Non ho mai pensato che solo chi possiede un’anima tormentata possa essere un genio creativo. Non sono quel genere di artista. A quattordici anni potevo tranquillamente concentrarmi su un dipinto, e a lungo, ma non mi sono mai dimenticata di mangiare, dormire e fare la doccia. Ero convinta che le mie orecchie stessero benissimo là dove erano, quindi non c’era il rischio che facessi come Van Gogh. Inoltre trovavo ispirazione sia quando ero di buon umore, sia quando avevo il morale a terra.
In effetti, però, c’era una cosa che mi tormentava: andare a scuola in macchina con il ragazzo che amavo… e con la ragazza che lui amava. Ovvero mia sorella.
«Rory, andiamo!» gridò Merrilee dall’ingresso principale. «Toby mi ha già chiamata due volte!»
Le prime settimane di scuola ero stata a io a metterle fretta e a ricordarle cose come cappotto, zaino, il fastidiosissimo cravattino della nostra uniforme scolastica eccetera… Ma adesso mia sorella Merri aveva un valido motivo per scapicollarsi fuori il prima possibile e correre alla Hero High School: il suo nuovo ragazzo, Fielding Williams.
Ho già detto che era ignara dei sentimenti di Toby? Di conseguenza non faceva che raccontargli quanto fosse felice di uscire con il suo amico.
«Dai, sbrigati!» mi incitò. Si era seduta al posto del passeggero, ma aveva ancora la portiera aperta. «Oggi Fielding indosserà i calzini che ho scelto per lui. Te ne sei scordata?»
Quella frase non aveva alcun senso per me. Due sere prima, Merri, nostra sorella maggiore Lilly e io eravamo uscite per andare a fare la manicure, proprio per permettere a Merri di aggiornarci sul suo nuovo ragazzo. E, se aveva detto qualcosa sui calzini… be’, me l’ero persa. Magari era successo mentre ero in bagno. Ero ancora sorpresa di essere stata invitata. Secondo la mamma tre è il numero più ostico per chiacchierare. E la coppia per eccellenza per le confidenze, a casa nostra, è quella formata da Merri e Lilly.
Fielding è stato un miglioramento eccezionale, rispetto al primo ragazzo di Merri: Monroe Stratford, uno strafottente-emo-idiota-già-espulso-dalla-scuola. Comunque, non afferravo il nesso tra la storia dei calzini e quell’entusiasmo esagerato. E se mia sorella fosse stata una feticista dei piedi? Bleah, che schifo.
Scacciai quel pensiero, aprii la portiera e scivolai sul sedile posteriore, mentre passavo a Merri la borsa per la campestre che aveva dimenticato.
«Ciao, Toby.»
«’Giorno, Roar.» Colsi il lampo del sorriso che mi rivolse facendo retromarcia… era meglio di qualsiasi tazza di caffè! Il sorriso di Toby era perfetto al novantanove per cento ma quell’un percento che gli avrebbe impedito di essere scelto per la pubblicità di un dentista era la mia parte preferita: uno dei suoi incisivi era leggermente storto. Uno di quei dettagli che si notano solo se lo si osserva – come minimo – dozzine di volte. Il genere di particolare che a cui uno farebbe caso se, per esempio, in fondo all’armadio avesse una cartellina piena zeppa di schizzi di un certo ragazzo con pelle olivastra, occhi scuri, capelli da macho latino, folte ciglia che ti fanno battere forte il cuore… e lunghe dita agili che, in quel momento, stavano stringendo il volante mentre lui mi accompagnava a scuola.
«Cos’è questa storia dei calzini?» chiese, mentre svoltava a sinistra e abbassava il volume della radio. Era la colonna sonora di un film – lo era sempre. Probabilmente Toby non ascoltava musica che prevedesse un testo. A volte imbroccavo il titolo del film, altre Merri si impadroniva dello stereo. Stavolta lo spense.
«Non te l’avevo detto?» squittì lei. Eravamo alle solite. Per l’ennesima volta mi sarei ritrovata ad assistere, dal sedile posteriore, a una scena in cui Merri – la ragazza dei sogni di Toby, con il diritto permanente ad avere il posto accanto a lui in auto e, soprattutto, nel suo cuore – avrebbe rigirato il coltello nella piaga. «È così simpatico!» rincarò la dose. «Dico, chi avrebbe mai pensato che Fielding Williams potesse essere simpatico? Anche se… forse nessuno, a parte me, lo trova davvero divertente. Oltre a se stesso, certo. Insomma, be’, è uno scherzo fra noi. In ogni caso, oggi ricordatevi di fargli i complimenti per i calzini, okay?»
