Shooter. Punto di impatto (Segretissimo)
eBook - ePub

Shooter. Punto di impatto (Segretissimo)

  1. 464 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Shooter. Punto di impatto (Segretissimo)

Informazioni su questo libro

Il tiratore scelto Bob Lee Swagger ne ha viste troppe. Dopo essere rimasto ferito in Vietnam da un proiettile sparato da un cecchino nemico, si è ritirato a vivere come un eremita fra le montagne dell'Arkansas. Ma quando gli viene chiesto di tornare in azione per neutralizzare la minaccia concreta di un attentato al presidente degli Stati Uniti, il suo senso del dovere ha la meglio. Anche perché l'uomo che premerà il grilletto è lo stesso che ha messo fine alla sua carriera militare. Swagger, l'unico in grado di immaginare come potrebbe agire il killer, accetta di collaborare. Quel che non è in grado di immaginare è che l'abbiano coinvolto in questa storia per incastrarlo. Hanno scritto per lui un altro copione che lo trasforma in un fuggiasco, braccato dagli agenti dell'intelligence. Chi ha deciso di farne un capro espiatorio, però, ha sottovalutato le sue capacità di sopravvivenza. Ritrovarsi da solo contro tutti sulle strade americane non è poi così diverso da ciò che ha passato nella giungla del Sudest asiatico. E Swagger ha in mente un finale alternativo. La vendetta.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
eBook ISBN
9788835714330

1

Era un novembre freddo e umido, nell’Ovest dell’Arkansas: si annunciava un’alba miserabile, dopo una nottata altrettanto miserabile. Un vento gelido fischiava tra i pini, portando nevischio gelato che si ammucchiava sulle rocce che affioravano dal terreno; nuvole basse e minacciose correvano nel cielo. Di quando in quando raffiche più forti si infilavano nei canaloni, soffiando nevischio polverizzato e offuscando l’aria come il fumo di una salva di cannoni. Era il giorno antecedente l’apertura della stagione di caccia.
Bob Lee Swagger si era appostato sotto i contrafforti di un remoto altopiano al centro delle Ouachita Mountains, una spianata spoglia di alberi nota come Hard Bargain Valley; stava seduto in terra con la schiena appoggiata contro un vecchio pino, il fucile posato sulle ginocchia, perfettamente immobile e silenzioso. La capacità di restare appostato così a lungo, conservando una perfetta immobilità, era la dote principale di Bob. Era un dono naturale, una forza attinta da qualche risorsa interiore che non era mai intaccata dai fattori di stress esterni. Quando era in Vietnam, questa sua capacità quasi animalesca di fare il morto, per così dire, inibendo ogni necessità corporale, era diventata leggendaria.
Il freddo era penetrato attraverso i calzettoni di lana e la calzamaglia e cominciava a risalire su per la spina dorsale, come un insidioso topolino. Serrò i denti, per evitare che si mettessero a battere. La vecchia ferita al fianco lo disturbava a tratti con fitte dolorose. Ordinò al suo cervello di non tenere conto del dolore che andava e veniva. Era completamente distaccato da se stesso, come se la coscienza fosse totalmente divaricata dalle sensazioni fisiche.
Aspettava Tim, ma sapeva che doveva “guadagnarselo”.
Vedete, avrebbe detto, se fosse stato a colloquio con una delle due o tre persone a cui si degnava di rivolgere la parola – come il vecchio Sam Vincent, ex pubblico ministero della contea di Polk, o Doc LeMieux, il dentista, o Vernon Tell, lo sceriffo – sparare con un fucile contro un povero animale non è degno di un uomo. Non ci vuole niente. Qualsiasi damerino di città è capace di restare in agguato, tenendosi su con un thermos di caffè caldo, finché una femmina di cervo gli passa davanti, ignara, così vicina da poterla quasi toccare; e di imbracciare allora un fucile comprato ai grandi magazzini e sparare precipitosamente, riempiendole le budella di piombo, per poi rintracciarla tre contee più in là, dissanguata, con gli occhi ancora strabuzzati per le sofferenze patite.
No, avrebbe detto Bob ai suoi pochi intimi, un vero cacciatore doveva “guadagnarsi” la sua preda, sfidandola lealmente, provando su di sé tutto quello che provava l’animale, per tutto il tempo necessario.
