Come ogni anno ad Acquamorta il Natale era arrivato con largo anticipo.
Anche se al 25 dicembre mancava poco più di una settimana, la prima neve era già scesa e nel silenzio di una notte senza vento aveva imbiancato le strade, le piazze e i cortili del piccolo borgo affacciato sul lago, così come i prati e i boschi che salivano verso le montagne.
Da quasi un mese le vetrine della vicina e ben più turistica San Basilio erano invase da alberi addobbati, neve artificiale, festoni, luci e presepi, mentre un agguerrito esercito di Babbi Natale penzolava dai balconi. In piazza Garibaldi, il cuore della cittadina, era stato montato il tradizionale mercatino. Girando tra i chioschi di legno, con l’aria satura di risate e odore di vin brûlé, si poteva trovare ogni genere di regalo: dai cappelli di lana cotta alle candele al miele, dai gioielli d’argento ai giocattoli fatti a mano.
Di fronte al mercatino, su uno dei lati corti della piazza, c’era la Libreria dei due mondi.
All’ingresso, come ogni anno, era stato montato un vecchio Babbo Natale meccanico a grandezza naturale: seduto a uno scrittoio, leggeva le lettere che i bambini potevano lasciare nella buca al suo fianco. Marta, la proprietaria della libreria, aveva ereditato il singolare oggetto dal padre, insieme all’intero negozio di giocattoli cui l’uomo aveva dedicato la vita, e che lei aveva in parte tenuto e in parte trasformato per realizzare il proprio sogno: vivere tra i libri.
«Lia, si può sapere quanto ci metti a sceglierne uno?» chiese Hassan al fratello minore.
«Primo, non chiamarmi Lia» ribatté Liaqat sbuffando. «Secondo, provassi anche tu a leggere qualcosa, ogni tanto, sapresti che non è così semplice…»
«Fai come vuoi.» Hassan alzò le mani in segno di resa. «Però se non ti muovi ti lascio qui. Tra un po’ attacco al lavoro.»
«Allora vai… io resto con Marta.» Liaqat lanciò un’occhiata alla giovane proprietaria della libreria. Era suppergiù coetanea di Hassan e Liaqat credeva – o forse sperava – che suo fratello avesse una cotta per lei, perché questo avrebbe significato che un giorno sarebbero potuti diventare una famiglia; come quella che loro due avevano perso troppo presto.
Lui e Hassan, afghani di etnia hazara, erano arrivati in Italia quando Liaqat aveva appena sei anni, dopo che i genitori erano rimasti uccisi in un attentato nei pressi di un ospedale, nell’Hazarajat. Da allora potevano contare solo l’uno sull’altro e Hassan, nominato da un tribunale tutore legale del fratello, per mantenere entrambi lavorava di mattina in un forno e di pomeriggio nell’alimentari di un amico.
Ora Liaqat di anni ne aveva dodici, anche se ne dimostrava di più; vuoi per il fisico atletico, vuoi per l’espressione indecifrabile degli occhi dal taglio orientale, che di rado si scaldavano in un sorriso. A eccezione del Natale, per cui Liaqat aveva un debole. Lo amava non solo a causa dell’atmosfera di festa, dei dolci – non sapeva dire se preferisse pandoro o panettone – e delle vacanze, ma anche e soprattutto per la vicenda di Giuseppe e Maria, la coppia di migranti che fuggiva dalla Galilea per trovare rifugio in una mangiatoia di Betlemme: lo affascinava al punto che ogni anno, quando veniva allestito il presepe davanti alla chiesa del borgo, restava ore a osservarlo. Da solo e in silenzio. Poi c’era la faccenda dei regali. E per un lettore come lui, che appena poteva si isolava dal mondo per cercare rifugio nei libri, non c’era miglior regalo che un buon libro. Il problema era sceglierlo.
«È che devono essere due storie pazzesche» mormorò tra sé e sé.
Gli occhi rimbalzavano tra i libri che teneva in mano. Il primo era un fantasy e sulla copertina spiccavano alcuni draghi sul punto di attaccare un’imbarcazione in balia delle onde: La saga di Terramare di Ursula K. Le Guin. Il secondo era un horror dalla copertina scura, su cui campeggiavano il nome dell’autore, Howard Phillips Lovecraft, e due occhi rossi assetati di sangue.
