace: “Ma tu sei qui, e io sono qui. Coraggio, bevi. Solo per questa volta. Non puoi farmi ubriacare da sola il giorno del mio compleanno. Dicono che porti sfortuna”.
Era un’idea stupida. Eppure, il modo in cui lo guardava con le labbra tese in un sorriso che mostrava entrambe le file di denti, gli occhi gonfi e lucidi come se avesse pianto da poco... gli faceva venire in mente uno di quei puzzle per bambini dove bisogna far combaciare la metà superiore con quella inferiore di una costruzione, e il bambino non capisce e combina la smorfia triste e corrucciata con il sorriso felice. Matt guardò il suo finto sorriso, un incrocio tra speranza e supplica nelle sue sopracciglia inarcate, e brindò con lei. “Buon compleanno” disse e buttò giù la grappa.
Rimasero seduti un’ora, poi due, a bere e chiacchierare, chiacchierare e bere. Mary confessò che, nonostante adesso parlasse sempre inglese, sognava ancora in coreano. Matt disse che quel punto del ruscello gli faceva venire in mente il cane che aveva da ragazzo. Era una femmina, l’aveva seppellita in un posto molto simile. Discussero del colore del cielo quella sera, arancione-rosso (per Mary) o viola-rosso (per Matt), e di quale dei due fosse più azzeccato. Mary disse che una volta odiava il sovraffollamento di Seul – le aule scolastiche, i mezzi pubblici, le strade –, ma adesso ne sentiva la mancanza, e che vivere lì non le trasmetteva un senso di pace ma la faceva soltanto sentire sola e, a volte, sperduta. Gli confessò il terrore all’idea di cominciare la scuola in America, il fatto che salutava alcuni suoi compagni quando li incontrava in città e loro non ricambiavano ma la fissavano con uno sguardo tipo “torna da dove cazzo sei venuta”, poi aveva sentito dire che secondo gli altri la sua famiglia praticava il “voodoo dagli occhi a mandorla”. Matt invece raccontò del rifiuto di Janine di prendere semplicemente in considerazione l’idea di adottare un figlio, di come organizzava il proprio tempo libero perché fosse in conflitto con gli orari della moglie, per evitare di stare da solo in casa con lei.
Verso le dieci, con le vestigia del crepuscolo ormai sfumate e sostituite dal buio, Mary si alzò in piedi, disse di sentirsi un po’ confusa e che doveva bere dell’acqua. Anche Matt si alzò, stava per dire che era ora di andare pure per lui, quando Mary inciampò in un sasso e gli rovinò addosso. Matt tentò di stabilizzarla ma inciampò, ed entrambi finirono a terra ridendo, con Mary che si era ritrovata sopra di lui.
Provarono a rialzarsi ma, ubriachi com’erano, rimasero impigliati tra loro, le cosce di Mary che premevano e si muovevano sul suo inguine, e gli diventò duro. Si sforzava di resistere, ricordandosi che aveva trentatré anni e lei diciassette e, santo cielo, probabilmente stava commettendo un reato. Ma il fatto è che non si sentiva trent’anni suonati, nemmeno nel quotidiano, quando si trovava in mezzo ai giovani volontari dell’ospedale e si stupiva perché a quei ragazzi sembrava normale rivolgerglisi con il “lei”. Forse era colpa della grappa alla pesca. Non dell’alcol in sé (anche se certo contava), ma del fatto che gli aveva bruciato le viscere e gli scaldava lo stomaco, con un sapore e un odore dolce che ancora aleggiavano in bocca e nelle narici. Era come un viaggio istantaneo con la macchina del tempo all’epoca delle superiori, quando si ubriacava con una ragazza per limonare quattro ore e chiudere in bellezza con una sega. E adesso eccolo lì, dopo avere bevuto troppa di quella merda, a parlare di tutto e niente come non faceva dall’università... tutto questo lo faceva sentire giovane. D’altronde, con quel vestito Mary di sicuro non aveva un’aria tanto innocente, si era preparata a sedurlo.
Allora la baciò. O forse lo baciò lei. Ragionava al rallentatore, era difficile pensare. In seguito avrebbe passato al setaccio quel momento, in cerca del minimo indizio che lei fosse meno disponibile di quanto Matt aveva immaginato... Aveva cercato di divincolarsi da lui? Aveva detto no, anche se era appena un sussurro? La verità era che non si era accorto di niente tranne che del suo corpo a contatto con quello di Mary, ma le reazioni di lei, i suoni e i movimenti... non ci aveva fatto proprio caso. Aveva chiuso gli occhi per concentrare ogni neurone sul bacio, la novità delle sue labbra, della lingua e dei denti corroboravano la sensazione già surreale di essere tornato adolescente. Non voleva che quel momento terminasse proprio per la sua pura fisicità, così la strinse fra le braccia, una mano dietro la testa per non interrompere il bacio, e una sui fianchi, spingendole il bacino sopra l’inguine come due adolescenti che si strusciavano. Matt sentì partire dallo scroto una scarica di pressione che continuava a crescere. Doveva liberarla. Subito. Si slacciò i pantaloni, sempre con gli occhi chiusi, afferrò la mano di Mary e se la ficcò nelle mutande. Avvolse l’altra mano sulle sue dita, per assicurare la stretta intorno al pene, poi le guidò su e giù in un ritmo masturbatorio che conosceva, questa volta unito all’insolita levigatezza delle labbra e del palmo di Mary che gli faceva perdere il controllo.
Venne alla svelta, quasi subito, in un sussulto di spasmi molto intensi, piacevolmente dolorosi, che emettevano scariche elettriche lungo le gambe fino alle dita dei piedi. Nelle orecchie rimbombava un ronzio sordo amplificato dall’alcol, dietro le palpebre serrate era abbagliato da lampi di luce bianca. Si sentiva debole, e liberò la testa e la mano di Mary dalla sua stretta.
Mentre era sdraiato vedeva il mondo girare come su una giostra, e sentì qualcosa sfiorargli il petto – un contatto timido, appena percettibile – e poi arretrare di scatto. Aprì gli occhi. Gli girava la testa insieme a tutto il resto, eppure vide una mano piccola appoggiata al petto... la sua mano, la mano di Mary. Tremava. E subito sopra il viso attonito di lei, con la bocca e gli occhi sbarrati al punto che quasi le uscivano dalle orbite, lo sguardo fisso sulla mano appiccicosa, poi rivolto a lui, al suo pene ancora eretto. Paura. Sgomento. Ma soprattutto confusione, come se Mary non capisse cosa fosse successo, non avesse idea di cosa fosse quella sostanza sulle sue dita, e non avesse mai visto quella cosa che gli spuntava dai pantaloni. Lo guardava come una bambina.
Matt fuggì. Non ricordava come... non ricordava di stare in piedi, figuriamoci del viaggio di ritorno in auto verso casa con tutto quel che aveva bevuto. Il giorno dop...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le verità di Miracle Creek
  4. L’incidente. Martedì 26 agosto 2008. Miracle Creek, Virginia
  5. UN ANNO DOPO IL PROCESSO: GIORNO UNO. Lunedì 17 agosto 2009
  6. IL PROCESSO: GIORNO DUE. Martedì 18 agosto 2009
  7. IL PROCESSO: GIORNO TRE. Mercoledì 19 agosto 2009
  8. IL PROCESSO: GIORNO QUATTRO. Giovedì 20 agosto 2009
  9. DOPO
  10. Copyright