Tra i pini e i cespugli del sottobosco, a centocinquanta iarde di distanza, poco più in basso del punto dov’era appostato, poteva scorgere una radura, che si andava rischiarando alla fioca luce di quel mattino inclemente. Attraverso la radura correva una labile pista, battuta di norma da famiglie di cervi, maschi accompagnati dai loro harem, piccoli gruppi che uscivano, uno alla volta, dal fitto del bosco, all’alba. Giusto la sera prima, Bob aveva avvistato tre maschi, uno dei quali con corna estremamente sviluppate a otto palchi sovrapposti, e le loro femmine, in tutto dodici animali.
Ma lui era lì solo per Tim. Il vecchio Tim, male in arnese e pieno di cicatrici, sfuggito miracolosamente a tante avventure. Sapeva che Tim sarebbe venuto da solo, così come aveva fatto lui stesso: Tim non aveva un harem, non ne aveva più bisogno. Qualche anno prima, un cacciatore di città, di quelli che venivano su la domenica da Little Rock, aveva centrato fortuitamente un ramo delle corna, portandoglielo via di netto, e per tutta quella stagione il povero Tim era andato in giro come un ubriaco, faticando a ritrovare l’equilibrio sulle zampe. Era poi rimasto azzoppato per quasi un anno, quando Sam Vincent, le cui grandi capacità di cacciatore si erano offuscate con l’età, gli aveva piantato una pallottola .444 a punta morbida – calibro senza dubbio eccessivo, ma Sam era affezionato al suo vecchio fucile – nei quarti posteriori; una ferita che l’aveva mezzo dissanguato e che sarebbe risultata letale per qualsiasi altro cervo.
Ma Tim era un “duro”, come Bob ben sapeva; e la qualifica di “duro” era il miglior complimento che Bob potesse fare a qualcuno, uomo o animale, vivo o morto che fosse.
Erano ormai diciassette ore che attendeva immobile nel suo appostamento. Era rimasto seduto contro quello stesso albero, al gelo, per tutta la notte; e non si era mosso nemmeno quando, verso le quattro, era cominciata la bufera di neve. Congelato e zuppo fino alle midolla com’era, non sapeva nemmeno più se era vivo o morto. Ogni tanto riaffioravano nella sua mente immagini di un lontano passato, ma subito le cancellava di nuovo, concentrandosi solo sulla radura di fronte a lui, centocinquanta iarde più in là.
Su, salta fuori, vecchio bastardo, pensava. Me la sto guadagnando questa caccia, no?
Poi vide qualcosa. Ma era solo una cerva col suo cerbiatto: con andatura pigra, vennero giù dalla pista che scendeva lungo il fianco della collina, per andare a pascolare nella parte bassa della foresta, torpidamente ignari, com’è proprio degli animali, del rischio di incontrare i cacciatori della domenica che li attendevano al varco per ucciderli.
Bob rimase immobile, appoggiato al suo albero.
Il dottor Dobbler deglutì imbarazzato, cercando di decifrare il mistero celato nello sguardo gelido del colonnello Shreck. Come sempre, però, al colonnello bastò lanciare intorno un’occhiata torva per ribadire la sua supremazia. Shreck era davvero temibile. L’uomo più temibile che Dobbler avesse mai conosciuto, più ancora di Russell Isandhlwana, lo spacciatore di droga che aveva abusato di lui per la prima volta nel locale docce del Norfolk State Penitentiary, Massachusetts, e che aveva continuato a riservargli lo stesso degradante trattamento per i tre lunghissimi mesi di permanenza in galera.
Era tardi. Fuori la pioggia tambureggiava sul tetto di lamiera della baracca. Un tanfo di ruggine, vecchio cuoio per imbottiture, polvere, calzini sporchi e birra stantia permeava la stanza; un lezzo da prigione, anche se quella non era una prigione, ma la sede operativa di un’organizzazione denominata RamDyne Security, una sede che occupava un appezzamento di terreno incolto di qualche centinaio di acri, in un angolo imprecisato della Virginia.
Stavano seduti a un capo di una saletta oscurata; c’era anche il brutale Jack Payne, il più temibile individuo sulla faccia della terra dopo il colonnello Shreck; erano solo loro tre, le menti di quell’operazione, una forza davvero esigua per il compito immenso, e quasi altrettanto funesto, che avevano davanti.
Sul piccolo schermo di un monitor televisivo spiccavano brillanti i volti di quattro uomini. Ognuno di loro era stato prescelto in mezzo a centinaia di altri; tutti i candidati erano stati individuati dal centro ricerche, vagliati a lungo dal centro pianificazione, spiati dai professionisti del nucleo operativo, finché si erano ridotti a quei quattro. Toccava a Dobbler tracciare un loro profilo psicologico, per consentire al colonnello Raymond Shreck di prendere l’importante decisione.