Lei ridacchiò. Io avrei voluto ringhiare.
Ecco il problema di mia sorella “maggiore”: era un’adorabile nocciolina. Arrivava a stento al metro e cinquantadue, con le scarpe e con la schiena dritta. La sua personalità (dolce, ma non stucchevole), il suo aspetto (non mancava nulla alla lista: lentiggini, nasino all’insù, occhioni grigio-blu, mento a cuore) e la sua intelligenza (possedeva un QI da vera cervellona) la rendevano irresistibile. Merri era il tipo di ragazza che la gente amava all’istante. E per fortuna non era cattiva, perché avrebbe potuto essere il leader carismatico di una setta. Quando parlava, le persone l’ascoltavano volentieri. E in mensa facevano a gara per sedersi vicino a lei. A quanto pareva, tutti venivano risucchiati nella sua orbita, perché accanto a lei si sentivano al sicuro, apprezzati e… si divertivano.
E in quel momento, mentre la osservavo ridacchiare, con il naso arricciato, e frugare nello zainetto termico e prendere la colazione per Toby e per me, ne ebbi la riprova. Non immaginavo l’avesse preparata. «La tua è vegana, Rory, ho controllato» disse. E io compresi davvero perché tutti la amassero. Perché lui la amasse. Toby fissò l’involucro di stagnola come volesse incenerirlo. Invece, lo scartò e diede un grosso morso al suo panino. C’era una tale purezza in Merri… una dolcezza che superava persino tutto lo zucchero che ingurgitava.
Non ero amareggiata; ero esausta. Perché ogni volta che qualcuno se ne usciva con la frase: “Merri è tua sorella? La adoro!”, automaticamente si aspettava che io fossi come lei. E non lo ero. Non lo ero affatto. Avevamo gli stessi capelli castani, ma i miei erano più corti di almeno quindici centimetri, tagliati appena sotto il mento. Inoltre ero più alta di lei, quindi doppio svantaggio, perché l’immancabile domanda, carica di incredulità, era: “Ah, sei più giovane?”. E lo stupore non era dovuto solo alla statura, bensì al fatto che io non possedevo alcuna delle sue adorabili qualità. Merri ridacchiava; io ridevo. Lei chiacchierava volentieri; io tagliavo corto. Lei era impulsiva; io riflessiva. Lei era a proprio agio al centro dell’attenzione; io preferivo starmene in disparte. Meglio se dietro un cavalletto.
Anche io la amavo, ma non volevo e non potevo essere lei. Non importava che i nostri genitori, i nostri insegnanti e i vari clienti della nostra boutique per cani – l’Haute Dog – se lo aspettassero.
Tuttavia, per Toby non era così. Ci conoscevamo da quando, anni prima, si era trasferito nella casa accanto. All’epoca Merri e io eravamo alte uguali e la mamma ci vestiva allo stesso modo. I genitori adottivi di Toby si erano quindi aggiunti alla lunga lista di persone che ci riteneva gemelle, ma non lui. Era un bambino, ma distingueva benissimo l’una dall’altra e non solo fisicamente. Aveva costruito castelli di sabbia con me e… li aveva calpestati con Merri. Aveva disegnato con i gessetti sui marciapiedi con me, e aveva cancellato tutto, con la pompa dell’acqua, insieme a Merri. Andava in altalena insieme a me, cantando un sacco di canzoncine… e saltava giù dalle strutture con Merri per poi arrampicarcisi come due scimmie, farsi male e finire sempre per guadagnarsi un impacco di ghiaccio.
Toby non era stato il primo ad apprezzare i miei disegni, ma le sue parole erano state le prime a farmi sentire speciale. Sul fondo del mio armadio, nella stessa cartelletta con gli schizzi che ritraggono Toby, conservavo ancora l’acquarello di un gatto verde a tre zampe, tutto sbilenco, con la carta deformata. Nell’angolo in alto a sinistra, Toby aveva lasciato il segno della sua approvazione appiccicando un prezioso adesivo di Batman.
«Oh, oggi non dobbiamo passare a prendere Eliza» disse Merri quando Toby mise la freccia per svoltare nella sua via.
«La giornata sta già migliorando» commentò lui.
«Eddai, sii gentile!» Gli diede un colpetto alla spalla e lui finse di morderle le dita.