«Ti vuoi decidere?»
E allora Liaqat sollevò i suoi, di occhi, per agganciarli a quelli del fratello: una richiesta che non aveva bisogno di parole.
Hassan capì. «E va bene» scosse la testa. «Basta che ci sbrighiamo.»
Quando uscirono dalla libreria, Liaqat stringeva sotto il braccio entrambi i volumi, ben impacchettati, e indossava il sorriso delle grandi occasioni. Si incamminarono lungo corso Italia, il viale che attraversava San Basilio come una spina dorsale e al fondo del quale c’era l’alimentari in cui lavorava Hassan, e dove Liaqat lo avrebbe accompagnato prima di tornare a casa, nel Borgo Nuovo di Acquamorta. Il cielo di metà pomeriggio iniziava a scurirsi rendendo più brillanti e chiassose le luminarie.
«Davvero non le regali nulla?» chiese Liaqat di punto in bianco.
«Ancora? Ti vuoi mettere in testa che tra me e Marta non c’è niente?»
Liaqat scrollò le spalle.
«È così, siamo solo amici. E poi a te che importa? Quando sarai abbastanza grande capirai che… Lia!» Hassan d’un tratto aveva perso il fratello; si voltò e lo ritrovò indietro, fermo a fissare la vetrina di un bar. «Ti vuoi muovere?»
«Ci sono Cloro e Chupa!»
Cloro, il cui nomignolo derivava dall’odore che mandavano le scarpe, e Chupachups – il cui vero nome era Loredana, ma che tutti chiamavano così perché aveva sempre un lecca-lecca infilato in bocca – erano quelli che Liaqat considerava la sua cricca. In realtà erano stati loro a sceglierlo come punto di riferimento quando l’avevano visto aggirarsi a scuola con l’aria da duro.
Gli occhi di Hassan si spostarono dal fratello all’insegna del bar: CAFFÈ ITALIA. «Andiamo via» disse, con una sfumatura livida nella voce, cui Liaqat non badò.
«Ci metto un secondo!» E prima che Hassan potesse aggiungere altro, era già dentro.
Lungo il bancone i clienti bevevano e sgranocchiavano noccioline appollaiati su sgabelli malconci, il pavimento era coperto da uno strato caramelloso di sudiciume e le pareti da caricature oscene. Liaqat puntò il tavolo a cui Cloro e Chupa stavano scolando due tazze di cioccolata fumante. «Allora?» disse sorprendendo Cloro con una scoppola sul collo. «Vi divertite senza di me?»
«Ehi!» Si voltò massaggiandosi la base della nuca. «Che ci fai qui?»
Chupa estrasse di bocca il lecca-lecca cui non rinunciava mai, e lo puntò verso i pacchetti che Liaqat teneva sottobraccio. «Sono per noi?» chiese stringendo gli occhi bovini.
«Vi piacerebbe. Allora, ’sto scherzo alla Gatti lo facciamo o no?»
La Gatti era una specie di istituzione della scuola media di Riva del Lago: un’insegnante di inglese da sempre prossima alla pensione, che nonostante l’anagrafe andava avanti imperterrita a perseguitare gli studenti – e loro tre in particolare. Motivo per cui fantasticavano una vendetta. «Ne stavamo giusto parlando…»
«Ehi!» Liaqat non aveva visto Hassan entrare, sentì la sua mano sulla spalla. «Andiamo.»
«Arrivo, aspetta…» Si girò scocciato. «Anzi… se per te è tardi vai, non è che devi farmi…» fece per continuare, ma quando il suo sguardo incrociò quello del fratello smise di protestare: negli occhi di Hassan non c’era più traccia di impazienza, piuttosto di qualcosa che Liaqat aveva imparato a conoscere durante il viaggio che dall’Afghanistan li aveva condotti in Italia. Era paura. Da quando Acquamorta era diventata la loro nuova casa, non aveva più trovato niente del genere nei suoi occhi. Si chiese quale fosse il pericolo, ma non fece in tempo a rispondersi.
«Che ci fai tu qui... sei venuto a cercare guai?» chiese un uomo alzandosi dallo sgabello al bancone. Era più vecchio di suo fratello, e anche più basso, ma molto, molto più muscoloso, tanto che persino il cranio rasato e la mascella squadrata sembravano gonfiati dal lavoro in palestra.