Ognuno dei finalisti aveva qualche pecca, ovviamente, che il dottor Dobbler si incaricò di evidenziare. In fin dei conti, era pur sempre uno psichiatra, anche se non era più autorizzato a esercitare. Individuare le pecche del prossimo era la sua specialità.
— Troppo narcisista — disse di uno. — Passa troppo tempo a curare la capigliatura. Mai fidarsi di uno capace di spendere settantacinque dollari per un taglio di capelli. Significa che si aspetta di ricevere un trattamento speciale. Noi abbiamo bisogno di qualcuno che sia speciale ma che non abbia mai preteso di essere trattato in modo diverso dagli altri.
Quanto al numero due della lista: — Troppo furbastro. Brillante, grandissima abilità tattica. Prende tutto come fosse un gioco e si impegna per sventare in anticipo le mosse dell’avversario. Ma non gli interessa nient’altro.
Del terzo, disse: — Meravigliosamente stupido. Ma lento. Sarebbe perfetto dal punto di vista delle qualità che a noi interessano e dell’esperienza tecnica. Obbediente come un cane. Ma lento. Troppo lento, letteralmente, troppo ansioso di compiacere. Troppo rigido.
— Meno fronzoli, Dobbler — disse il colonnello Shreck, in tono tagliente. — Si limiti ai dati essenziali, senza ricamarci sopra.
Dobbler ebbe un lieve sussulto.
— Bene — disse infine. — Questo restringe la rosa dei candidati a uno solo.
John Payne non poteva soffrire Dobbler. Così roseo e cicciottello, con la sua grossa testa, la stentata barbetta a punta, le dita lunghe e affusolate; ai suoi occhi rappresentava il prototipo dello smidollato. Aveva anche le tette. Era tale e quale a una donna, e approfittava della minima occasione per mettersi in mostra.
Jack Payne era di bassa statura, con un’espressione maligna stampata sul viso carnoso; i tatuaggi sul corpo e il lampo gelido e beffardo dei suoi occhietti davano immediatamente l’idea di un tipo pericoloso. Aveva una forza incredibile, ed era praticamente insensibile al dolore. La sua specialità era quella di portare a termine qualsiasi cosa, buona o cattiva che fosse. Posò la mano sul calcio a pistola del fucile Remington 1100 (un fucile da caccia a canne mozze utilizzato anche dal servizio di protezione del presidente degli Stati Uniti), che portava infilato in un’apposita fondina ascellare sotto il braccio sinistro. Nel lungo caricatore tubolare sotto la canna c’erano sei cartucce doppio-zero .12. Ogni cartuccia conteneva nove pallettoni .32. Con un’arma del genere poteva sparare cinquantaquattro proiettili, tutti potenzialmente letali, in meno di cinque secondi. Aveva portato a termine molti lavoretti, in questo modo.
— Il suo curriculum militare è impressionante — stava dicendo Dobbler. — Ha abbattuto ufficialmente ottantasette uomini. Li ha eliminati dando loro la caccia o affrontandoli individualmente nelle condizioni più difficili che si possano immaginare. Converrete anche voi che è stupefacente.
Qualche attimo di silenzio.
— Io ne ho fatti fuori ottantasette in un pomeriggio — disse infine Jack.
Jack aveva sostenuto un lungo assedio in un campo fortificato nel Sud del Vietnam, e negli ultimi giorni i vietcong avevano sferrato un attacco in massa, a ondate successive, senza curarsi delle possibili perdite.
— Già, ma tu li hai falciati tutti insieme con una mitragliatrice pesante M60 — disse il colonnello Shreck. — C’ero anch’io. Vada avanti, Dobbler.
Jack notò che Dobbler stava tremando. Gli capitava sovente, ancora adesso, quando il colonnello lo apostrofava direttamente. Sulle labbra di Jack affiorò un ghigno di scherno. Lo psichiatra aveva appiccicato addosso l’odore della paura. Avvertire negli altri quel genere di odore era una cosa che lo divertiva molto.
Ma Dobbler proseguì: — Sto parlando, ovviamente, del sergente maggiore dei Marines Bob Lee Swagger, attualmente a riposo, di Blue Eye, Arkansas. Soprannominato “Bob l’Infallibile”. Tra tutti i Marines che hanno combattuto in Vietnam, è al secondo posto per numero di nemici abbattuti riconosciuto ufficialmente. Insomma, abbiamo a che fare con l’asso americano dei cecchini.