«Lo sono sempre.» Toby non sopportava Eliza, l’altra migliore amica di Merri, ma le dava comunque un passaggio, ogni giorno, per fare contenta mia sorella. Naturalmente anche Eliza odiava Toby, ma in realtà non ero sicura che le piacessero altre persone, oltre a Merri e ai loro insegnanti. Eliza sembrava la Regina delle nevi di Frozen, e in effetti il suo algido distacco era capace di congelare chiunque nel raggio di quasi cinque chilometri. E, a quanto pareva, quello era un effetto collaterale del complesso di inferiorità dovuto alla sua intelligenza e alla sua bellezza eccessive, che sapeva gestire a perfezione. Io tifavo decisamente per Toby. Eppure, il feroce senso di protezione di Eliza nei confronti di mia sorella e il suo agguerrito femminismo erano piuttosto accattivanti.
Distolsi lo sguardo e sbadigliai senza farmi notare. Non eravamo ancora arrivati a scuola ed ero già stanca.
«Hai dipinto fino a tardi, Roar?» Anche Toby era un artista – un musicista per la precisione – quindi capiva la creatività da nottambuli. Ma, dal momento che lui era perfetto, non volevo ammettere che la verità era un’altra. Ero rimasta sveglia fino a tardi a studiare e a fissare la nota scolastica, di un giallo brillante, che mi ero beccata la settimana prima, a matematica. Avrei dovuto restituirla firmata lunedì. Ma lunedì, alla Hero, aveva regnato il caos. L’intera scuola aveva dovuto affrontare le conseguenze della festa Romeo Ribelle, organizzata il venerdì precedente dall’ex di Merri. Era il genere di festa destinata a entrare nella leggenda, alla Hero. Del tipo: “Ti ricordi quella volta che Monroe Stratford ha fatto irruzione nel teatro della scuola, ha rubato i costumi dalla recita e ha dato spettacolo litigando con quella novellina, sul palco, e poi la festa è stata interrotta?”.
A differenza della maggior parte degli studenti, che aveva mentito dicendo di essere stata presente, io ricordavo benissimo l’aneddoto, perché avevo avuto il ruolo da protagonista, quello della stupida novellina che aveva gettato addosso la vernice a “Romeo”. E, a riprova della mia presenza, mi ero guadagnata due sabati di punizione da scontare.
Alla fine, la professoressa Roberts si sarebbe ricordata di chiedere quella cavolo di nota firmata. Avrei potuto falsificare la firma dei miei; l’arte grafica non è così diversa dal disegno, in fondo. Ma sarebbe stato un inganno, avrei fatto deliberatamente qualcosa di sbagliato. Ignorarla era passivo. Perciò avevo scelto il male minore. Il piano era di tenere le dita incrociate per la sesta ora, quella di matematica. E lo avrei fatto ogni volta, sperando nella buona sorte.
«Ehi, bella addormentata!» Merri si voltò a guardarmi, porgendomi la sua tazza termica con la scritta ADORO I LIBRI VOLUMINOSI E ME NE VANTO. «Sei sveglia, là dietro? Non ho un principe che possa risvegliarti con un bacio, ma… vuoi un po’ del mio caffè?»
«No, sono a posto.» Mi tirai indietro i capelli e distolsi lo sguardo. Rory poteva anche essere l’abbreviazione di Aurora, ma Merri sapeva che odiavo le battute sulla Bella Addormentata.
«Sicura? È delizioso.» Mia sorella agitò la tazza. Non fu una buona idea, visto che non aveva ancora chiuso il coperchio. Infatti, parte del contenuto finì sulla mia divisa scolastica, macchiando la camicetta bianca e la gonna scozzese. «Ooops!» rise lei arricciando il naso.
«Accidenti, Merrilee!» Io ribollivo di rabbia, ma Toby ridacchiò sommessamente.
«Ci sono dei tovaglioli di carta sotto il sedile, Roar. Vogalapiroga, voltati prima di arrecare danni permanenti a tua sorella.»
«Mi dispiace davvero, Rory» si scusò Merri. Fece per bere un sorso, ma si accigliò rendendosi conto che la tazza era semivuota. «Meno male che non c’è Eliza. Si sarebbe arrabbiata parecchio se fosse capitato a lei.»
«Eh, sì, meno male» scattai. Ma ormai era troppo tardi per evitare di arrecarmi danni permanenti. Non perché sfoggiavo l’ultima creazione di moda alla caffeina, ma perché non avevo nessuna possibilità di vincere una gara in cui io inseguivo Toby, e lui inseguiva Merri.