«Già, questo non è posto per quelli come te» fece eco un secondo uomo, più secco ma non meno minaccioso, forse per i vestiti scuri o per il tatuaggio tribale che gli spuntava dal collo. «Che c’è, ti sei mangiato il cervello?»
Hassan strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. Conosceva la sua impulsività e sapeva che poteva prendere fuoco per molto meno.
«Per farlo dovrebbe averne uno…» Un terzo uomo, intabarrato in un cappotto dal taglio elegante e negli occhi una luce ancora più gelida di quella dei compagni, si fece avanti. «Questi qui invece dentro la testa hanno solo spazzatura.» Buttò giù un sorso di birra dal boccale che teneva in mano. «Allora si può sapere che cazzo ci fai nel mio locale? Qui i cinesi non li vogliamo.»
«Non sono cinese» biascicò Hassan. «E comunque stavamo uscendo.»
«Non così in fretta.» Il pelato si avvicinò a Liaqat per squadrarlo meglio. «Loris, hai visto?» disse rivolgendosi a quello che sembrava essere il capo. «’Sto cinese non è solo.»
A Liaqat arrivò una zaffata dell’alito dell’uomo, puzzava di alcol e anice.
«Saranno fratelli, da come son fatti con lo stampino, come le blatte.»
«Ti distrai un secondo e te le ritrovi dappertutto» disse lo smilzo, puntando due dita contro il petto di Liaqat.
Hassan serrò le labbra e strinse il pugno, ma Loris, il capo, gli bloccò il polso. «Che vuoi fare?» Glielo torse dietro la schiena. In un istante il pelato gli fu addosso: lo colpì con un paio di manrovesci al volto e lo smilzo con altrettante manate a palmo aperto in pieno petto, forti da togliergli il fiato.
Liaqat, spaventato, spalancò la bocca per gridare, ma non ne uscì nulla; si guardò attorno in cerca di aiuto, ma i suoi amici erano impietriti e gli altri clienti del locale sembravano preferire non immischiarsi.
Hassan si piegò in due tossendo e il capo lo lasciò andare con uno strattone.
«Ne vuoi ancora?» chiese il pelato fissandolo dritto negli occhi, a pochi centimetri di distanza.
Hassan restituì lo sguardo per alcuni lunghissimi secondi, quindi si voltò verso Liaqat. «Vieni» disse, e senza indugiare oltre l’afferrò per il bavero strattonandolo verso l’uscita. Sulla porta, prima di sparire tra la folla festante che animava la strada, si fermò e indicò gli aggressori col braccio teso. «Giuro che la pagherete» disse. «La pagherete carissima.»
Si allontanarono a passi veloci. Liaqat sentiva il cuore battere fortissimo nel petto, come volesse sfondarlo. Solo diverse decine di metri più avanti, cercando di riprendere a respirare normalmente, realizzò di non avere più con sé i pacchetti. Si fermò, puntando i piedi. «I libri!»
Hassan ingoiò qualcosa anche se non stava masticando niente; si passò le dita tra i capelli, lo sguardo rivolto ai tetti delle case.
«Che cavolo è successo là dentro?»
«Niente» rispose Hassan e gli diede uno strattone perché non si fermasse. «Non è successo niente.»
«Come niente? Chi erano quei tre? E ho lasciato i libri sul tavolo di Cloro e…»
«Ascolta. Dimentica quei libri, ne compreremo altri. Dimenticati quello che è successo e soprattutto» disse guardandolo fisso, negli occhi un’oscurità sconosciuta «dimentica quel posto, okay? Promettimi che non ci entrerai mai più, per nessun motivo. Non me ne frega se ci vanno i tuoi amici… Promettimi che non ci passerai nemmeno vicino.»
«Ma quei tre…»
Hassan gli strinse forte il braccio, fino a fargli male. «A loro penserò io… ora però tu prometti!»
La sua voce friggeva di rabbia, eppure Liaqat sapeva che la rabbia non c’entrava: era qualcosa di peggio. Era la forma del terrore quando Hassan perdeva il controllo. E aveva imparato che quando capitava non c’era altro da fare che assecondarlo. Per questo si zittì e chinò la testa. Perché suo fratello, così, non voleva vederlo mai più.