Bob amava la magia che aleggiava intorno agli animali della foresta. Nella caccia agli uomini non c’era nessuna magia. Gli uomini erano stupidi. Con le loro chiacchiere e i loro rumori molesti, tradivano la propria presenza quando erano lontani ancora miglia dalla zona dell’agguato.
I cervi, invece, particolarmente i maestosi cervi maschi delle Ouachita Mountains, sbucavano dal nulla come fantasmi, o come visitatori da un altro pianeta, dotati di una civiltà molto superiore a quella degli umani. Ed essi erano veramente superiori, a loro modo, Bob lo sapeva: i loro sensi acutissimi erano concentrati esclusivamente sul breve spazio di tempo che scorreva nel presente. Era il loro segreto. Non si curavano del tempo appena trascorso, che aveva cessato interamente di esistere, era letteralmente evaporato nell’istante stesso in cui avevano sperimentato l’ultimo accadimento. Guardavano solo a quello che stava per accadere nei brevi istanti successivi. Né passato né futuro. Esisteva solo il qui e ora.
Così, quando Tim sbucò nel rado sottobosco tipico delle foreste dell’Arkansas come potrebbe riaffiorare un ricordo fortemente impresso nella memoria, Bob rimase stupefatto davanti a tanta bellezza, ma non si lasciò sorprendere da quella subitanea apparizione.
Per lunga esperienza, acquisita nelle condizioni più difficili, Bob sapeva quanto fosse pericoloso lasciarsi sorprendere. Bastava un goffo sussulto causato dalla sorpresa per perdere il proprio vantaggio.
Bob non mosse un muscolo.
Era appostato sottovento, per evitare che il suo odore potesse arrivare fino alle narici sensibili di Tim; ma per evitare qualsiasi rischio del genere, il giorno prima si era lavato accuratamente con sapone inodore, aveva dato aria ai vestiti e si era perfino lavato i denti con acqua ossigenata, per evitare di tradire la propria presenza con una bocca che sapeva di dentifricio.
L’animale girò la testa e parve guardare in direzione di Bob.
Non puoi vedermi, si disse Bob. So come funziona il tuo sistema sensoriale. Sei bravissimo a cogliere il minimo movimento, e a darti precipitosamente alla fuga al primo segno di pericolo; ma non sei capace di riconoscere la sagoma di un uomo perfettamente immobile. Ecco, tu stai guardando dritto verso di me, adesso, ma non puoi vedermi.
Lasciò che lo sguardo dell’animale scivolasse su di lui, finché non si rivolse altrove. Questa era la fase della caccia che gli piaceva di più, l’eccitante fragilità di quei momenti, l’esile legame tra il cervo e l’uomo, stabilito, ma solo per pochi istanti, dal fucile; sapendo che tra un attimo, se il cervo restava dov’era, se il vento restava com’era, se la fortuna non gli girava le spalle e i nervi non gli cedevano, avrebbe inquadrato Tim nel reticolo del congegno di puntamento.
Alzò il fucile.
Era un Remington 700 con otturatore scorrevole-girevole azionato da un manubrio, sul modello classico del Mauser, amorosamente procurato dall’unità tiratori scelti dei Marines e lasciatogli in dono quando un’invalidità permanente l’aveva costretto a lasciare il corpo nel 1975. Aveva all’origine una canna pesante capace di neutralizzare quasi totalmente le vibrazioni conseguenti allo sparo, che Bob aveva sostituito in seguito con una di acciaio inossidabile prodotta dalla Hart, rivestita esternamente di teflon opaco, sicché ora pareva di peltro anticato. La canna, la meccanica, e perfino le viti erano connesse con alloggiamenti in alluminio Devcon a un fusto nero antiriflesso di fibra di vetro e kevlar. Le viti erano inserite in apposite sedi filettate d’alluminio, e strette con una coppia torcente di trenta chilogrammi. Gli adattamenti non concedevano nulla all’estetica, ma la “bruttezza” del fucile era inversamente proporzionale alla sua efficienza. Era calibrato per le munizioni Winchester .308, e una cartuccia di questo tipo, ricaricata da Bob con un più idoneo dosaggio della polvere da sparo, era adesso inserita nella camera di scoppio.
Bob imbracciò il fucile con movenze sciolte e armoniose, perfezionate in lunghi anni di pratica. In condizioni un po’ meno avverse avr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. SHOOTER PUNTO DI IMPATTO
  4. PERSONAGGI PRINCIPALI
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33
  38. 34
  39. 35
  40. 36
  41. 37
  42. 38
  43. 39
  44. Copyright